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Voglia di X-Factor? Fattela passare. Rock the Monkey!

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Rockthemonkey

Rock the Monkey! Manuale di sopravvivenza per non perdersi nel mondo della Musica.

Oggi più che mai, causa l’avvento e l’affermazione dei più disparati reality di carattere musicale, sempre più paiono i giovani cantanti decisi a intraprendere la “carriera” del musicista ma, allo stesso modo, tantissimi, forse la maggior parte, finiscono per perdersi nelle delusioni, nelle illusorie speranze, nella fama che dura un attimo, nella scarsa preparazione. Pochissimi sono i veri talenti tirati fuori da questi pseudo talent show e probabilmente saranno più i veri talenti che per colpa di questi talent show hanno rinunciato per sempre a scavare nel proprio Io alla ricerca del meglio di se e a intraprendere le strade migliori per far sì che questo talento potesse realmente venire fuori. Per cercare di indirizzare i ragazzi più capaci verso la via ripida e faticosa che rende veri artisti, David A. R. Spezia e Massimo Luca hanno realizzato un manuale che consigliamo vivamente a tutti questi ragazzi, pieni d’idee e con la passione che poi è la stessa che muove anche noi. Per capire meglio di cosa si tratti, abbiamo intervistato i due autori di questo Rock the Monkey!.

Ognuno di noi ha sognato, almeno una volta, di diventare una rockstar. Ma la musica non è solo un sogno, per tanti è una “scimmia” in grado di creare dipendenza e di trasformare chiunque in un perenne cercatore d’oro. Quanti hanno messo in piedi una band con gli amici e hanno iniziato a muoversi nell’universo musicale italiano: i pezzi scritti in saletta, la ricerca di locali dove suonare e di un’etichetta discografica, con l’obiettivo di far conoscere il proprio talento e diventare famosi.

Ciao David A. R. Spezia (scrittore) e Massimo Luca (musicista al fianco, tra gli altri, di Battisti, De André, Mina, Bennato, Dalla, Vecchioni, oltre che compositore e produttore di talenti come Grignani e Antonacci). Come state? Andiamo subito al dunque. Rock The Monkey, un manuale per diventare una Rockstar. A chi è venuta questa idea e perché soprattutto?
David: la scintilla l’ho avuta una mattina. Erano vent’anni che non sentivo Massimo. Ho recuperato il suo numero di telefono da un amico comune e l’ho chiamato. Lui si è ricordato subito.  Io sono stato molto diretto, devo dire, col senno di poi. Gli ho chiesto: “Massimo. Vuoi scrivere un libro?”. Dopo aver spiegato a grandi linee il progetto, ha subito accettato. Qualche giorno dopo ci siamo visti e abbiamo cominciato. Il libro ha preso immediatamente la sua impronta e l’idea è stata sviluppata e portata avanti grazie alla sua grande esperienza nella musica. Come scriviamo nel capitolo intitolato ”Intro”, siamo diventati una chimera. La fusione di due entità: lo scrittore e il musicista. Da qui è nato il nostro libro.

Massimo: Sì, oggi tutti vogliono apparire e lasciare una traccia di se stessi sulla Terra. Questa è una vera e propria sindrome! La causa va attribuita ad una televisione populistica che lancia in modo più o meno evidente messaggi che esasperano troppo il senso dell’edonismo! Il libro/manuale cerca di riportare il lettore in una dimensione normale raccontando quello che sino a qualche anno fa è stato il mestiere più bello del mondo. Il messaggio è evitare di fare i fenomeni da baraccone e migliorare la propria personalità artistica attraverso lo studio e la conoscenza fino al raggiungimento di uno stato di eccellenza. La scimmia? È la passione che non ci fa sentire la fatica. È una donna che ami senza essere riamato!

