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Il Tributo da Pagare – Seconda Parte

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La seconda persona che mi sento di coinvolgere in questo delicato argomento è una giovane ragazza, fan allo sfinimento degli Aerosmith. Chiacchierando con lei dopo un concerto, scopro che segue da tanti anni una band tributo dei rocker di Boston: i Big Ones.

Da dove viene questa passione per una tribute band? Cosa spinge una ragazza infognata per un supergruppo a seguire i suoi “cloni”? Se la musica è arte cosa c’è di artistico nell’imitazione?
Intanto non parlerei di cloni, a me dà l’idea di un gruppo che scimmiotta senza personalità (e magari anche male) il gruppo a cui vuole rendere omaggio. Non è questo il caso… Il motivo che mi ha spinto a seguirli come tributo è molto semplice: la possibilità di sentire dal vivo la musica dei miei idoli, che purtroppo dalle nostre parti non vengono tutti i giorni, e soprattutto di sentirla suonata bene. Loro non si limitavano a ricreare il sound degli Aerosmith tale e quale, ma ci mettevano anche qualcosa di loro, arricchendolo. Anche questo è fare musica secondo me ed è una qualità. Si sono fatti un nome e un seguito suonando ovunque, ma i Big Ones sono la dimostrazione che si può andare oltre, quando si hanno le capacità e la qualità, che in Italia c’è anche spazio per la musica originale, scoprirete perché…

Quando e come hai scoperto i Big Ones? Cosa ti ha attratto di più? La somiglianza sonora o quella visiva? Che peso hanno questi due componenti in una valida tribute band? Non è un po’ ridicolo vedere un sosia sul palco? Ci sono già i programmi di Gerry Scotti per questo…
Si parla di quasi 7 anni fa. Ne avevo già sentito parlare, ma ero estranea all’epoca al mondo del live, così andai a sentirli a una festa della birra, ero molto curiosa. Ero da poco reduce da due concerti degli Aerosmith. Quella sera, fin dalle prime note, mi è sembrato di rivivere ancora i momenti di qualche mese prima, ero completamente coinvolta da quello che stavo ascoltando. La somiglianza visiva non è stata la prima cosa a colpirmi. È ovvio che abbia il suo peso, basta che non si arrivi al ridicolo, quando si vuole imitare troppo, scimmiottare. Ci va personalità, anche musicale, ed è proprio quello che hanno i Big Ones. È tutto un insieme di qualità che li rende unici.

Fino a dove ti sei spinta a seguire questa band? Quanti concerti e quanti kilometri hai macinato per loro?
In 7 anni direi che qualche chilometro per tutta l’Italia l’ho macinato e ne farò ancora molti! Sono andata anche qualche volta all’estero. Non tengo il conto di quanti concerti abbia visto, ma credo di aver superato quota 100.

Ho saputo che da qualche anno i Big Ones hanno iniziato a comporre musica propria con un discreto successo. Non rischiano che la gente vada a sentirli sperando che suonino “Rag Doll”? Tu che li conosci bene, come sono i loro fan?
Sì, dal 2009 portano avanti con successo un progetto di brani originali in italiano, sono usciti due album distribuiti dalla Warner. Sono stati scelti per comporre la colonna sonora di un film a breve in uscita (“Sarebbe Stato Facile”), di cui farà anche parte il brano “Io Mi Perderò” con musica e parole di Maurizio Solieri, che ha voluto fossero proprio i Big Ones a arrangiare e interpretate il suo brano. Per altro, di questa canzone, verrà girato pure un video.

La gente che li conosce lo sa e, anzi, ai concerti vuole sentire i loro brani originali. Chi li conosce un po’ meno magari viene per sentire “Rag Doll”, ma quando ascolta un loro brano rimane comunque entusiasta, si incuriosisce, ne vuole sapere di più. C’è da dire che il rispetto e la stima per gli Aerosmith c’è sempre, è anche grazie a loro se sono arrivati dove sono ora, ma in ogni caso chi viene ai loro concerti è sempre contento ed è questo l’importante per una band credo, senza i fan è difficile andare avanti. E i sostenitori dei Big Ones aumentano sempre di più!

Non mi resta che lasciare le parole alla musica. Guardate qua e sbizzarritevi.

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Il Tributo da Pagare – Prima Parte

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Non so quante volte vi sia capitato di andare ad una festa della birra o in un qualsiasi pub con un palchetto sgangherato e vedere un tipo goffo, con cappello militare e occhiali zarrissimi imitare Vasco Rossi muovendo le mani e sparando “eeeeh” a raffica. Circondato per altro da musicisti ipertecnici e da gente di tutte le età che echeggia gli “eeeeh” a gran voce.
Beh a me un paio di volte è capitato. E in questi casi ti chiedi “Perché?” In realtà di perché io me ne chiedo proprio tanti. Perché deve essere così idolatrata una maschera? Perché un musicista dovrebbe aver lo stimolo per replicare assoli già scritti e assimilati da miriadi di altoparlanti? E soprattutto: perché un ragazzo, una famiglia, un fruitore qualsiasi di musica popolare, dovrebbe trovare interesse in una tribute band? E perché capita così spesso che la curiosità di conoscere musica nuova venga in questa maniera prontamente abortita?
Suonicchiando in giro da ormai dieci anni (pezzi inediti, ma sì, lo ammetto, anche tante cover!) ho cercato più volte la risposta. E spesso la più sensata mi è stata fornita da gestori dei locali: “Mi spiace ma in questo club girano solo le cover band. Sai com’è, all’italiano piace cantare”.
Ora ho voluto scavare un po’ più a fondo e affrontare i miei dubbi e dilemmi facendo quattro chiacchiere con due personaggi che in questi anni di musica dal vivo ho avuto la fortuna di conoscere nei paraggi del palco. Il primo è Kikko Sauda, simpaticissimo e solare ragazzone di Imperia, cantante della Combriccola del Blasco, sosia impressionante del rocker di Zocca. Ma fidatevi che lui (vi piaccia o no) non è certo tipo goffo, ci sa fare eccome e ammalia piazze intere da anni. Ma questo a Rockambula non basta. Tartassiamolo di domande…

