Marco Lavagno Tag Archive

Arturocontromano – Pastis

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Questa band calca le scene torinesi da più di 15 anni, come un fiume in piena tra Ska, Reggae, Folk nostrano, Funky e cantato in italiano mai banale e fuori dal tempo. Anche questo nuovissimo Pastis è fresco e concreto. A cavallo tra la maturità e la poca voglia di crescere, restare sognatori incalliti con i piedi per terra. L’inizio di “E la Sera” è festa, con quelle voci sotto che sanno di vino rosso versato in bicchieri da piola. Il contrabbasso e la batteria swingata sono gioia pura, perfetto poi l’incastro con il piano wester e con il sax. Un suono che ammette miriadi di sfumature, “Fermo a Carnevale” è sarcastica, contro ogni tipo di moda, sbilenca con quella tromba e quella ballata in levare. Sembra il gioco di un equilibrista che si destreggia con una gamba sola, il senso di caduta costante aumenta il divertimento. Il tutto poi impreziosito dalla collaborazione con gli Eugenio in Via di Gioia, tra i migliori gruppi in circolazione oggi a Torino.

La canzone più bella arriva con “Il Cassetto”, vecchia fotografia impolverata. Semplice, uno schiaffo in faccia di nostalgia e i rimpianti di una fredda divisione. Ma ci pensa il gruppo a creare un suono magico su un tema alquanto scontato, potere sopraffino del Pop. Il resto del disco scorre come acqua tra le dita in una calda notte d’estate, fresca e dissetante (anche se la bevanda più adatta a rappresentare un disco che si chiama “Pastis” di certo non è l’acqua!). Non mancano però temi più caldi che le mani le bruciano. “Il Senso Del Non Senso” galleggia su un substrato ballabile e latino, le parole sono però le più impegnate del disco e si collocano nel bel mezzo della striscia di Gaza. “Pastis” è eterogeneo, multiculturale ma ha il suo filo logico che lega una canzone all’altra e ogni brano ha in sé qualcosa che merita un commento. “La Mia Esplosione” e “Sospiro” dimostrano come gli Arturocontromano giochino col Jazz, avvicinandosi a Vinicio Capossela ma anche al maestro Paolo Conte. Il sax domina la scena in questi due pezzi stradaioli. “Vorrei Adesso” e “Dall’Altra Parte dell’Oceano” sono scanzonate e studiate a puntino per scatenare il pubblico di un concerto. Senza dimenticare mai quel senso di nostalgia e di consapevolezza che racchiude tutto il Pastis. Il titolo descrive tutto per bene, questo è un album da bere: per dimenticare le brutte batoste, per ricordare i bei tempi, per un brindisi tra vecchi amici o semplicemente per sciogliere più le gambe e fare baldoria.

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Shandon

Written by Live Report

L’atmosfera a Hiroshima è indubbiamente congelata, nonostante fuori ci sia un clima tutt’altro che rigido e i primi venticelli di primavera scaldino le ossa. Dentro tutto è frizzato, a quindici anni fa, quando a Hiroshima c’erano esattamente le stesse facce. Ora con meno capelli e più barba. Meno rasta e più rughe, segni di quegli anni in cui le sigarette (e non solo quelle) il pomeriggio erano sempre troppe. Non sono mai stato un amante del genere ma la curiosità di vedere gli Shandon, dodici anni dopo e con un nuovo disco, era grande. Per vedere quanto il loro suono fosse bloccato e imbrigliato ancora nei vecchi schemi fatti di power chord distortissimi, di ritmiche in levare e di fiati infilati qua e la. Le aspettative erano relativamente alte, visto che il recente passato di Olly l’ha portato a spaziare tra moderno e vintage, tra l’Alternative Rock dei The Fire e il Rythm n’Blues dei Soul Rockets. Tra generi così distanti tra loro ma sempre uniti dall’inconfondibile voce del frontman milanese, a mio avviso ancora una delle migliori ugole in circolazione in Italia.