Ho letto il libro e, vista la presenza di David A. R. Spezia, mi aspettavo una narrazione meno schematica, quasi più un racconto dentro il quale s’inserissero le vostre idee. Invece si tratta proprio di un manuale, nel senso più classico del termine. Come mai questa scelta narrativa?
David: io direi che la scelta della prima persona nella narrazione, abbia portato il libro a essere meno “saggio” e più “manuale esperienziale”. È vero che si trovano pagine dedicate ai trucchi del mestiere, magari con elenchi di cose da fare e da non fare, però in tutto questo si inseriscono aneddoti della vita di Massimo: le sue esperienze dirette con Lucio Battisti per esempio, o di come abbia portato Gianluca Grignani al successo del primo album. Il libro vuole dare consigli, senza essere però pretenzioso. È come se qualcuno mi raccontasse la sua vita: ciò che una volta accadeva nelle botteghe degli artigiani nei confronti del garzone. Oggi questo non esiste più: ognuno fa musica e pretende di farla senza aver voglia di imparare l’arte e il mestiere.

Personalmente non sono mai stato un grande amante dei “manuali”, quei libri che pretendono di dare risposte, preferendo i testi che favoriscono il dubbio. Tuttavia in Rock The Monkey c’è qualcosa di diverso. Cosa lo distingue sostanzialmente da un manuale per smettere di fumare, uno per perdere peso, e cosi via?
Massimo: in effetti, non è un vero e proprio manuale; il titolo è ammiccante, quasi umoristico! In realtà, a parte alcuni consigli dovuti dall’esperienza, è un passaggio di testimone tra due generazioni che sono abbastanza distanti! Qui nessuno insegna niente a nessuno! Ho voluto “restituire” il dono che ho ricevuto quando ero poco più che un ragazzo. Il “dono” è tutti gli insegnamenti che i “vecchi” mi avevano regalato e che hanno contribuito non poco a far divenire la mia carriera quasi leggendaria. Dopo cinquant’anni ho voluto restituire ai più giovani questo “dono”.

Nella scrittura ho notato alcune cose caratteristiche. Esempio, frasi brevissime, tanta punteggiatura e “a capo”. Una fluidità anche eccessiva talvolta. Inoltre, molte note talvolta elementari e ripetizione dei concetti (cosa che nei manuali si nota spesso). A cosa è dovuta questa scelta espressiva?
David: il motivo è che quando si chiede a qualcuno di insegnarci qualcosa, questa persona deve cercare di esprimersi in maniera diretta e semplice. Ogni concetto deve essere fissato con pochi e facili termini. Ripetuto più volte per essere metabolizzato. Visto che la narrazione è sempre in prima persona, bisogna immaginare che è come se ci fosse Massimo a parlarmi in quel momento. Quando c’è dialogo, difficilmente si hanno frasi lunghe, tortuose, “teatralmente compite”. Non sarei alla scuola di un artigiano, al contrario, sarei alla lezione di un professore che non farebbe altro che conciliare il sonno. Per quanto riguarda le note, invece, il motivo deriva dal fatto che il libro è davvero pensato per tutti, anche per chi non sa niente della musica. Cose che per i quarantenni sono normali, per i ventenni non lo sono per niente.Chiedi a un ragazzo chi era De Andrè.

A chi si rivolge il volume? Avete pensato a qualcuno in particolare o a una categoria precisa quando avete deciso di scriverlo?
David: Rock The Monkey! è per tutti. È per i musicisti che vivono di musica. Per chi ha tentato la strada della musica e oggi fa altro. Per chi vuole iniziare questo percorso e non ha la minima idea di quello che lo aspetta. Soprattutto, è un manuale di vita che raccoglie aneddoti e pensieri di anni di palco e retropalco in un periodo in cui la musica era spumeggiante, viva, prepotentemente alla ricerca di se stessa. Mi ha fatto piacere leggere il commento di una lettrice, non musicista, che ha scritto che il libro è una “scusa che ti fa capire come affrontare la vita”.

Nel libro si afferma giustamente l’idea che, chi ama la musica, non dovrebbe inseguire il successo. Ma in fondo chi ama fare musica desidera anche condividere le sue emozioni e il successo è l’estremo della condivisione. Dunque, sono veramente cosi antitetici la passione vera per la musica e la voglia di inseguire il successo, inteso non in termini economici ma di pubblico?
Massimo: dico sempre che il successo è “dentro” di noi. Ricordo che negli anni 60 il successo lo decretava il pubblico quando ascoltava un complesso o un cantante. La balera “piena” di gente era il successo. Significava continuità, e la continuità significava sopravvivenza! Nessuno di noi ambiva a fare dischi! Noi volevamo solo “lavorare”, cioè suonare sopra un palco sapendo che domani ci sarebbe stato un altro palco e così via. Il disco era la fase terminale del progetto artistico. Quando centinaia di migliaia di persone conoscevano quel tal cantante o gruppo, mettere un disco sul mercato voleva dire averlo già quasi venduto! Oggi la televisione parte da quella fase terminale, e cioè al contrario. Si parte dal “successo” per finire a casa propria senza che nessuno noti che siamo scomparsi. E questo perché il “gioco” prevede un nuovo vincitore. Se questa è una carriera!