Ciao Kikko, benvenuto su Rockambula! Beh la prima domanda pare scontata. Perché proprio l’inflazionatissimo Vasco? Da dove nasce questa irrefrenabile passione? E questa somiglianza? Sii sincero, hai usato trucchetti chirurgici…
Ahah trucchetti estetici! Intanto onoratissimo di essere qui su Rockambula x questa stuzzicante intervista. Inflazionatissimo? Oggi sicuramente ma quando ho cominciato 14 anni fa un po’ meno. Oggi infatti, le tribute band a Vasco nascono come i funghi e spesso si può incappare in personaggi goffi come descrivete nell’articolo. Io comunque non sono né un cantante né un musicista, mi definirei più uno show man anche se a cantare me la cavo (con i miei limiti eh).
All’eta di 5 anni già mi esibivo in piccoli spettacoli facendo le imitazioni di questo e quest’altro cantante o personaggio dello spettacolo, la scaletta includeva anche il clown. Crescendo il timbro vocale, l’indole e approccio filosofico alla vita mi hanno avvicinato più a Vasco o forse hanno avvicinato lui a me…può essere che sia lui che mi imiti! (Kikko se la ride). Quindi io sono uno di quelli che ha scelto una strada facile e immediata per salire su un palcoscenico, perché è il posto dove mi sento più a mio agio, a me familiare e più naturale. Si naturale, anche se interpreto un grande personaggio, è come una parte per un attore, però poi sul palco ci sono io!! Amo star li e coinvolgere il pubblico, do e ricevo tantissimo.

Riuscite con questo progetto a riempire le piazze e i club. Come vive una tribute band come la tua? Riesci a sostenerti economicamente con la musica live?
A questa domanda non posso rispondere x motivi fiscali….He he.
Dal momento che, tranne qualche piccola collaborazione, non lavoro con agenzie, per me questo è un lavoro anche quando non sono sul palco. Quindi la mia professione dopo 14 anni, dipende dallo show che fai e da quello che ci sta dietro.

Chissà quanti ti hanno detto: “Pazzesco è uguale”. Che rapporto c’è con il pubblico che viene a sentire i vostri concerti? Non trovi un po’ una presa in giro che la gente venga ad ascoltarti perché ama quello che in realtà non sei?
Vedi, ai miei concerti vengono per lo spettacolo che faccio, o meglio che facciamo con questa meravigliosa band. Vengono per me e me lo dicono. Fidati è bellissimo, mi dicono: “veniamo da anni perché ogni concerto è diverso dall’altro e riesci, riuscite ad emozionarci sempre!”
Poi io improvviso sempre e lo fa pure la band. Sopratutto il chitarrista solista (per altro molto amato dal pubblico) improvvisa parecchio. Anche se facciamo un tributo non sentirai mai un solo identico nota per nota, ce ne fottiamo e ci mettiamo del nostro! Insomma ci divertiamo!!

A cosa mira il tuo show? Puro divertimento o c’è qualche pretesa in più? E’ vero che all’italiano basta staccare il cervello e cantare “Albachiara”?
Ma non so se sia solo l’italiano. Penso che quando fai uno show che emoziona la gente, puoi cantare quello che vuoi: italiano, russo, americano. “Albachiara” o “Quel Mazzolin di R,ose”… Vedo che ai miei concerti la gente stacca con la realtà si diverte, sta bene e canta e oggi come oggi c’è sempre più bisogno di staccare dalla realtà.
Riguardo alle aspirazioni le tribute band hanno ovviamente dei limiti proprio perché molto inflazionate. Viviamo già grazie a locali e piazze piene e ad anni di gavetta una nostra realtà e, certo, con il nostro cachet. Io ho sempre molte idee e progetti per staccarmi dalla massa, alla prossima intervista magari parleremo di un tour. Che vi piaccia o no: “Io sono ancora qua! Eeeeh già!”

Ti è mai venuta voglia di essere “te stesso” e smarcarti dall’ombra di Vasco? Scrivere la musica tua, le tue emozioni. Non è avvilente per un musicista suonare solo cover e non poter mai esprimere il proprio talento? Non dovrebbe essere nella creazione il vero traguardo di un musicista?
Domanda con il coltello tra i denti si sente che è un musicista che la formula… Vedi con canzoni mie son arrivato due volte alle selezioni finali del Festival di Sanremo. Poi la somiglianza anche solo fisica con Vasco, in questi casi, penalizza. Non per essere ripetitivo, ma comunque quello che faccio mi emoziona al di là di fare una cover, mi diverto e sto bene in mezzo al mio pubblico. Tutto il resto è noia (un omaggio al Califfo!). Ciao a tutti!

(…prosegue…)

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Leon – Come se Fossi Dio

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Personaggio indubbiamente controverso e fuori dal tempo questo Leon. Diretto come una freccia puntata in fronte, nudo sia in copertina che nella sua musica e spudoratamente egocentrico già dalla prima uscita discografica. Dopotutto come si può ignorare la spavalderia del titolo Come se Fossi Dio? Ma il ragazzo valdostano, nato tra la solitudine delle sue montagne e vari goccetti di alcool, ha sempre mirato verso l’altro e non ha mai abbassato la guardia. E cita pure il latino: ”si vis pacem para bellum: guerra alla mediocrità, al politicamente corretto, al conformismo del gregge”. Onore alla causa e alla forza di volontà. Il risultato? Buono, un esordio distinto, ben delineato e personale. Non di certo un capolavoro di innovazione ma un gran bel gesto di personalità. Anzi un gestaccio, in faccia a tutti coloro a cui piace vincere comodo.

Pop violento e sanguinante già dalla title track che apre le danze. “Come se Fossi Dio” è carnale e profana, sensuale e blasfema. Regna dal primo istante una verace fisicità, uno spogliarello di fronte a tutti. Pregi e difetti amplificati sotto un costante martello elettropop. E il lavoro dietro le quinte merita un’ovazione, carezze ruvide del produttore Pietro Foresti, gemma oscura e incredibilmente versatile, al lavoro tra gli altri con Valeria Rossi (si quella di “Tre Parole”!), Scomunica e Tracii Guns (L.A. Guns). L’anima più dark e violenta nel ragazzo aostano viene dunque da subito sprigionata grazie ai meticolosi arrangiamenti. “Bellissima” avvolge con la sua intro comoda per poi infrangersi in uno specchio rotto: visioni distorte e realistiche si accavallano e si scontrano tra la bellezza e l’anoressia: “tra la pelle e le ossa c’è nulla, come il vuoto che è in me”, canto disperato a corpo libero.