L’apertura con i Rimozionekoatta è quello che ci aspettiamo, Ska dritto e puro, senza scendere a nessun compromesso. Scalda la platea a dovere prima dell’arrivo delle grandi star. Gli Shandon si fanno aspettare con un cambio palco da grandi occasioni, per poi salire sul palco alle 23:30 cercando l’ovazione di un Hiroshima bello pieno. L’inizio con “Placebo Effect” non fa sperare a un gran cambiamento, anche se i suoni risultano più al passo coi tempi. La batteria di Alecs (già con Olly nei The Fire) è tanto precisa nei pezzi più punkettoni, quanto poco efficace nei ritmi Ska. Perde groove nella scatenata “A Knightly Forest” o nella nuovissima “Skate Ska”, dove  pare che Olly con questa reunion abbia solo voglia di tornare un po’ ragazzino. Anche se, a fare i pisitini, di vera e propria reunion non si può parlare dato che della vecchia formazione vediamo solo Olly e il trombonista Max Finazzi. Il concerto è minato dai vari germi che pare abbiamo intaccato la gola di Olly, che comunque si tiene solo un briciolo in partenza per poi cavarsela sempre egregiamente con la sua ugola d’acciaio. Già in “Egostasi” il cantante milanese libera i demoni che gli avvinghiano le corde vocali, per sparare fuori i suoi ruggiti ben incastrati ai sempre ben graditi fiati. I nuovi brani toccano sicuramente più il sound di “Fetish” che delle altre produzioni. Così “Vuoto” e “Tony Alva” scatenano la platea di adolescenti cresciuti un po’ troppo, mentre il discorso-dedica di “Heart Attack” al padre, dimostra come Olly sia un personaggio ancora molto genuino. Il mix di Punk, Ska e Hardcore è sempre stato e rimane il pane degli Shandon, che sparano un concerto lungo, sudato, a tratti intenso e divertente ma che pare non decollare a dovere. Anche i pezzi più popolari come “Viola”, la velocissima “My Friends” e la finale “Janet”, teatro del classico pogo “wall of death”, non schiacciano via le incertezze su una band che suona troppo radicata agli anni 90. L’ecletticità di Olly spesso salva una band che suona molto bene ma perde di carattere e cerca sempre di tenere un piede nel presente e uno nel passato, snaturando la vera anima di quelli che erano gli Shandon e senza aggiungere nulla di veramente graffiante. Sicuramente la voglia del pubblico di ragazzi cresciutelli è soddisfatta, ricordare i primi concerti e le prime trasgressioni, ma da chi si propone in un palco così dopo tanti anni, ci si aspetta una marcia in più.

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Perturbazione – Le Storie che ci Raccontiamo

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I Perturbazione sono eterni outsider. Riescono a rimanere sempre nel limbo, pronti a fare il grande salto ma senza arrivare ad acciuffare un posto fisso tra le stelle. La loro carriera (ormai sono quasi trent’anni!) è una continua montagna russa e poi questo disco arriva dopo quelli che sono stati indubbiamente il momento più alto e più basso della giostra. Prima il boom de “L’Unica”, di Sanremo e del tour nelle piazze, poi il terremoto che ha visto Gigi Giancursi e Elena Diana uscire dal gruppo. Le Storie che ci Raccontiamo esce a quasi due anni di distanza da tutto questo e aspetta la quiete dopo la tempesta, ma i fantasmi del passato sono dietro l’angolo pronti a ghignare e a trovare tutte le piccole mancanze del presente. C’era dunque l’aria di un disco che lottasse con le unghie e coi denti alla salvezza. Ma i Perturbazione, si sa, colpiscono nel segno proprio quando le aspettative intorno a loro sono basse. E così l’inizio col singolo “Dipende da Te” è una falsa partenza, quasi a dire: “guardate che non siamo solo un fottuto singolo”.  L’album cresce subito con un pezzo travolgente come “Trentenni”, ruffiana, dal titolo che puzza di banalità ma con un testo per nulla scontato, Elettro Pop di alta qualità. Si perché senza i ricami della chitarra di Gigi e l’eleganza del violoncello di Elena la virata Elettronica era sicuramente la scelta più ovvia. A volte l’elettronico diventa anche più elettrico, succede in “Ti aspettavo Già”. I Perturbazione hanno ben più di quarant’anni e bisogna dire che scrivono canzoni fresche e mature allo stesso tempo. Raccontano di amori adolescenziali, dei bei tempi, di stupida gioventù ma puzzano di consapevolezza. Qui la voce di Tommaso è alta, decisa ma trema quando si avvicina a parole chiave come “dolore, gioia e tradimento”. “Cara Rubrica del Cuore” è in pieno stile Perturbazione e avere un proprio stile nella musica leggera italiana vuol dire aver ormai lasciato un segno indelebile nel panorama. La canzone è poi impreziosita dalla voce Andrea Mirò, che sarà pure la musa che accompagnerà il gruppo in tour. “Cinico” invece ha un arrangiamento facile facile (anche se dietro il mixer c’è un colosso come Tommaso Colliva) ed è terribilmente orecchiabile. “La Prossima Estate” forse esagera, Pop troppo banalotto e semplice per una band di tale spessore. Il ritornello è decisamente da dimenticare, come tutti gli ultimi brani del disco. Suonano tutti un po’ come riempitivi con l’unica eccezione per “Le Storie che ci Raccontiamo”. Lunga ballata da sei minuti che ricama l’ennesimo arrangiamento facile e puntato su di un beat ben scandito sotto cui la band suona e ci spiega per bene che l’evoluzione non è semplicemente aggrapparsi agli scogli. Questo album è quello che ci aspettavamo in fondo, ma ben curato e apparecchiato. Con canzonette che entrano di prepotenza nella storia della band. Certo, non sarà il loro capolavoro ma lascia i Perturbazione ben saldi nella Serie A della musica italiana.

