“Ho sudato tanto per far sudare meno mio figlio. Ora, nell’era dei numeri soli con gli zero davanti, lui sa tutto sul comunismo, io so che se sarà fortunato avrò il mio posto”. Questo è quello in cui si barcamenavano i nostri padri, le loro illusioni, sgomenti e realtà spogliate dalla falsità dei luoghi non comuni, anzi spesso mai accostati nemmeno col pensiero. “Cucina povera” è il racconto, i racconti della provincia umile e sottoposta ai riflettenti sguardi del coraggio, ed è il disco di Luigi Tenca e i ManzOni, la formazione veneta che giunge al secondo lavoro ufficiale, una prosaica sequela di stati pensierosi e stranianti che fanno, e lo sono, filo conduttore di una fascinazione opaca e grigia, di quella poetica descrittiva alla Olmi della cinematografia, tracce in cui compaiono come fantasmi ricorrenti le vocalità di un Ciampi, qualcosa dei Madrigali Magri e un fitta nebbia o caligine a seconda dal punto di ascolto, un ascolto che si fa attento al passaggio crepuscolare di questa verginità rozza e magnificente.
Un’ottica secca come un rubinetto d’estate, un voce scandaglia storie di non-lavoro, scarsa salute o per niente, la noia, il deliquio, l’essere padrone di niente ed essere niente sotto un padrone, nove tracce ossessive e amare che, come in un rosario laico, fanno novena sociale ed umana, chitarre, fruscii, meccaniche industriali, rumori ripetuti a ritmo incostante fanno la gloria del registrato, una sonorizzazione off che cammina nei borders dell’anima e di una fisicità emaciata e malata; con Tenca, contribuiscono a colorare di fuliggine questo bel disco Ummer Freguia, Fiorenzo Fuolega, Carlo Trevisan ed Emilio Veronese, e quello che hanno messo dentro questa tracklist è alta narrazione neo-realista, una fluida scheggia di vetro tagliente che scaglia armoniche sensazioni Ferrettiane “Dal diario, a mia madre”, “Scusami”, arpeggia acusticamente tra le volte trasparenti di un Paolo Capodacqua “Una garzantina” o si perde galleggiando tra le architetture celestiali alla Steve Howe e dei suoi pindarici voli di corde “Dimmi se è vero”.
Rimane la “ricca” crudezza di un disco che fruga tra le macerie dell’esistente, dello ieri e dell’oggi, scava come una macchina della verità su chiazze di sangue rappreso e di nuove gocce che ne prendono il posto, tracce che “tracciano” non righe da seguire, ma vene turgide che chiedono perdono per la forte e drammatica voglia che hanno di scoppiare.