“Immagini” è visiva e semplice, più naturale nell’arrangiamento e con elettronica rilassata che si mette un momento in disparte per creare tappeti volanti e sollevare in aria la canzone meno fisica del disco, vicina alle splendide ballate dei Depeche Mode. “Profughi” è l’episodio che finalmente ci porta a sentire più vicini gli echi dei tanto attesi Subsonica e di quella sana elettronica anni 90 di cui andavamo tanto fieri. Gli argomenti scomodi ritornano prepotenti nell’adulazione alcolica di “Nel Gin” e in “Ego te Absolvo”, sarcastica visione di un prete pedofilo. Non ci sono mezze misure, Leon qui suona davvero spavaldo, svergognato: “tocca qui con mano cos’è la trinità”. Mandiamo a quel paese i puristi e apriamo gli occhi.

Il disco si conclude con due chicche: la versione francese della sensuale “Wicked Game” di Chris Isaak e un remix bello tamarro di “Nel Gin”, opera di Nedagroove. Forte e orgoglioso Leon chiude il sipario di un disco a volte un po’ poco focalizzato e ancora disperso tra argomenti e suoni lontani. I muscoli possono rilassarsi, il primo sforzo è stato comunque premiato. Speriamo però che gli occhi non si chiudano e anzi che la vista migliori, in modo da osservare i dettagli a distanza. Sempre più lontano dalla schifosissima mediocrità.
http://www.youtube.com/watch?v=H6RIPMSXWDk

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Nadàr Solo – Diversamente Come?

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Diversamente come? Partiamo da questa semplice quanto necessaria domanda. Domanda che blocca in uno stato di estrema staticità. Ci dimeniamo, sbraitiamo, ci incazziamo contro un sistema, una quotidianità che non riusciamo proprio ad accettare. Ma poi da dove iniziamo domani mattina? Come muoveremo i nostri muscoli per fare in modo che questo presente ci appartenga di più? Come faremo a sfruttare le opportunità se ad un certo punto ci prendessero per mano? Avremo anche solo il timido coraggio di stringerla questa mano oppure ce la faremo sfuggire? Se questo “vento tornasse a soffiare” sapremmo cosa fare oppure rimarremo fermi noi, attori di un vigliacco scambio delle parti?
Da quanto avrete capito il nuovo dei torinesi Nadàr Solo ha suscitato in me parecchi quesiti. Incastonati uno dietro l’altro. Un disco che muove le rotelle del cervello con le sue parole fitte e dirette, tra piccoli drammi quotidiani e decadente cultura popolare, tra poesia di strada e luoghi comuni smontati, tra le miriadi di filastrocche accompagnate da sali e scendi che accompagnano le nostre sensazioni. Questo album è per altro suonato benissimo, non eccede e segue la sua linea dritta, a volte fin troppo sicura e marcata. In ogni caso il suono si plasma sempre perfettamente sulle corde e sui testi di Matteo De Simone, arrivando a graffiare dove la sua soave ugola accarezza.

Ma torniamo alle domande. No, non troviamo risposte, ma solo altri punti interrogativi. Sempre più fitti, sempre più ampi e che allargano il cerchio come il disegno di una nuvola pasticciata che copre sempre di più un cielo azzurro, nuvola che perde la sua forma ma non il presagio di pioggia. E presagio è anche il coro inaspettato nell’apertura di “Non conto gli anni”, sintomo di uno stato confusionale costante. Corsa forsennata a testa bassa, corpo ricurvo in avanti. Tentativo disperato di spostare l’aria statica che ci circonda, il tutto poi arricchito da basso bello pulsante, rullante magistrale e qualche chitarrina alla Coldplay che male non fa e colora un po’ la grigia nube che inizia ad infittirsi.

Le occasioni per tirare il fiato ci sono, boccate d’aria amara e malsana in “La ballata del giorno dopo”: lentamente ci torna su tutto lo schifo. La canzone dell’hangover rende davvero ridicoli noi che continuiamo a giocare al “carpe diem” nei tristi sabati sera metropolitani. “Le case senza le porte” ci consegna una band in splendida forma: dinamica, passionale, dall’anima viscerale, primordiale. E poi non lamentatevi che in Italia non abbiamo band rock’n’roll. “L’amore sta nelle case in rovina che cadono a pezzi senza padrone, sta nelle case senza le porte, che quando piove ci posso entrare, ma cosa volete che sappia io che non sono capace ad amare”. La pioggia inizia a scendere ma sappiamo momentaneamente dove ripararci. Uno dei momenti più lucidi del disco.
Il manifesto dei Nadàr Solo rimane indubbiamente “Il vento” che vanta la partecipazione de Il Teatro degli Orrori al completo. Quest’altra perla di magistrale musica popolare ci descrive alla perfezione lo stato d’animo che aleggia nel disco. La voce di Capovilla rinforza e riesce a delineare tutte le linee pasticciate nel cielo. Angoscia? Forse. Per ora mi accontento di un pezzo che è pura esplosione di emotività. E tra la gigantesca nuvola grigia confusamente disegnata si intravede qualche sprazzo di azzurro. E tanto rosso.

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Cut/Julie’s Haircut – Downtown Love Tragedies (Part I & II)

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I progetti che includono solamente cover sono spesso visti con occhio critico, si pensa subito alla perdita di ispirazione, ad un facile appiglio per acquietare un poco gli stomaci voraci degli ascoltatori.
Personalmente non la vedo proprio così e rompo una lancia a favore di chi ancora oggi crede nella cover. Chi la violenta, la rivolta, dandogli un proprio significato, oppure chi la conserva, magari la rende meravigliosamente scarna (pensate ai brividi provati da Trent Reznor nell’ascoltare “Hurt” rivista da Johnny Cash!) mantenendo lo spirito e la naturalezza delle vibrazioni “originali”. In entrambi i casi la cover ha il suo sporco perché e la band registrando una cover si mette in gioco più che mai.
Questo che abbiamo davanti è un progetto indubbiamente ambizioso. C’è da dire che si parla di due nomi che a mettersi in gioco sicuramente non hanno paura. Un 7’’ splittato con due cover soul interpretate da due formidabili band del nostro paese molto legate tra loro. I brani in questione sono “Emma” degli Hot Chocolate (versione originale) interpretata dai garaggioni bolognesi Cut e “Who is he and who is he for you” di Bill Withers (versione originale) stravolta dalla psichedelia dei Julie’s Haircut. Potete capire come la scelta di queste due canzoni sia ambiziosa quanto singolare per due gruppi che nel panorama nostrano ci hanno abituati a ben altri sound.