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The Tallest Man on Earth

Written by Live Report

Sono passati quattro anni da quando Kristian Mattson passò dalla nostra Torino per un concerto che lo vedeva sul palco da solo, ad occupare uno spazio piccolo e pieno di gente (quello di Spazio 211), con le corde della sua acustica e quella voce un po’ nebulosa ma così affilata da rimanere per sempre conficcata nel tuo sterno. Oggi invece il Tallest Man on Earth sale sul palco di Hiroshima, con un biglietto che costa più di 20 euro e una band alle spalle. Diciamo che si capisce che qualcosa sia cambiato già prima che inizi a suonare. Ci sono cose che per fortuna non cambiano: la prima è la sala strapiena (e qui di persone ce ne stanno più di mille!), la seconda sono le sue incredibili canzoni. Dove chitarra e corde vocali si fondono in un amalgama unico, caldo e freddo, forte e piano. Cosa manca? Manca quella veracità e la spontaneità nel suono delle canzoni di Kristian, che vengono spesso snaturate da una band ineccepibile a livello sonoro ma che poco segue gli spazi e le tensioni del cantautore.
L’inizio di “Wind and Walls” è quasi spiazzante con la band al completo, ma la ruota inizia a girare meglio dal secondo brano “1904”, dove però è sempre Tallest Man a governare l’orchestra con il suo fingerpicking indemoniato. Il passaggio da solista a band porta il ragazzone svedese ad un diverso approccio verso il pubblico, più spavaldo, meno curioso e si presenta pure con un bel bicipite da palestrato. Più Rock Star insomma. E questo poco si addice alla poesia delle sue canzoni che dalle stelle, in cui meritano di stare, finiscono catapultate per strada. Dove non hanno la corazza adatta per sopravvivere. Lo show è più energico e meno etereo e perde la sua vera forza spirituale. Finisce per assomigliarne a tanti altri.
La situazione si solleva con i pezzi del nuovo disco (Dark Bird is Home, uscito nel Maggio 2015) e allora “Slow Dance” e “Fields of Our Home” trovano il loro perché anche con basso, steel guitar e batteria. Poi c’è il polistrumentista Mike Noyce, biondo e fragilino, che tra violino e chitarra elettrica è quello che pare meglio destreggiarsi tra le atmosfere folkeggianti. Bastano pochi pezzi e la band si rintana, il palco è tutto di Kristian che sfoggia un trittico che fa capire quanti pezzi incredibili abbia già scritto in soli quattro album. “Love Is All”, “I Won’t Be Found” e “The Gardener” lasciano la platea ammutolita, anche per il parco chitarre che sfoggia in solo venti minuti di concerto. I fantasmi di Dylan e Nick Drake aleggiano di nuovo nell’aria e la scioltezza del ragazzo denota maturità ma anche un po’ troppa spavalderia. Quando rientra la band per il singolo “Sagres” sembra quasi ringalluzzita e dimostra come l’ultima produzione calzi a pennello con questi arrangiamenti più Pop e più corali. Kristen chiede silenzio quando sale al piano per interpretare “Little Nowhere Town”, il suo stile è inconfondibile anche quando suona (quasi non curante) un altro strumento. Il talento non si discute e il concerto è musicalmente perfetto. Ma la band dietro è quasi tappezzeria, non osa mai nulla di fuori dal risultato tiepido e sicuro, lasciando i riflettori al solo e unico protagonista. Così “Seventeen”, una particolarmente gioiosa “King of Spain” e la finale “Dark Bird is Home” (duettata con l’ospite della serata The Tarantula WaltZ) chiudono un concerto insipido e che purtroppo non regala le emozioni attese, ma solo tanta forma.
C’è tempo ancora per due brani. In “The Dreamer” sembra che i sogni siano banalizzati e non mettano in luce lo straordinario potere di immaginazione che abbiamo alla nostra portata, mentre “Like a Weel”, eseguita anche questa solo chitarra e voce, vede i quattro della band in un angolino ad aspettare che il re della serata strappi gli applausi. Certi concerti non dovrebbero essere snaturati così. La bellezza della musica di Tallest Man on Earth stasera si è un po’ persa e la sua musica è diventata un contorno, lasciando la magia per quattro riflettori in più e una platea più grande.