Altra cosa, parlate giustamente di live e indicate questa come una delle strade migliori per fare la necessaria gavetta. Eppure (anche noi con Streetambula organizziamo eventi) non tutti riescono a trovare spazi e date, vuoi per la concorrenza spietata di Tribute Band e Dj improvvisati, vuoi perché al pubblico della musica interessa meno che mai, vuoi perché pochi sono i locali attrezzati, vuoi perché pochi sono i gestori appassionati (molti i localari, come li chiamate nel manuale). Come si può indicare un problema, come la soluzione?
Massimo: localari a parte (c’erano anche cinquant’anni fa!) il problema vero, a mio parere, è la qualità del repertorio! Oggi quasi nessuno è più in grado di scrivere una canzone di quelle che si canteranno tra trenta o quarant’anni. E quindi si capisce il successo della “Tribute Band” che replica a papera un successo già conclamato dall’originale! La gente ha bisogno di cantare le canzoni e quelle di oggi sono solo note che si inseguono spesso senza nessun talento o logica artistica. Un giorno qualcuno disse che TUTTI potevano scrivere una canzone e il risultato è purtroppo visibile! E visto che sognare non costa nulla,immaginiamo un ragazzo in una balera qualunque di periferia che canta una nuova canzone tipo “La canzone di Marinella” o “Fiori rosa, Fiori di pesco”. La gente sgranerebbe gli occhi dalla sorpresa, esattamente come avevo fatto io quando ho sentito i Beatles dal vivo nel 65.

Personalmente ho notato un certo addolcimento del Rock moderno, meno propenso a esprimersi con aggressività, sia musicale sia testuale, specie in provincia. Quanto questa tendenza può essere data dal fatto che è più difficile suonare per chi sceglie strade di questo tipo? Stesso discorso per la sperimentazione. Chi osa e cerca veramente di essere originale ha meno chance e porte cui bussare?
Massimo: il Rock moderno non esiste! Non c’è più Rock, tantomeno in Italia! Dico sempre che il Rock non è una chitarra “distorta”. Il Rock è una filosofia di vita. Il Rock, quello vero, aveva testi dissacranti, quasi pornografici. Simulavano l’orgasmo! Quello di oggi è vile Pop mascherato con chitarre “power” che simulano il SUONO del Rock ma che Rock non è. La responsabilità dei nuovi “mostri” sacri attuali è grave! Loro (forse) sanno la verità ma se ne guardano bene dal divulgarla. C’era molto Rock nelle canzoni di Bob Dylan, anche se non c’era “rumore”. Oggi c’è molto rumore per nulla! A mio parere Vasco è più rock di quello che scrive.

Nel testo, a un certo punto, fate una lunga carrellata di artisti italiani, da Vasco a Grignani. Mancano però nomi nuovi. Chi sono gli artisti che, seguendo la strada indicata nel manuale, oggi possono dirsi delle Rockstar? Intendo artisti giovanissimi.
David: dipende sempre dal concetto di “Rockstar”. Se con questo termine intendi il successo e il conto in banca, direi che ce ne sono parecchi di esempi, oggi. Come diciamo nel libro però, il successo non si misura in una stagione. Bisogna ragionare in anni. Abbiamo inserito una lunga carrellata di vincitori dei due talent televisivi più seguiti: è curioso leggere i nomi delle prime edizioni e vedere, in chi ti sta di fronte, l’espressione tipica del “non l’ho mai sentito”. C’è poi qualche altro vincitore che è finito a fare spot per operatori di telefonia mobile. Nomi nuovi non sono citati nel manuale semplicemente perché riteniamo sbagliato prendere ad esempio una carriera magari di due, tre o quattro anni. Se ragioniamo in questi termini, la vera sfida sarebbe decidere chi lasciare fuori. Il concetto di “Artista” è molto più ampio: “è uno stato genetico immodificabile” che prescinde dal look e dal successo.