Partiamo dai Cut, che per altro di questi esperimenti sono pratici (per esempio la rivisitazione del classicone di Prince “Sign O’ the times”). “Emma” gioca sulla dinamica: prima intima, lontana migliaia di pianeti dalla Terra, poi il chitarrone che ci risbatte sul pavimento, ma nonostante la botta non ci svegliamo. Rimane tutto onirico e confuso. Il sogno però non è per nulla piacevole, è straziante, agonizzante. La voce, l’hammond e le chitarre di Ferruccio Quercetti e Carlo Masu marciano indisturbate in questa odissea spaziale accompagnata dal semplice e dinamico groove di batteria. La versione degli Hot Chocolate viene conservata, certo meno black, ma altrettanto intensa e forse addirittura più straziante. In questo episodio la “tragedia d’amore” fa male. Bella pugnalata inaspettata, una lenta agonia.
I Julie’s Haircut si sa, sperimentano a tutto andare senza mai trovare un punto fermo. In continuo movimento e mutamento (e sia chiaro ci piacciono così!). Qui rubano il riff di “Little Johnny Jewel” dei Television e sparano una versione tastierosa, vetrosa, tetra e anche qui distante e spaziale. Si rimane in aria, appesi. Forse questa cover risulta snaturata della semplicità della soul music e sarei curioso di sapere cosa ne penserebbe il buon vecchio Bill Withers in mezzo a tutti questa elettronica e questi accenni post punk. Si perde il ritmo ballabile ma non la tensione, che viene addirittura amplificata dalla band di Sassuolo in un crescendo sintetico, piccola salita che arriva dritta allo strapiombo.
Questo split funziona, è “genuino” (lo dicono gli stessi Julie’s Haircut!), arricchisce e scarnifica le perle “originali”. Le gratta a mani nude per riappiccicarci sopra vestiti nuovi, conservando li da parte i vecchi pezzi, pronti ad essere rincollati da un momento all’altro.

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REVERENDI

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Grandi novità in questo 2013. E Rockambula cerca con santa pazienza di curiosare dove qualcosa si muove nel sottosuolo. Appiccica un orecchio al terreno per cercare di captare le vibrazioni più interessanti e viscerali. Quello che il buon vecchio Pino Scotto chiama “Il grido disperato di 1000 band”.
La vibrazione interessante di oggi è rappresentata da una band nata poco più di un anno fa a Torino da tre ragazzi che di palchi e di studi di registrazione in realtà ne hanno già calpestati. I Reverendi oggi si presentano senza mezzi termini e profetizzano: “il rock non lo fanno mica solo gli americani”. Escono ora con “Meno è sempre di più”, EP-concept di sette pezzi. E allora noi di Rockambula pigliamo la palla al balzo e ci facciamo due chiacchiere con il cantante/bassista Daniele.

Ciao Daniele, siete nati da pochissimo e vi presentate con un progetto molto ambizioso e determinato. Un concept di sette pezzi, tutti attaccati tra loro senza pause. Forse un’attitudine che tiene a valorizzare più l’intero pacchetto che i singoli brani. E’ poco pop o sbaglio?
Ciao!
Questo EP esce come nasce. Avremmo potuto scrivere una canzone unica, anche perché unico è il messaggio di questo esperimento: “meno è sempre più”, tutti i pugni che quotidianamente incassiamo sono stimoli per lottare, crescere e puntare al cambiamento.
Ciò che è sempre differente è il punto di vista e lo scenario del nostro messaggio. Ecco che prendono forma 7 canzoni, ognuna rappresentazione delle nostre debolezze.

Nelle vostre canzoni raccontate il vostro vivere in una band al giorno d’oggi. Il brano di apertura del vostro disco si chiama “Metafora sociale”, davvero fare parte di un gruppo musicale è una presa di posizione “sociale”? Ci fornisci una piccola guida per l’ascolto?
Metafora sociale è una canzone che è finita al primo posto nel disco non si sa per che motivo perché iniziare un disco così è una bella mazzata di allegria..
Abbiamo scritto questa canzone cercando di rendere con il testo e con la musica la violenza psicadelica che stiamo vivendo. La canzone parte dalla conclusione, quindi svelando già il significato metaforico della canzone accostando il momento storico/sociale che viviamo ad un ubriacone che vuole smettere di bere, ma che finchè non schiatta nel suo vomito alcolico non si nega l’ultimo bicchierino.
Nell’estasi border-line dell’”ultimo bicchiere”, in questo oblio postsbornia, persino il movimento, minimo, della terra è insopportabile, soffocante, omicida.
Parte nel bridge una presa di consapevolezza che termina con lo special “Questa è l’ultima tempesta prima della fine spaccami la testa, basta”.
Lo special cerca di rendere il concetto di confusione assoluta all’interno del nostro tempo, una tempesta alla quale preferiamo porre fine con una martellata, breve e indolore.

“Meno è sempre di più”. Riflesso di band eternamente insoddisfatte oppure presa di coscienza della fortuna di poter suonare (comunque vada) buona musica in una città viva come Torino. Insomma bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto?
Il bicchiere è sempre mezzo pieno, se no l’avremmo chiamato Più è sempre meno 😉
Meno è sempre più nasce da una chiacchierata con un amico, Paul Greenwell dei 2 Fat Men. Una sera a casa dopo cena si parlava di musica, di quanto “togliere” nella musica sia arricchire, una nota data nel punto giusto, un colpo al momento giusto vale più di mille larsen o rullate.. Ad un certo punto Paul disse: “Sai Dani, nella musica meno è sempre più” SBAM.. In quell’istante mille lampadine cominciarono a illuminarsi e dissi a Paul che questo sarebbe stato il titolo dell’EP. Lui mi rispose: “EEh!”

L’EP è prodotto in modo magistrale da Marco Liba (Liba Recordings). Tutti insieme siete riusciti a mantenere il prodotto grezzo e vivo (nel senso che ha il sapore “live”) ma allo stesso tempo dilatato, in certi momenti quasi onirico. Come sono nati i pezzi e come si è svolta la produzione con Liba?
Si Liba è stato un elemento fondante per noi e per il nostro disco.. A tutti gli effetti si può dire che lui sia uno di noi, parte integrante della band, tanto che gli ultimi due live ha pure suonato con noi. Le canzoni sono nate da svariate idee melodiche, riff, qualche brandello di testo e un lungo week end insieme a Sauze D’Oulx. 48 ore di creazione all’Osteria dei Vagabondi e poi qualche giorno in studio con Liba a ragionare sugli arrangiamenti, sulle melodie, sulle ritmiche. Insieme siamo riusciti a trovare la quadra di questo EP che è cambiato in continuazione durante la sua realizzazione e che sarebbe cambiato ancora..
Abbiamo fatto delle ottime prese di rec. Non ci sono replace, non ci sono trigger, né parti elettroniche, tutto ciò che c’è è suonato con batteria, basso e chitarra. Abbiamo poi lavorato sui reverb, delay e reverse per dare spazio. Si, nell’onirico mi riconosco, fa parte di noi. Violenza e alienazione a fasi alterne.