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Gianmarco Basta – Secondo Basta

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Scenette teatrali più che canzoni. Tant’è che Gianmarco Basta si autodefinisce “cantattore” e si ispira ai maestri Iannacci e Ciampi, senza però arrivare a pungere troppo con le parole o con il suono. Per fortuna le storie raccontate hanno invece qualche lampo di vitalità e toccano con mano i vicoli, i lampioni e le mura di una Bologna viziata, che si nasconde male. “Dandy Pub” è la storia di ex che cambiano sesso, sotto un Pop poco efficace e quel cambio di tempo nel ritornello a dir poco arruffato. Il blusaccio tragicomico di “Che Insetto ti ha Punto?” alza un poco il livello compositivo (non di certo originale) anche se la voce di Gianmarco rimane spesso insipida e poco incisiva. Un briciolo di convinzione in più avrebbe sicuramente svoltato e dato più carattere ai brani. “Contanti” passa al Reggae nostrano, alla Rino Gaetano, marcato su antichi proverbi popolari (per muovere un morto ci vuole una vita intera). La voce femminile per fortuna butta un briciolo di pepe ad una canzone anonima e che non trova nell’ arrangiamento la grinta necessaria.
Ci aspettavamo il pezzo intimista ed ecco “Artista Bonsai”, puramente autobiografica. Ti ricordi lo scambio dell’anello, poco importa se era solo un tarallo, Gianmarco butta veleno verso una società che pare non comprenderlo. I temi delle canzonette sono molto vari ma trovano in qualche modo il loro denominatore comune. Non tanto diversa è dunque la condizione di disagio in “Una Vita per la Snai” o “Depressione (Xanax)”, quest’ultima strizza l’occhio al cantautorato più classico ma non per questo graffiante. Giusto degno di nota è il coro vagamente ecclesiastico nel finale.
La parte migliore del disco sta nelle storie de “La Corriera del Mattino”, finalmente una canzone che rende giustizia al suono sbilenco, ubriaco e zoppicante del ragazzo bolognese. Qui si riescono a sentire gli odori marci della notte, l’imperfezione di questa canzone sincera lascia quel sorriso che purtroppo non riesce ad uscire nelle altre tracce del disco. La banalità delle rime e dei ritmi sempre un po’ sbilenchi rendono tutto troppo piatto, anche in canzoni come “Cerco Casa” che con quel briciolo di attenzione sarebbe potuta decollare. Le storielle finiscono con una canzone che (molto probabilmente senza volerlo) sa del primo Vasco Rossi. “Lucia della Notte”, corre da sola insieme al pianoforte martellante che la rende terribilmente frenetica. Un flusso di parole che puzzano d’alcol sfocia nel bel assolo di sax, sentito e vero, tanto da farci venire voglia di fare un brindisi a Gianmarco. Anche se non ha sfornato un capolavoro, il suo disco rimane sincero, come un buon bicchiere di vinaccio rosso.

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Nero – Lust Souls

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Nero è il colore giusto. Perfetto per lo sporco suono New Wave che produce, con tanto di chitarre insistenti e una voce cupa, sensuale e viscida come la pelle di un serpente. Il suo disco d’esordio Lust Soul è il perfetto connubio tra vintage e modernità. Nero di certo non è un novellino, ma annovera un passato con band del calibro dei The Detonators e The Doggs (per altro recensiti dal sottoscritto qui su Rockambula qualche anno fa). Il suo background è dunque fissato su solide basi di sporco Rock’N’Roll, tra Black Sabbath e Stooges per intenderci. Indubbiamente in questo lavoro solita la sua rotta vira verso sonorità più lente e scure, più ossessive e più schizofreniche. Come la stupenda “I’m The Sin”, un vortice di passione dentro la frenesia dei Joy Division senza perdere il senno, grazie a una melodia trascinante. Il suono dietro è perfetto, curato in ogni minimo dettaglio: rullante che martella il nostro cervello, basso cadenzato e ben definito che scombussola il nostro bacino. “In my Town” è un piccolo capolavoro minimal, quello che sarebbero i Depeche Mode senza una mega produzione e senza dimenticare le tenebre di Ozzy e dei suoi Black Sabbath. Guardando ad una città più grande, scappa anche la vicinanza alla New York decadente di Lou Reed. La canzone è un viaggio psichedelico in una grotta completamente buia, umida senza via d’uscita, ma con la consapevolezza che nessuno ci farà del male. Sicurezza che viene meno nella terrificante “Bleeding”, ritmica quasi Doom immersa in chitarre ululanti e un piano che compare ogni tanto come uno spaventoso fantasma. I ritmi si innalzano in “Over my Dead Body”, riff Punk venuto dallo spazio, basso incalzante e synth svarionanti dominano l’atmosfera e ci introducono in un crescendo interminabile. Come se Marc Bolan e i suoi T-Rex incontrassero in studio i Daft Punk. Nero riesce con grande naturalezza a mischiare sensazioni, suoni, spazi e periodi storici. Il tutto grazie ad un’improbabile macchina del tempo, scassata, ma terribilmente efficace. “Old Demons” è superba, sembra uscita in due minuti di prove e ha l’efficacia di essere vera e nostra. Ci togliere dal tunnel buio per portarci a braccetto negli inferi, dove rimaniamo bloccati fino a “Spirit”. Battiamo il cranio contro un muro rovente. Si questa elettronica è calda, è vera come un Les Paul collegato al suo Marshall JCM 800. Nero poi ci saluta con le schitarrate distese di “Tomorrow Never Comes”, riporta tutto alla semplicità, ad un triste epilogo, a un dolore viscerale. “Vedrai un grave dolore e in quel dolore sarai felice”, scriveva Dostoevskij.