Massimo: ho letto qualche giorno fa su un quotidiano che presto uscirà un film sulla vita e il successo di Marco Mengoni! Come Jim Morrison dei Doors! (ride ndr)

Perché la musica di qualità, che si tratti di Rock, Musica Leggera o Avanguardia, fa cosi fatica a emergere e attecchire?  Di chi è la colpa della mancanza d’interesse del pubblico per la qualità ma anche per la novità, sia nella musica sia nei nomi?
David: dipende dal grado di attenzione. Oggi solo una minoranza silenziosa ha l’interesse di approfondire un concetto per arricchirsi. La maggioranza è tracotante, rumorosa. Viaggia in terza corsia con gli abbaglianti accesi e suonando il clacson per sorpassare.Siamo tutti costantemente disorientati da mille stimoli. In un contesto di questo tipo, chiunque voglia affermarsi deve urlare più degli altri e utilizzare l’unico mezzo che consente di farsi notare in poco tempo: la televisione. E siccome l’interesse è poco, l’approfondimento nullo, l’affezione inesistente, il pubblico non potrà far altro che spostarsi sulla prossima novità.

Massimo: David ha espresso bene il concetto. Aggiungo solo che ogni anno nel nostro paese ci sono quindici milioni di download di suonerie stupide e banali. È la cultura, il massimo comun denominatore della qualità della vita di un popolo. È un problema anche politico.Vivere senza cultura è come affrontare il polo nord con le infradito!

Supponiamo che 1000 cantanti leggano il vostro libro. Quanti di questi pensate onestamente che possano seguirne i dettami? E quanti riusciranno veramente a suonare senza dover fare altro nella vita?
David: su mille che lo leggeranno, mille lo faranno proprio. Di questo sono convinto.Non è facile avere il tempo di leggere oggi. E quindi, chi si prende l’onore di acquistare un libro, significa che è già mentalmente predisposto a investire del tempo su se stesso. Basta solo un concetto, uno solo, che sia rimasto e per me sarà già un enorme successo.

Massimo: David è molto ottimista e voglio esserlo anch’io! Però resta il fatto che statisticamente i giovani non leggono giornali né libri tranne quelli di Fabio Volo! Speriamo almeno nei musicisti e nei cantanti “contaminati” dalla “Scimmia”!

Nell’ultima parte del libro, parlate della figura dell’artista, in musica, ma sembrate tenere fuori tutta una serie di tipologie come gli sperimentatori (quest’anno non posso che citare i Nichelodeon, i Deadburger, gli InSonar as esempio) che, raramente riempiono stadi o scrivono “canzoni”. Ci vorrebbe un altro manuale per chi vede la musica sperimentale come la propria strada?
David: il libro va proprio in questa direzione. Non esiste un prototipo di artista o musicista. Nel libro citiamo l’”olimpo degli dei”, volutamente scritto in minuscolo, per indicare quel luogo cui tutti aspirano. L’olimpo non è un QUANDO – quando sarò famoso -, ma un DOVE, proprio per indicare che il successo nasce da noi stessi e non da fattori esterni, come la riconoscenza del pubblico. Grazie all’esperienza di Massimo, abbiamo descritto situazioni di vita vissuta. Di com’era la musica quando esisteva ancora un percorso artistico. Di com’è diventata oggi. Chiunque faccia “ricerca”, sia essa sperimentale o tradizionale, sposa la filosofia di “Rock The Monkey!”, perché è alla Scimmia della Musica che noi guardiamo, non al linguaggio utilizzato. Per questa ragione, stiamo organizzando seminari nelle scuole (non solo di musica): a febbraio saremo in due eventi in una delle più importanti scuole milanesi, davanti a ragazzi di medie e liceo. E in futuro vedo benissimo una collaborazione con chiunque sperimenti percorsi alternativi di musica, anche in queste occasioni di “testimonianza” per i giovani.