Portate un nome dissacrante, irriverente e per questo di grande impatto, a mio avviso pure originale e divertente. Da dove arriva la “vocazione”?
Ahah bene!!! Pensa che la critica più costruttiva arrivata ad oggi è stata “sembra i ministri”….
Anyway…  Siamo e sono personalmente molto legato a questo nome. Proprio per un dicorso di vocazione e di contraddizione. L’ispirazione nasce da una novella di Verga che si chiama appunto “Il Reverendo” nella quale si delinea questo personaggio spirituale, corrotto e materialista che non ha la minima coerenza con le vesti che porta.
Pensiamo che questa sia la situazione nella quale ci troviamo oggi. Un mondo fatto di santi e di diavoli, in cui i santi e diavoli banchettano insieme e si giocano a poker fino all’ultima indulgenza.
Il nome, quella giacca, l’immaginario è come se le avessimo piratescamente strappati di dosso alla carcassa di qualche blasonato santone.

Stupida osservazione da pignolo: sostenete di suonare “grunge italiano” (e in effetti torna) ma tra le vostre influenze leggo tutti i grandi nomi dell’alternative rock internazionale: Pearl Jam, Rem, Radiohead, Coldplay. Non pensate di dover pregare anche qualche santino italiano, tipo Marlene Kuntz, Afterhours e Verdena o addirittura qualche vecchio oracolo come The Beatles (io dentro i vostri pezzi li sento sempre ondeggiare in sottofondo)?
UUh assolutamente… Noi ci definiamo grunge rock per l’attitudine live e per il mood dei testi e delle atmosfere.. Poi in realtà musicalmente siamo un focolaio di ispirazioni, tutti quelli che hai citato… Beatles tutta la vita.. ma ti dirò.. anche Pink Floyd, Cure, Foo Fighters, Smashing Pumpkins, Blur, Who…
Non si può definire la matrice del nostro stile, Fabio (il batterista) per esempio ascolta tutt’altro.. Rock e crossover americano. La cosa curiosa è che non siamo dei grandi ascoltatori di musica alternative italiana.. Marlene, Afterhours, Verdena, li stimo moltissimo e ci sono delle canzoni che mi piacciono, ma ne conoscerò 6 o 7 tra tutti e tre.. Faccio un mea culpa, ma la verità è che non mi hanno mai attratto magneticamente.

In “Sempre di notte” dite una frase molto realista: “questa pioggia non è l’Inghilterra”. L’unità di misura per fare musica rock rimane sempre la Gran Bretagna, ma credete davvero che stiamo proprio un gradino sotto? A Torino poi mi pare che non ci sia carenza di band che (senza mezzi termini) spaccano il culo. Tu cosa dici?
Assolutamente! L’Italia ha dei grandissimi talenti e Torino è prima fila, anche se i Milanesi a volte sono più furbi.
Sempre di notte è una suggestione, un Flash back di emozioni provate durante le mie esperienze Londinesi, con riferimenti molto concreti a fatti accaduti.
“Questa pioggia non è l’Inghilterra” è un modo per dire l’acqua è sempre acqua ma non puzza di zolfo come a Londra.. Odori, emozioni, sprazzi di colore, nubi fumose, vestiti umidi, contrasti di grigio, l’inghilterra ha delle caratteristiche rispetto all’Italia nelle quali mi riconosco, in ogni caso sono ancora qui.. Nonostante le ultime evoluzioni politiche credo in questa nazione e soprattutto credo nella musica di questa nazione.

Come vi ponete nei confronti dei social network? Oggi pare siano di una importanza fondamentale per emergere, ma non bisogna perdere di vista il vero cuore della musica underground, ovvero il palco. Che obiettivi avete sul fronte live?
Ah beh.. Certo! Con i social networks ci poniamo come qualcuno che cerca di usare gli strumenti che ha per fare quello che può..
Sicuramente il web è una grande risorsa, ma è dispersivo, in continua evoluzione e tutt’altro che immediato nel suo utilizzo corretto.
Cerchiamo di valorizzare i contenuti che proponiamo creandoci una fan base vera e interessata che speriamo cresca in funzione della nostra crescita.. Siamo al primo EP e la nostra musica è proprio neonata, quello che abbiamo fatto in questo EP è stato vomitare argomenti e musica così come ci sono venuti. Ci sono già idee per il primo album che sono curioso di vedere che forma prenderà..
Live siamo in attesa di alcune conferme, soprattutto fuori Torino, nella nostra città invece faremo una piccola cosa a fine marzo e poi un concerto con gli amici del collettivo OPPOSITE il 26 aprile  al Lapsus.
Nel frattempo CONTINUEREMO A SUONARE ANCHE COVER, in giro per l’universo mondo perché ci diverte, ci fa fare palco e vita di gruppo ispirandoci sempre qualcosa di nuovo.

Daniele, un bel saluto ai lettori di Rockambula e dicci un po’ cosa vorresti di “meno” e cosa di “più” nel vostro futuro.
Cari lettori di Rockambula un giorno faremo una rivoluzione insieme, vi saluto e vi stimo perché vi incuriosite di musica e di persone. Vi ricordo di andare ad ascoltare i Waste Pipes, se non l’avete mai fatto perché spaccano e anche i Nadàr Solo.
Per il nostro futuro vorrei “meno” Maria De Filippie “più” Rockambula. La messa è finita, andate in pace.