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Gli Articoli più letti del 2015 su Rockambula

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Verbaspinae – Tre

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Spigoloso è il primo aggettivo che mi viene in mente ascoltando questo album del trio milanese Verbaspinae. Un disco ben suonato, ben prodotto, ben interpretato ma che sicuramente non ha nessuna parete morbida o malleabile. Di Pop qui c’è poco e niente, ma piuttosto una stanza buia e ricca di insidie. “Il Pezzo” è proprio l’anti-Pop per eccellenza, metodica fuga dalla melodia. Una forza che stride nelle nostre orecchie. Pochi versi e non in tutti i brani, tanta Elettronica, a volte distesa e leggera come un corpo sinuoso che fluttua nell’aria, a volte rigida come il marmo. Così parte “Vyger”, nemmeno una parola e suoni che si incastrano tra New Wave e il Blues di un’armonica. Un romanticismo latente e il vecchio nostalgico che si incontra col ragazzetto superbo smanettone col computer. Un viaggio stellare fatto con uno shuttle degli anni 70. “Ieridomani” è accompagnato da un riff martellante, da sentenze ermetiche, da una bella chitarra distorta e da synth impazziti che danno un po’ di verve al pezzo. Il tutto si incastra in una grande opera di produzione ed esecuzione. Cura certosina nella ricerca di suoni e mix. Questo pezzo è proprio quello che sarebbero i Massimo Volume se incontrassero i Daft Punk. “Novantuno” continua sullo stesso filone, le tastierone governano un groove elettronico, quasi robotico e macchinoso. Come un ingranaggio che si inceppa, come il Charlie Chaplin dei Tempi Moderni portato nel 2015. Sì, si può dire tutto su questo gruppo ma non che suoni vecchio o già sentito. E nemmeno che non sbirci costantemente verso quella che è la stroria del Rock. Anzi azzarda fin troppo quando nella title track sfodera un suono tra Space Rock e Gospel in un’orchestrazione che sottolinea ancora una volta il lavoro immenso che sta dietro al nome Verbaspinae. Difficilissimo da digerire. Un pugno in pancia come la ballata “Parole”, dove finalmente escono versi semplici, vomitati di getto, intensi, che escono dalla bocca di Germano Allegrezza insieme a sangue sporco e una risata storta. Una canzone che pare uscita dagli archivi di un Manuel Agnelli nei suoi tempi migliori.  Il Blues poi torna nel finale cupo di “Ergot” e si mischia alla onnipresente elettronica, qui marcia, contaminata di quello strato di polvere che rende il pezzo, privo di parole. Una vera e propria discesa negli inferi. Dalle stelle agli abissi più profondi, questo album è ricco di spunti, di influenze e di pensieri malati. Incubi che sono così reali e che si sentono davvero molto molto bene.

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Tymon Dogg – Made of Light

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La luce artificiale in copertina potrebbe ingannare. Una luce fredda e squadrata che poco si intona con il violino del musicista britannico. Cinquant’anni di carriera e un portfolio da far raddrizzare tutti i peli in corpo. Collaborazioni con Paul McCartney, James Taylor, Jimi Page, The Moody Blues, Ian Hunter. Per non parlare della sua fraterna amicizia con Joe Strummer, che l’ha portato a militare anche nei Mescaleros (stupendo il suo violino in “Silver and Gold” dall’album “Streetcore”). La luce è dunque vivida, offuscata dalle nuvole della Gran Bretagna, bagnata come la rugiada e bianca come la pelle dell’ormai sessantacinquenne Tymon Dogg. Made of Light è un album estremamente maturo eppure così vicino alle radici della musica Folk d’oltremanica, con un piede nella prateria e uno verso la grande città. Un suono di altri tempi trapiantato nel 2015. La forza della sua voce e del violino vengono subito sprigionate dalla rabbiosa “Conscience Money”, violenta, virale, quasi a risvegliare Strummer e i fantasmi della ribellione. “A Pound of Grain” è proprio un inno al veganesimo. A detta di Tymon la canzone è stata proprio ispirata dai discorsi con l’ex Clash riguardo lo sfruttamento degli animali da parte dell’uomo. I suoni sono acustici ma risuona in ogni nota la prepotenza del Punk degli anni d’oro e quello spirito gypsy che strappa sempre un sorriso sulle labbra. La title track è intensa, liturgica, grido straziante a richiamare un Dio dimenticato. Qui Tymon si fa accompagnare da chitarre classiche, mentre il violino innalza la voce verso il cielo. Le sfaccettature di questo disco non finiscono qui; “Like I Used to Be” e “Perfect Match” sembrano rubate ai Beatles di Revolver, un bel sorriso in un giorno esageratamente estivo in un paesino d’Inghilterra. La melodia danza indisturbata anche nella meravigliosa ballata “As I Make my Way”, simbolo della spontaneità e della semplicità di questo onestissimo musicista. Un canto quasi ubriaco, e per questo vera quanto mai. La voce di Tymon Dogg è tremendamente inglese e tremendamente saggia, in una canzone è capace di descriverci la meraviglia della vita buttando dentro suo padre, suo figlio e tutto se stesso. Aggiungiamoci la forza di un violino Punk mai troppo invadente e di una luce tutt’altro che artificiale, capace di illuminare il nostro paesaggio creando colori abbaglianti e ombre che con questo suono fanno meno paura.