Massimo: concordo con David e ribadisco che il successo è dentro di noi. Cioè tutte le volte che riusciamo a “catturare” nel buio cosmico un gruppetto di note che insieme formano una grande melodia. Anche Battisti era uno sperimentatore, ma è stato anche un artista molto popolare. Sperimentare non vuol dire “ora faccio qualcosa che capiamo in pochi”. Questo è bieco provincialismo!

Grazie mille della disponibilità.
Ditemi quello che avrei dovuto chiedervi e non vi ho chiesto. Poi, se volete, rispondetemi.
David: cito due frasi di Rock The Monkey! a me particolarmente care: “Se sarai tu a cullare la scimmia, avremo vinto” e “tutto il resto è da raccolta differenziata”.

Massimo: ma chi è ‘sto Massimo Luca?

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Paul Mc Cartney

Written by Live Report

26 giugno 2013 @Arena di Verona

Paul è Paul!

E’ questo il primo commento che viene da fare appena usciti dall’Arena di Verona a tutti…

In quasi tre ore di concerto Mc Cartney infatti ha dato fondo a tutte le sue energie per garantire ogni singolo secondo il migliore degli spettacoli, gradito da persone di tutte le età (c’erano giovanissimi ma anche sessantenni e persino qualche over 70!) e da alcuni vip avvistati tra il pubblico (si sono fatti i nomi di Paola Turci, Marco Mengoni, Elisa, Mario Venuti  e Cesare Cremonini che tra l’altro sedeva a poche file di distanza da chi scrive). Avrà superato i settanta, ma la grinta è ancora quella di un ragazzino, tanto da indurlo a provare diciannove delle quasi quaranta canzoni previste per lo spettacolo serale in un soundcheck segnato da un violento acquazzone. All’arrivo all’Arena nel medio pomeriggio è stato accolto da un centinaio di impavidi fans che lo attendevano già tempo sperando di potergli rubare un autografo o una foto in compagnia (sogno però spezzato dal fatto che si è fermato scortato dalle guardie del corpo giusto una manciata di secondi accennando appena un saluto). L’Out There Tour è approdato quindi ufficialmente in Italia per un unico concerto andato ovviamente tutto esaurito che è cominciato verso le 21:30 con un “Buona sera Verona, siete tutti matti?” per l’esecuzione di “Eightdays a Week“.

L’Arena di Verona solitamente sarebbe ad uso della musica lirica ma già negli scorsi anni mostri sacri della musica pop e contemporanea quali Deep Purple e Duran Duran vi si sono esibiti ottenendo grande successo di critica e pubblico. Molti sono stati durante la serata i pezzi attinti al repertorio dei Beatles, grandi classici quali “Let it be”,“Hey Jude”, “Day Tripper”, “Get Back”e“Yesterday” ma tralasciando anche “Penny Lane” o “Michelle”. Probabilmente quindi ci sarà stato anche chi come me si sarà lamentato di non avere sentito “Goodbye and Hello”, ma forse era davvero impossibile proseguire lo show dopo due ore e quaranta minuti davvero al top. Ogni tanto qualche dedica ai suoi ex compagni di gruppo, John Lennon (succede in occasione di “Here Today” che confessa essere il dialogo mai avuto con l’amico ucciso nel lontano 8 dicembre 1980 dal folle Mark Chapman) e George Harrison ed anche alla sua ex moglie Linda, indimenticato grande amore e musicista accanto a lui sin dai tempi dei Wings per la quale scrisse “My Valentine” eseguita in una toccante versione. C’è stato anche tempo per un breve tributo al più grande chitarrista della storia del rock, Jimi Hendrix (bellissima l’esecuzione strumentale di “Foxy Lady”) e per dei fuochi d’artificio durante “Live and Let Die”, colonna sonora del noto omonimo film di James Bond.