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Peanuts 78 – Questione di Gusto

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In questi giorni mi sento vecchio. Saranno i malanni di stagione che ogni anno si accumulano tra le ossa, la testa e la gola. Sarà forse che i miei problemi fino a qualche anno fa erano arrivare pronto all’esame e ora mi ritrovo a pensare a mutuo e investimenti. Forse saranno semplicemente le maledette responsabilità. “Old at heart but I’m only 28” diceva Axl Rose in “Extranged”. E mi sento ancora più vecchio perché una volta lui era il mio idolo e ora per me è solo un fantoccio che ha scritto una manciata di belle canzoni.
Potete capire dunque come il mio stato d’animo non possa giovare troppo di un disco che arriva da una giovanissima band propensa a quel pop tanto fresco da rischiare una prematura data di scadenza, condito di parole da Smemoranda liceale, arricchito da elettronica patinata e chitarre pseudo punk (chiedo perdono a Joe Strummer e Joey Ramone ma ormai a queste storpiature credo siano abituati). “Questione di gusto”, il titolo è inequivocabile e i tre torinesi Peanuts 78 sanno benissimo quali sono i gusti dei ragazzi al giorno d’oggi. E attenzione, niente ma proprio niente di male nell’essere degli spudorati “piacioni” soprattutto se si crede nella musica che si suona. “Se sapessi scrivere come quel buzzurro di Fabio Volo di certo non sarei qui a rompervi i coglioni con Leopardi”, diceva spesso la mia superaccultuarata ma onestissima prof di letteratura. E i brani dei Peanuts sono delle vere bombe da classifica a partire da “Insipido”, un po’ ballata alla Tiziano Ferro, un po’ elettronica da luna park. “Non è possibile” invece percorre strade meno lineari, ritmiche inaspettate vengono però raddrizzate in un ritornello facile e sintetico. Il singolo “Fuori Rotta” che ad una prima orecchiata pare non dare nulla in più al disco, stupisce per la facilità di comunicazione. “In equilibrio” prova a spingere su distorsioni e velocità, si cerca di accelerare ma ci troviamo in un autoscontro e i ragazzi cozzano contro le limitazioni del loro stesso pop.
Un bell’applauso in ogni caso va alla produzione, tutto si incastra alla perfezione. Il prodotto certamente suona preconfezionato, ma almeno non da scaffale del supermercato il cui beffardo destino è sempre il cestone dei saldi. Diciamo che conserva la sua genuinità da bancone del mercato.
Tra gli episodi più riusciti sicuramente spicca “Il re”, che rimanda allo stile frivolo di Cremonini ma degenera in un finale robotico. La cornice non cambia: cameretta stracolma di poster, di collezioni autunno/inverno di Zara e un computer portatile posizionato fisso su Facebook.
“Questione di gusto” non è un album memorabile, ma rimane ben suonato, allegro, fresco, orecchiabile, moderno e ricco di pretese. E consideriamo sopra tutto ciò che i ragazzi sono davvero dei pischelli pieni di futuro e strabordanti di musica pop. Non so se la mia prof avesse ragione, ma se potessi tornare indietro di otto anni e fare un album così un pensierino ce lo farei.

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F.O.O.S. – Showcase

Written by Recensioni

E qui casca l’asino. Leggo nella presentazione di questa band la fatidica parola “electrock” che mi spaventa quasi come vedere il pagliaccio It, incubo della mia infanzia. Che cosa significa mischiare elettronica al rock? Club metropolitani e bui con piazze gremite di umanità. Dj col ciuffo dritto contro il sudore che gronda dalle mani. Luce solare scaraventata su neon prepotenti. Analogico con digitale.
Devo ammettere che la combo mi ha sempre un pò spiazzato. Da sempre ho considerato la musica elettronica come una facile scappatoia per giustificare il fallimento del rock’n’roll nei giorni nostri. Stupida e forzata proiezione futura di un mondo che necessita un presente. Per un purista come me insomma è difficile trovare un connubio tra due realtà così lontane e ritengo buona l’amalgama solo quando di mezzo interviene l’immortale collante: “il pop” (Kasabian, The Killers o gli U2 di “Pop”, tanto per far capire quanto sono “asino”). Ma qui il collante viene usato col contagocce e i due universi si scontrano senza mezze misure, uno scontro titanico senza tante carezze o addolcimenti.
I F.O.O.S. arrivano da Torino, città che da un certo punto di vista già da qualche anno strizza l’occhio all’elettronica. Sono in due, picchiano duro come fossero in cinque (li ho visto dal vivo, fidatevi che vi fanno sentire il vento in faccia) e non hanno alcuna intenzione di abbassare la testa per scendere a compromessi. Il loro esordio discografico è “Showcase” che da anche il titolo al primo brano dell’album. In questo inizio ci troviamo sommersi in un mare apparentemente quieto ma che odora di tempesta, puzza di nervosismo. Un braccio teso a tenere una testa sotto l’acqua per affogarla. La testa però presto si ribella e dal mare esce un terribile mostro (“The monster”), un incrocio devastante con corpo virile e testa robotica. Inizia così lo scontro a colpi di riff villani e tenebrosi synths, il tutto scandito alla perfezione dalle ritmiche di F, batterista precisamente in bilico tra la violenza dell’hard rock e il groove danzereccio.
I due giovanotti non mollano mai la presa, non rilassano neanche un muscolo. La battaglia si fa sempre più serrata in “Hot coals” e “G.O.L.”, la luce artificiale del dancefloor incontra qualche goccia di sudore. I due mondi sono sempre più uniti, ma non si abbracciano, sbattono clamorosamente l’uno contro l’altro e il risultato è pieno di spigoli, sebbene presenti la sua matematica regolarità. “Modermorphosys” è l’episodio più pop con l’intro molto Thirty Seconds To Mars, che poi vira verso terre meno battute fornendo anche a questa canzone la giusta dose di personalità. “Mirror Labyrinth” suonerebbe perfetta per un frenetico videogioco sparatutto e simula l’angosciante claustrofobia del labirinto (giusto per dare un esempio di come la band rifletta bene le sensazioni nella propria musica). Nel finale “The world we could have built” i toni si abbassano, la guerra sembra finita e si torna all’iniziale calma apparente. Il pezzo pare parlare da un altro pianeta e con un briciolo di fantasia calzerebbe perfettamente addosso alla voce toccante di Dave Gahan.

Eh si, devo proprio ammetterlo, questa volta il mix “electrock” è riuscitissimo. I pezzi sono tutti “killer” e il disco è prodotto alla perfezione. Lo dimostra la caparbia gestione del caos apparentemente anarchico (“Hot coals” e “Riot!” i migliori esempi). La testa robotica non ammette sbavature, tutto sta dentro lo schema. Ma lo schema è una terribile gabbia dove “il mostro” si dimena e grida libertà. La libertà non la ottiene, ma il suo grido pregno di umanità rende questo un grandissimo album.