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Malerba – La Deriva dei Sogni

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Devo dire che ho avuto molta difficoltà a giudicare questo primo album dei bolognesi Malerba. Sebbene sia un esordio, appare come un disco d’esperienza, un disco che pesca qua e la nel tempo e spazia in tutto lo scibile musicale italiano. Il risultato è interessante ma a tratti insipido. Sicuramente da apprezzare c’è il lavoro di produzione al limite del maniacale e alcuni spunti di buona musica italiana. L’incipit non è dei migliori e non rende giustizia ai bolognesi. “Francine” è un po’ sciatta come il personaggio di cui si parla: un tentativo di aggressività sonora non totalmente riuscito. Prova di forza che guarda troppo alle prime produzioni dei Litfiba. “Dove Crescono i Fiori del Male” vacilla per la poca “pompa” (master un po’ trascurato?), ma richiama i vecchi fasti della New Wave con tanto di testo cupo e voce dalle tenebre. Per sentire la prima perla dobbiamo attendere l’arrivo di “Sunshine”. Soffice, parlata, una vera confessione a cuore aperto. Forse troppo simile a “Volo Così” di Paola Turci ma comunque personale e vincente. Superlativi anche l’incastro con la voce femminile e il sapiente arrangiamento di fiati. Perfetta canzone d’amore, per nulla scontata. Il tema caldo del lavoro sbuca fuori con un titolo divertente come “Il Blues della Cassa Integrazione”, che però scade in un testo banalotto. Peccato perché qui basso e batteria tirano avanti un bel groove. Il tempo storto di “Ricordando te – Fingere di Essere Felice” ci sbilancia con qualche slancio Prog  Rock. Purtroppo non ci fa cadere, dopo lo sgambetto iniziale; questo pezzettino strumentale ci conduce a “Marylin” porta ad un suono più standard, acustico e moderno ma con un testo vero e sincero, che richiama la mitica “Albachiara”. Nonostante le rullate incerte, il pezzo è trascinante insieme alla sua storia di dita che toccano punti proibiti e i lati oscuri del piacere. Ci lascia poi con una frase che esalta il realismo del pezzo: “Il sesso è una scintilla che illumina l’amore”. Come dargli torto? Anche perché il filone acustico continua con “Allo Specchio”, chiacchierata, intima, quasi adolescenziale e che sta volta fa l’occhiolino a Luca Carboni. Con lo stesso stampo ma meno riuscita è “Tra le Pagine”, un po’ stanca e lenta rispetto alle precedenti. Rimane l’epica di una melodia molto sentita “la tua voce che resta dopo la piena, resterà qui per sempre ma smarrita, tra le pagine che hai scritto della mia vita”. La band chiude il cerchio poi con citazioni del romanzo “Cuore di Tenebra” e una vera cavalcata Progressive che non manca di regalarci le ultime melodie in bilico tra PFM e Timoria. Difficile davvero è valutare un lavoro così complesso e eterogeneo, a volte povero e a volte pieno di idee, che riescono ad inondarci e stupirci. Sicuramente da ascoltare, perché la musica italiana potrebbe non averne necessità e voglia di ascoltare una band così, ma sicuro ha bisogno di stimoli e
di voglia. E qui ne troviamo da vendere.