La chiusura è stata affidata (giustamente) a “The End”, ultimo brano di “Abbey Road” per un 25 giugno che difficilmente chi era lì dimenticherà mai! Tanti gli accorsi da fuori regione, molti persino dall’estero per il baronetto del rock che a cinquant’anni dal primo disco dei Beatles non smette di far sognare persino le ragazzine…

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Elya – Il Mio Canto è Questo Rock

Written by Recensioni

Poesia e rabbia nel nuovo disco del cantautore Elya. Un lavoro maturo che arriva a piantarsi come una pietra miliare nel cammino artistico di uno spirito fedele alla linea del rock d’autore. Sei brani aperti dalla hit “Il Mio Canto è Questo Rock”. Pezzo di pura espressione vocale dove il cantautore riesce a trasmettere a pelle, complice anche un testo ben calibrato, la sua carica emotiva. Capacità espressiva legata a sonorità ritmiche, calde e sempre incalzanti anche nel secondo brano, “La Luna Ora lo sa”. Più riflessiva e melodica la terza traccia “Ci Sei tu”, che denota ancora una volta, la buona fattezza dell’intero disco. Ottimi arrangiamenti e tanta cura che per l’ascoltatore, diventano un vero e proprio marchio di fabbrica. Un risultato forte, ottenuto dalla produzione artistica curata da Fabio Pignatelli, storico bassista dei Goblin earrangiatore dei maggiori cantautori italiani fra i quali Antonello Venditti. Un valore aggiunto che si somma alle collaborazioni di Toti Panzanelli (chitarrista – Ferro, Concato, Pravo, Venditti), di Alessandro Canini (batterista e produttore artistico – Fabi, Gazzè, Mengoni, Venditti) e di Fabio Colella (batterista -Molinari, Bosso, Neil Zaza). Collaborazioni arricchite dai preziosi contributi di composizione ottenuti da Elya e da Giuseppe Ferroni. Duo che insieme agli arrangiamenti di Pignatelli hanno dato vita anche alla quarta traccia “L’Incantanta”.Pezzo che parte da una rivisitazione di un antico canto della zona della città dell’Aquila, per diventare un invocazione d’amore, quello vero, che va oltre l’apparenza del corpo e del viso. Unione d’anime scolpite in poco più di tre minuti e mezzo da una ritmica coinvolgente e da un canto ispirato ed emozionante. Nel disco c’è anche spazio per una composizione di Beppe Frattaroli (compositore – Turci, Tosca e collaboratore musicale di Paola Gasmann, Montesano, Pagliai). Ritmi cadenzati nella quinta traccia: “Capita Anche a te”. Un messaggio a non lasciarsi andare e non smettere di inseguire i propri desideri. Chiude il disco, ma solo per il tempo di ricominciare l’ascolto, una riuscita cover di “Quanto t’Amo”di Johnny Hallyday scritta in italiano da Bruno Lauzi. Elya ha voluto che il ricavato ottenuto dalla distribuzione del disco venisse devoluto alle Missioni Francescane del Burkina Faso in Africa.

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Sanremo 2013: le nostre pagelle dello show nazional-popolare più amato-odiato dagli italiani.

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Che qualcuno dica a Marco Mengoni  (ha passato tutto il festival a tirare su col naso e pulirsi con la manica della giacca… -?-) col sopracciglio spaccato da ragazzino ripulito che s’è tolto il piercing-sbaglio-di-gioventù-mo’-sono-maturato, che dedicare la sua vittoria a Luigi Tenco è circa non aver capito un cazzo di Tenco stesso. Oltre che dimostrare di avere un ego smisurato. Suicidatosi lasciando un biglietto con scritto “faccio questo come atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale”, Tenco avrebbe fatto altrettanto stanotte a sentire del primo posto. Ma pure del piazzamento dei Modà al terzo posto, del premio come miglior testo a Il Cile e dell’esistenza di Maria Nazionale. Come donna prima ancora che artista.
Prima di dare le pagelle su qualsiasi cosa si sia mossa all’Ariston questa settimana, vorrei sottolineare una cosa che mi ha colpito. Si crede che il Festival sia un evento che ammazza la musica, che promuove solo gli artisti in odore di major, di grandi produttori o di recenti reality musicali. E sono d’accordo in linea generale. Ma è anche e soprattutto la fotografia socio-culturale della nostra Italia e io quest’anno mi sono spaventata. Non per la crisi bistrattata a fronte di tanta magniloquenza (il Festival è stato ripagato e il bilancio si è chiuso con un guadagno, grazie agli introiti della pubblicità e degli sponsor), quanto perché le band fanno ancora paura -stile “Ommiodio quell’uomo ha una chitarra elettrica e una cresta, mi farà del male!”- o comunque sono ancora l’eccezione e soprattutto perchè c’è bisogno che Luciana Littizzetto, il giorno di San Valentino ricordi alle donne italiane che un uomo innamorato non mena, nel tentativo di sensibilizzare il pubblico sulla violenza alle donne. E perchè due omosessuali sul palco che raccontano che andranno a sposarsi a New York fanno ancora notizia. Potete stare, come me, nelle vostre casette dorate, circondati da gente dalla mentalità aperta che ascolta rock da mo’ e i cui amici migliori sono gay, ma la normalità è altra e Sanremo ce l’ha sbattuta in faccia. Ed è triste. Non fraintendetemi, sapevo che siamo un paese di fresconi un po’ retrogradi, ma certi traguardi pensavo li avessimo acquisiti (tipo almeno non chiamare i Marta sui Tubi “complesso”, come ha fatto mia madre).