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Sinezamia – La Fuga BOPS (recensioni tutte d’un fiato)

Written by Novità

Il rock’n’roll si butta in vena un siero freddo e nero in questo album dei mantovani Sinezamia, band già attiva da diversi anni e dal sound a dir poco “fuori moda”. Vicini ai primissimi Litfiba, alla new wave e non di certo ad orizzonti più ruffiani a cui molti gruppi del loro calibro puntano in questi periodi.
La scelta è decisa ed è pure premiata. Il freddo fa da padrone già dal primo galoppante basso di “Ghiaccio nero” e la gelata continua in tutti i sette brani dell’album tra richiami psichedelici e tecnicismi metallari. “Venezia” è un castello incantato che esalta la grande compattezza dell’organico, mai sopra le righe e sempre ben bilanciata nonostante i virtuosismi dei cinque ragazzi. “Occhio elettrico” suona distante con i colpi di doppia cassa che rimbombano nelle orecchie. In “Ombra” nasce il timore è che l’oscurità copra la furia, il sangue che pulsa nelle vene rischia così di essere pericolosamente rallentato. I dubbi vengono spazzati via  dalla title track “La fuga” dove la voce di Marco Grazzi quasi acciuffa l’estro di Pelù e la chitarra di Federico Bonazzoli taglia in due la nebbia e i miei dubbi con un assolo d’altri tempi.
L’ultima parte è affidata a “Frammenti”, schiacciata da una tastiera troppo squillante e artificiale, ma l’amalgama della band comunque si eleva sopra le (discutibili a mio avviso) scelte di suoni e incolla i vari pezzi sparsi per la via, restituendoci una oscura, ma furiosa dose di rock’n’roll.

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Martino Adriani – Non Date Retta A Me

Written by Recensioni

La rima è sicuramente un’arma antica ma ancora efficace per fare breccia nel nostro cuore, nonché nel nostro cervello. E la rima è indubbiamente l’arma preferita da Martino Adriani, cantautore salernitano che sa giostrare le parole con grande semplicità e estro, senza cascare nel facile e frequente “sole, cuore, amore”. Martino rimane comunque a ridosso di quel baratro, cammina intorno al bordo dello strapiombo rendendo così la sua canzone infantile, sempliciotta ma mai banale e impersonale con quel pizzico di trash di amatoriale che rende il prodotto fresco, reale e onesto. Appositamente trash e amatoriale sembra essere stato studiato l’artwork, che riflette proprio alla perfezione il contenuto.
I brani del suo mini-album non sono capolavori e credo che lo stesso ragazzo campano questo lo sappia benissimo, non hanno nessun picco di genialità, ma hanno la rara caratteristica di attirare l’attenzione proprio per quelle parole che devono suonare insieme, per quella musicalità data da quelle coppie di sillabe che tendono a dare una sensazione di unione con la musica che si sta ascoltando. E allora rimaniamo sempre in attesa della prossima rima, sperando ci strappi un sorriso come spesso capita. La demenzialità, il surrealismo e l’autoironia regnano sovrani: “Non ho più il fisico, se non per giocare a Risiko”, “Mi presento sono un inventore, ma solo di strofette e buonumore”. Ma forse la migliore (anche se incastrata a forza) rimane: “e anche se porto l’orologio di Flick e Flock mi faccio di poesie francesi, gin e tanto rock”, un’esplosione di autocelebrazione naif in “Diverso” accompagnata da un arrangiamento allegro e spensierato opera del fido collaboratore Daniele Brenca. Le musiche rimangono sempre a cavallo di un’onda calma e distesa, rilassano mente e corpo in ambientazione molto marittima: quattro amici, qualche birra e una spiaggia. In questo sottofondo pacioso Martino sprigiona il suo egocentrismo e fa la differenza: “verso nel bicchiere un poco di universo e lo bevo all’inverso”, “questa vita è una pazzia prendila con ironia, attitudine non mia, che sono figlio della nostalgia”.
Dei tratti di rude genialità vengono dipinti anche in “Le phisique de role”, Martino dice di essere pigro e completamente avverso all’attività fisica ma con la sua energia pare portarci ancora al parco giochi nelle sere di inverno, quando tutti gli altri papà stanchi e oppressi dagli straordinari al lavoro preferiscono accendere la console di turno e sbarazzarsi del proprio figlio. La grande fortuna di rimanere bambini.
Un po’ in sordina gli altri brani del disco. Convincono meno la title track, filastrocca mirata più all’autocelebrazione che altro e “Marika Discarica” (anche in versione remix, più minimal ed esotica), la melodia è statica e lascia la canzone insapore nonostante la tematica sociale affrontata con grande personalità e con l’occhio innocuo ma spietato di un bambino troppo cresciuto. Una nota a parte va a “Vai a Uomini e Donne”, forse qui Martino cade in una facile parodia sulla nostra società arrivista, troppo comoda e scontata come presa di posizione. In questo caso il nostro amico si è dimostrato pigro proprio come si descrive. Ma sappiamo che non è così e che può regalarci molto di più. Per il momento mi accontento di quattro rime in croce come queste. Per fortuna a regalarmi un sorriso basta davvero poco.

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Daniele Celona – Fiori e Demoni