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Syne – Croma

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I Syne (o Syne  E∆Ǝ ) sono di Milano e rischiano grosso. Rischiano tempi dispari, testi concisi, sguardi jazzaggianti e suoni a metà tra l’Elettronica e la tradizione italiana del Progressive Rock, che ascoltando quello che è stato prodotto negli ultimi anni pare si stia del tutto perdendo. Croma è il loro primo LP e suona forte, personale, ambizioso, robotico e spaziale. Insomma come nient’altro che io abbia ascoltato negli ultimi dieci anni. L’inizio di “Verdemente” (per altro accompagnato da un video azzeccatissimo) è scattoso come un vecchio videogioco nella sua sala dismessa, ha un perfetto incastro ritmico dove la voce e le liriche di Marcello fanno breccia nel nostro cervello. Il brano presenta uno spesso involucro roccioso che contiene un dolce liquido caldo, mieloso. Scavando si trova quella melodia che pareva perduta. In Croma c’è ampio spazio per ballate interstellari come “Sono Rosso” che ricorda molto il suono vellutato dei compianti Deasonika. “Cercami” è più testarda e spigolosa e si avvicina di più al Prog e alle inquietanti cavalcate dei Bluvertigo, i cori finali si incastrano tra loro sottolineando una produzione sopraffina. Il tema dei colori torna con “Nera” e l’idea del concept album si fa più completa. “Nera” è cupa, si muove sinuosa in un paesaggio futuristico, decadente, i suoi cinque minuti pare non finiscano mai in un vortice di suoni e parole che accendono nuova luce nel panorama musicale italiano. Le similitudini si sprecano, le canzoni sono così complete che potremmo citare insieme PFM e Muse, Elio e Le Storie Tese e Hawkwind. Sia ben chiaro che questa musica rimane fuori dal tempo e non è sicuramente accessibile a tutti. A trarre in inganno il dolce intro di tastiere in “B.L.U”, subito sballata da un tempo storto e dall’eco che avvolge parole visionarie (per altro metà in inglese e metà in italiano) fuse tra loro, come se si assistesse ad un discorso tra due astronauti dispersi nell’etere. La tensione è sempre viva e palpabile, il senso di instabilità ci tiene appiccicati fino alla fine del disco. Anche la bomba Elettronica “Witches” ha  il suo maledetto perché nel suono di un cyborg che martoria la sua chitarra super effettata. Mentre “Aerie” rimanda agli anni 80 e ad un mood vicino ai Depeche Mode, il finale dedicato ad un altro colore “Yellow” pare essere la previsione di quello che sarà il Punk Hardcore del prossimo secolo. Grida lontane, batteria martellante e synth ossessivo. Potrebbe scadere tutto in un facile pastone confusionario, ma i Syne sono bravissimi ad ammorbidire tutti gli spigoli, ammortizzando gli urti. La botta in testa alla fine manca fisicamente, ma il cervello esce annebbiato, affaticato e piacevolmente sotto sopra.  Questo disco è fatto di materia grigia e di tanto sudore, tutto unito a un’enorme voglia di futuro e di novità.

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Patti Smith performs Horses 27/07/2015

Written by Live Report

Patti Smith performs Horses @ Flowers Festival Collegno (TO) – 27/07/2015

Vedere un concerto di lunedì sera è una pratica tanto inusuale quanto liberatoria. Rende più piacevole l’inizio settimana e meno noiosa la presenza pesante della domenica. Vedere poi uno dei più suggestivi concerti della tua vita dietro casa tua, in una cornice come quella del Flowers Festival, rende il tutto memorabile.
Ad aprire le danze ci pensa la giovanissima Erica Mou che da sola con la chitarra fa suonare un’orchestra mentre ci bacia, tanto per citare una delle sue dolci e soffici canzonette. Non c’è trucco e non c’è inganno, semplicemente Erica con la sua chitarra acustica crea ritmi e arpeggi, mixati egregiamente dal suo piedino sulla loop station. Coraggio e una vocina che sotto sotto ci grida in faccia tutte le sue emozioni.
Dopo il breve set della cantautrice pugliese aspettiamo appena mezz’ora e sul palco salgono quattro uomini canuti e una donna, più canuta di tutti loro. Il pubblico non è numerosissimo ma per Patti Smith e la sua band questo non è certo un buon motivo per abbassare la guardia e per non dare la giusta veste ad uno degli album fondamentali per la storia della musica popolare. I cavalli di quarant’anni fa ricominciano il loro cammino con “Gloria”: epica, teatrale, una preghiera al cielo stellato che ricopre il palco. Tutti fermi, tutti ammutoliti, a parlare ci pensa la Sacerdotessa (ora capisco perché viene comunemente chiamata così e mai appellativo fu più azzeccato). Jesus died for somebody’s sins but not mine, una sentenza di una potenza disarmante, già sentita miriadi di volte su disco, ma che dal vivo prende vita e pare fredda come una lama che trafigge la nostra pelle rilassata. Sarà un lunedì sera forte, intenso, magico, avvolgente come la tragica danza Reggae di “Redondo Beach”. I cavalli iniziano a galoppare dopo la solenne marcia di “Gloria”. Galoppano per scappare, per fuggire via dalle tenebre, per poi viaggiare in un’altra dimensione con la jazzaggiante “Birdland”. Parole e musica si fondono in un’eterna poesia che vaga tra le nostre orecchie. Il senso di smarrimento è forte, il senso di impotenza davanti a tanta bellezza è immenso. Patti ha quasi settant’anni e si dimena come una ragazzina che vive per i suoi ideali e per i suoi sogni, la sua lotta interminabile è pitturata poi da una band spaventosa. A comandare la ciurma un eccelso Lenny Kaye, da sempre insieme a Patti, capace di accarezzare e poi martoriare la chitarra che è, a seconda del mood del pezzo, il suo amore, la sua disgrazia ma anche il suo organo sessuale.
“Free Money” è violenza pura e grande Rock’n’Roll prima del lato B di Horses aperto con “Kimberly”, governata da un bel basso pulsante e di nuovo quel Reggae ossessivo . La voce di Patti è prepotente come quarant’ anni fa, una foga che ci spacca le orecchie. Sinceramente non saprei dire se ci sono state pecche tecniche, stecche, cali di voce o cazzate del genere. Quelle le posso sentire se il mio cervello è attivo e presente. Qui sono stato immerso in uno stato fuori dal razionale, la musica mi ha rapito e in questa dimensione nulla sembrava fuori posto. “Break It Up” è un inno alla libertà e la voce della signora Smith trema leggermente quando ci incoraggia ad aprire le braccia e sentire lo spirito di Jim Morrison che vaga nell’aria. La terra zozza e la polvere di stelle si amalgamano in “Land”, onirica e realista, tirata all’inverosimile. Dieci minuti di incastri ritmici, sali-scendi continui, passaggi che vanno dai richiami Soul di “Land of 1000 Dancers” alla furente parte di “La Mer(de)”, per finire nei cori disperati  di “Gloria”, ripresa con enfasi da un pubblico che è vero portento questa sera (per fortuna ho visto anche meno cellulari alzati del solito!). “Land” è un capolavoro e non si discute, qui i cavalli vanno a tutta velocità per poi rallentare increduli davanti a questo fiume di parole così ribelli e così fuori dagli schemi. Joey Dee Daugherty, altro storico compagno di Patti alla batteria, inventa ritmi e suona nervoso e dolce, con una versatilità che raramente ho incontrato. Per altro Joey si improvvisa pure bassista nell’ultima perla di Horses. “Elegie” è una canzonetta a detta della Sacerdotessa, dedicata a suo tempo a Jimi Hendrix. Ora, ci dice Patti, tutti noi abbiamo perso qualcuno di caro e con questo ci rende parte attiva della canzone, che nel mezzo regala un saluto ad altri grandi amici del mondo della musica, scomparsi anche loro il questi quarant’anni. E così sono applausi a scena aperta per Lou Reed, Joe Strummer, The Ramones al completo nella loro prima formazione e tantissimi altri miti della musica americana.