Fabio Fazio (7/10): se l’è cavata nonostante questa sua conduzione monocorde, nannimorettiana, che non lascia quasi mai trasparire emozioni se non un po’ di gigionismo e che viene messa da parte in favore di una ritrovata selfconfidence per improponibili imitazioni di Bruno Vespa o nella falsa modestia del “vi ho portato Anthony, vi ho portato Asaf Avidan, ché voi ignoranti non sapevate chi fossero”.

Luciana Littizzetto (9/10): mattatrice! Ha tenuto palco meglio di chiunque altro, mantenendo il suo stile ma in modo consono al palco sanremese. Ha cantato, ballato, sfottutto Carla Bruni ed esultato quando Bianca Balti si è inciampata, incarnando il pensiero del 99,9% del pubblico femminile a casa. Ha abbracciato Martin Castrogiovanni come fosse un baobab.

I VECCHI.

Marco Mengoni (4/10): retorico lui, retorico il brano, retorico il grazie papà grazie mammà e la dedica a Tenco. Quindi il perfetto vincitore del Festival.

Raphael Gualazzi (3/10): un buon pianista jazz che si improvvisa cantante per non rimanere nella nicchia del genere. Peccato che non sappia cantare. E qualcuno gli dica che muoversi da sociopatico non lo rende artistoide, ma solo spaventoso.

Daniele Silvestri (6/10): a me non è piaciuto. Anzitutto preferivo il secondo brano, quello che ovviamente non è stato selezionato per continuare la gara, poi ho trovato un po’ troppo didascalica la presenza del traduttore e lasciamo stare il testo mezzo con la cadenza romana che non mi sono proprio spiegata. Non che abbia nulla contro i dialetti, anzi. Ma perchè?

Simona Molinari – Pietro Cincotti (2/10): se lei non si fosse vestita da albero di Natale-prostituta-personaggio di Futurama (solo per citare i tweet che più mi hanno fatto ridere), non me li ricorderei nemmeno.

Marta sui Tubi (6.5/10): ci hanno provato. E ok. Sanremo non è pronto, l’Italia tutta non è pronta a sentire i “complessi”. E ok. Io avrei evitato lo stereotipo della linguaccia sul palco e della cresta (prossima volta corna? Banchettiamo a pipistrelli?) e avrei cercato un arrangiamento meno ruffiano alla Negramaro, in favore di qualcosa di più rischioso e personale.

Maria Nazionale (N.C.): 1) chi? 2) perchè? 3) quanti cellulari sono stati comprati dal boss tal de’ tali per farla televotare?

Chiara (6/10): ha fatto il compitino da cantantessa italiana che va a Sanremo. Brava figlia di X-Factor, per me è una categoria di musicisti che non esiste neanche. Mi fa lo stesso effetto di sentire dire “un dj che suona”. Ssssse.

Modà (4/10): loro sono così. C’è a chi piacciono ecco. “Se un abbraccio si potesse scomparire” comunque, è troppo anche come licenza poetica. Cantante in inglese che almeno non vi si capisce.

Simone Cristicchi (3/10): basta. Lo trovo intollerabile. E una volta i pazzi, una volta quello che muore e si immagina tutte le cose che avrebbe potuto fare. Simone, esci e fatte ‘na vita.