Written by Recensioni

Tutte le mattine ci soffermiamo un momento davanti allo specchio. A volte solo per guardare se stiamo perdendo qualche capello o se ci sono spuntati dei punti neri sul naso. A volte per fare due conti con il nostro presente e (anche se si spera di no) con il nostro passato. Dopo aver cincischiato davanti al nostro specchio inizia il mondo che osserviamo: per strada, in viaggio, in tangenziale, in fabbrica, davanti al pc, a scuola, in televisione, in vacanza. Lo immagazziniamo e ritrasmettiamo dai nostri occhi. Occhi riflessi dal nostro specchio quando rincasiamo la sera.
Questa procedura è molto analitica e indubbiamente una stupida semplificazione di ciò che si spera sia un sentimento umano, ma a me pare essere vicina all’ “esercizio” eseguito dal cantautore torinese Daniele Celona in “Fiori e demoni”. Il disco non si capisce al volo, nasconde passaggi contorti e ingarbugliati, ma sprigiona una capacità di espressione diretta e semplice, che mi cattura e mi fa perdere più tempo del solito ad analizzare ogni singolo particolare.
Questo album è proprio lo specchio riflesso della nostra società vista da un ragazzo che non nasconde le ombre e le sfumature. Daniele utilizza un pennello con la punta molto fine e delinea con esattezza ritratti moderni, vicini a lui, ma anche a noi, alla gente che lo osserva e che lui a sua volta studia. Il suo soggetto è la vita umana. Quella letta sui rotocalchi, quella che si consuma nel posacenere sul balcone di casa, quella raccontata agli amici stretti ma che forse si capisce solo nelle parole delle canzoni. Pare essere un esercizio molto difficile, molti cascano in frasi espresse “per sentito dire” o si perdono in filosofie da bar. Daniele ha la capacità di incanalare rabbia, passione, sconforto in melodie accarezzate dalla sua eclettica voce. Demoni che diventano fiori. Rose spinate, bellissime e profumate ma pungenti se non addirittura taglienti. Ballerine decadenti che danzano eleganti in mezzo a distorsioni e carezze.
“Ninna nanna” è l’inizio spietato. Il rock, la cronaca e la poesia si mescolano con incredibile equilibrio e dinamica. La metrica storpia e cadenzata ci butta in un inferno ben scandito da innumerevoli colpi di rullante. La ninna nanna ci porta dritti in un incubo: lo spettro delle centrali nucleari in Sardegna (seconda casa del cantautore) prima del referendum. Certo Il Teatro degli Orrori domina sovrano in mezzo alla moltitudine di parole feroci e ritmi forsennati, ma la voce di Celona scavalca la pomposità e la forma decadente di Capovilla, per arrivare direttamente al punto. Farci aprire gli occhi. L’incubo lo stiamo vivendo per davvero.
La classe viene poi subito confermata dall’incredibile “Mille Colori”, una montagna russa di dinamica tra ritornelli memorabili e sospiri parlati. Daniele esplora tutte le sfumature e tutti i contrasti di un amore finito. Spaventosamente visiva e materiale e allo stesso tempo incoerente, irrazionale e visionaria.
“Acqua” è forse l’episodio più pop ma non per questo meno intenso. Anzi la canzone abbatte prepotentemente le barriere tra scorci realistici della nostra società e rabbia personale. Un piccolo gioiello pop che lava via la superficialità e il pressappochismo.
La feroce critica alla società si fa ancora più spazio e si insidia nelle corde vocali di Daniele quando partono “Cremisi e “L’alabastro di Agnese”, quest’ultima caratterizzata da una singolare struttura strofa-ritornello e dalla ricorrente cantilena.
In tutta questa carne al fuoco le parole non mettono mai in secondo piano gli arrangiamenti e la maestosa botta creata dalla band alle spalle di Daniele. I Nadar Solo sono ormai da qualche anno uno dei migliori prodotti del panorama italiano e accompagnano con grande dimestichezza l’elasticità vocale del cantautore. Tutto accelera e rallenta simultaneamente, l’alchimia è spaventosamente perfetta.
“Il Quadro” è il ritratto e la summa del nostro percorso. Dopo aver osservato tutto ciò che ci circonda e ci punzecchia dall’esterno ci ritroviamo davanti alle nostre ragioni. Siamo qui a osservare noi stessi, con quel senso di impotenza: proviamo a cambiarci la pelle ma quello che abbiamo davanti è peggio di uno specchio, è un quadro imperturbabile. Prendere o lasciar perdere. E un disco così ce lo prendiamo tutto: intimo e collettivo

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Hijack Party – Hijack Party

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Quando il nome suona così cool è difficile che il sound preservi sorprese. Capita anche con Hijack Party, neonata band romana dal suond fresco, vivo e vegeto nel nostro presente: tra nervosismi e ampi respiri di aria fresca.
L’aria del loro album di debutto ha un incredibile sapore british, e la biografia della band spazza via ogni dubbio: Stefano Reali (chitarra e voce) ha vissuto e suonato 10 anni in terra inglese. La sua voce sporca e ruvida è pregna di sigarette in sudici club, lunghe passeggiate ad Hyde Park, partite a freccette e litri di bionde medie al bancone. I don’t have an answer è sbruffona e arrogante come il Liam Gallagher dei bei tempi, biascicata e un ottimo tributo al brit pop. Si, Hijack Party sono una band nostalgica di un fresco passato ma non si fermano a riprodurre su carta le perfette statue greche, come fanno gli studenti d’arte in visita al British Museum. Love Infection spazza via questo facile pregiudizio con un bel ritmo in levare che accarezza sia i Negrita multietnici che i Blur più caciaroni e festaioli.

I ragazzi (pare neanche troppo giovani a dire il vero) muovono i loro passi decisi, nonostante sia la prima uscita discografica, senza mai esagerare e rischiare nulla: 4-4-2 sicuro e provato più volte in allenamento. Quando si scende in campo i quattro giocano a memoria, senza mai uscire dal loro ruolo ben definito. E allora le ritmiche di Vincenzo Stefanini e Patrizio Placidi sono precise e sintetiche persino quando potrebbero osare di più in Insideout, l’episodio più hard del disco, forse più adatto alla voce di Skin che a quella di Stefano. Le sue corde vocali, in generale abito perfetto per il “party”, si dimostrano in questo episodio troppo sottili e strozzate dal peso dei riff.
Anche la chitarra di Damiano Caporalini pare ben indirizzata sui suoi binari e svolge un ottimo lavoro mirato a valorizzare la squadra, salvo qualche incursione spregiudicata sulle fasce (e a dire il vero molto gradita) come l’assolo in I’m not moving, altro che stare fermi questo è un inno alla frenesia. Come accennavo all’inizio, non mancano le boccate d’aria. La ballata Freefall valorizza nuovamente il numero 10 della band: l’ugola di Stefano dona colori e sfumature oltre al semplice pop inglese della canzone. Una vena melanconica su ritmiche spensierate, sfumature di vita vera, un fantastico goal di Roberto Baggio supportato da una Italia in forma U.S.A. 1994.
Soul Searching è il singolone, quello che personalmente stavo attendendo. Quattro accordi scontatissimi che racchiudono una di quelle canzoni che non vorresti mai partisse nell’autoradio quando entri in galleria.

In definitiva Hijack Party ci dimostrano che in Italia il pop rock esiste ed è pronto a sfondare tutte le barriere linguistiche, con carattere e rispetto reverenziale verso chi, ben più a Nord di Roma, vanta una storia invidiabile.
Nessun azzardo, nessuna pretesa eccessiva, tutto racchiuso in uno schema consolidato. Certo, il risultato è efficace e brillante ma (sperando di non toppare la fede calcistica dei quattro ragazzi) non sarebbe male vedere questa squadra guidata da un allenatore bello offensivo. Che ne dite di Zeman?

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