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Horses è concluso, i cavalli rallentano per poi fermarsi a guardare. E così l’ultima parte di concerto, che pensavo potesse avere il sapore di greatest hits, ci regala perle e non perde affatto il filo logico. “Privilege (Set Me Free)” sembra essere la continuazione di “Break It Up” con quella frase iniziale I see it all before me: the days of love and torment, the nights of rock’n’roll. Tanto Jim Morrison da farlo ricordare ancora una volta. Poi quella imprecazione: goddamn, così violenta e viscerale che gela la spina dorsale. Patti poi esce dal palco e la scena rimane sulla sua band che intona un medley dedicato ai Velvet Underground. Quarant’anni di Horses e cinquanta di Velvet Underground dice Lenny Kaye con il venticello di Collegno tra i capelli lunghi e bianchi. A cantare non solo lui ma anche Tony Shanahan e il figlio di Patti Jackson Smith, abilissimi anche nei numerosi cambi strumento durante il set. “Rock’n’Roll” è una pura sassata, la band poi si rilassa ma gli spigoli rimangono vivi in “I’m Waitin’ For The Man” cantata a squarciagola da tutto il  Flowers. In “White Light, Whit Heat” Patti risale sul palco a battere le mani e ballare, le star le lasciamo a casa questa sera, solo ottima musica e tanto, ma proprio tanto, da imparare.
“Because The Night” è commovente, delicata, dedicata al marito scomparso ormai vent’anni fa. La rabbia però ritorna nell’immensa voglia di ribellione di “People Have The Power”. Alla fine Patti intona “My Generation”, inno immortale che pende dalle sue labbra. Una canzone che farebbe ridere addosso a qualsiasi musicista vecchio. Ma lei no, la fa sua, la rende viva e vegeta. Rivive così lo spirito di Keith Moon e la Sacerdotessa onora un altro highlander del Rock come Pete Townshend. Intanto la signora, con un piglio tanto divertente quanto sadico, masturba la chitarra, staccandogli tutte le corde ad una ad una con precisione chirurgica.
La musica di Patti Smith è ancora bella e dannata, proprio come la sua New York, come i suoi vestiti eleganti ma in qualche modo Punk, come i suoi sputi sul palco, come i sorsi di thè e gli occhiali da vista indossati per leggere poesie sul palco, come i suoi occhi vecchi ma per niente stanchi e come il suo sorriso rassicurante. Fonte di gioia, di vita, di saggezza e di una voglia indescrivibile di libertà.

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