Malika Ayane (7/10): una vocalità indiscussa, indubbiamente una delle migliori sul palco dell’Ariston, con una canzone di poco impatto però, in cui l’impronta di Sangiorgi gravava parecchio sul testo.

Almamegretta (3/10): se la sarebbero pure potuta cavare. Peccato il cattivo gusto dell’ideona di andare a fare i rastafariani con tanto di light designer dell’Ariston che mette luci rosse gialle e verdi -la sagra dell’ovvio- a inneggiare all’erba libera. Ma ancora? Meno male che c’è crisi signori, se pensiamo a come fare a buttar via dei soldi nella marjiuana prêt à porter -lamentandoci poi magari dell’Iva, dell’Imu, del cachet della Littizzetto.

Max Gazzè (6/10): come al solito i suoi brani parlano di disadattati che ti chiamano di notte per dirti che non vogliono fare il solito sesso, di guardoni che ti tengono d’occhio mentre sei in spiaggia col fidanzato o, come quest’anno, di gente che ti suona a casa. Il meeting dello stalker, insomma. E a me Gazzè piace parecchio eh, che è tutto dire.

Annalisa (4/10): questa arriva da Amici di Maria de Filippi. Parlapà si dice dalle mie parti, cioè non parlare, lascia perdere, non aggiungere altro.

Elio e le storie tese (8.5/10): la canzone rompe le palle forte dopo il primo ascolto eh, però ha del genio, della competenza, del talento. Geniali ad averla pensata, talentuosi ad averla realizzata, competenti per avere le conoscenze necessarie a costruire un’impalcatura armonica del genere sotto una melodia composta di una sola nota.

I GIOVANI.

Renzo Rubino (5/10): ecco, la canzone sui gay. Ché c’è bisogno di sensibilizzare come per la violenza sulle donne.  Mi mette una certa tristezza. Comunque Rubino non mi è sembrato chissà quanto dotato vocalmente e neanche chissà quanto raffinato nell’interpretazione. Eppure si è preso il premio per critica intitolato a Mia Martini. Il testo moderno e attuale ha avuto ciò per cui era stato realmente scritto. Evvai.

Blastema (7.5/10): li ho apprezzati più dei Marta sui Tubi. Mi sono sembrati più integri e meno corrotti dal Festival, capaci di fare un rock nazionale sicuramente già sentito e anche parecchio scontato, ma di buona qualità.

Il Cile (5/10): ma è voluto che abbiano dato il premio come miglior testo a una canzone che si intitola “Le parole non servono più”? A me non è sembrato niente per cui strapparsi i capelli. Cioè, l’underground è pieno di gente che Il Cile possono prenderlo metaforicamente a calci dal mattino alla sera.

Irene Ghiotto: … forse ero in bagno. Scusate.

Ilaria Porceddu (8/10): sorvolando sul taglio di capelli, la canzone è molto delicata, eseguita con molta grazia e molta dolcezza. Non ho apprezzato la parte cantata in sardo finché non me la sono fatta tradurre da un amico che conosce quel dialetto, scoprendo che avrebbero dovuto trovare il modo di sottotitolarla o altro, perché è una frase davvero ben concepita.

Antonio Maggio (8.5/10): è radiofonica, divertente e ironica. La sentiremo così tanto in radio che romperà le palle alla grande. Per adesso, a piccole dosi, si apprezza e parecchio.

Andrea Nardinocchi (2/10): ditegli di fare altro. Un finto rapper-dj che scrive canzoni con le rime emo che manco i Dari. Sparisci. E lascia qui il Mac.

Paolo Simoni (1/10): no, no, no. Allora: l’idea del brano ricorda “Una musica può fare di Gazzè”, cioè l’elencone dei poteri benefici o meno delle parole. Ovviamente noiosa allo stremo, finto intellettuale, finto riflessiva. Lui poi ricorda Philippe Daverio con tanto di cravattino e canta credendosi Riccardo Cocciante. Altro che giovane: vecchio dentro, vecchio per ispirazione, vecchio con l’odore di giacca di velluto e antitarme. No. Già detto?

Ps. Dov’erano i fiori di Sanremo? Qualcuno era allergico e li hanno aboliti?

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