Marco Pacini Tag Archive

Morrissey – World Peace Is None of Your Business (Deluxe edition)

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World Peace Is None of Your Business è il decimo  attesissimo album solista di Morrissey che mancava dalle scene dal suo Years of Refusal di cinque anni fa. In Inghilterra infatti è un evento di primordine, celebrato da tutti i magazine di settore tanto che l’ultimo numero di Musicweek, per l’occasione, è stato rinominato Morrisseyweek. L’album è stato anticipato da una campagna di quattro video su Youtube in cui lo stesso artista, vestito in completo elegante delle occasioni importanti,  presenta altrettante tracce (la title track, “Instanbul”, “Earth Is the Loneliest Planet”, “The Bullfighter Dies”) in spoken word, una scelta non casuale per rimarcare la centralità dei testi e dei messaggi contenuti in questo disco. Si ritrovano infatti i temi che rendono Morrissey, oltre che una delle rockstar più influenti della storia della musica, anche un’icona delle battaglie dei diritti civili e dei diritti degli animali. “The Bullfighter Dies”, come potete ben immaginare dal titolo, ė una sadica filastrocca anti-taurina che va ad aggiungersi alla lunga lista di canzoni animaliste composte sia da solista che con The Smiths. Invece “Neal Cassady Drops Dead”, oltre ad essere un omaggio alla Beat Generation, affronta in maniera più velata la tematica della libertà sessuale.

Nell’album si nota una dicotomia tra pezzi aggressivi che trattano di attualità e di critica socio politica (di cui fanno parte i due pezzi appena citati) ed altri pezzi che sono molto più intimi, oscuri, a tratti decadenti. In questi ultimi l’aspetto compositivo è molto più curato e si nota il pregevole lavoro del produttore Joe Chiccarelli (The Strokes, U2, Beck) nonché l’affiatamento con i suoi fidati storici membri della band Boz Boorer e Alain Whyte. L’album è uscito in due formati, Standard Version con dodici pezzi e Deluxe Version con sei tracce bonus. Sicuramente quest’ultima è la migliore e da un senso di compiutezza che l’altra versione non ha, quasi fosse troncata di netto. Molto probabilmente ci sono dei motivi puramente commerciali e hanno cercato di rendere fruibile il disco ad un pubblico più vasto (e più pigro, abituato a prodotti brevi e di facile consumo) al di fuori della consolidata, venerante schiera di fans. Canzoni intense come “Scandinavia” o “Art-Hounds” (track tredici e diciotto) non possono essere lasciate assolutamente fuori da un album così vitale e onesto. Morrissey in World Peace Is None of Your Business riesce con una facilità disarmante a riproporsi senza cadere nel già sentito, senza stravolgere il proprio stile né tentando stravaganti sperimentazioni, ma con una onestà intellettuale che solo pochi artisti hanno. Mi godo questo album, e attendo il prossimo. Lunga vita a Moz!

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Uscita 17 – Solo Buone Notizie

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Gli Uscita 17 sono una realtà ben consolidata nel panorama musicale della scena capitolina. Il nome deriva da una delle uscite del grande raccordo anulare della zona sud-est, e da li iniziano un lungo percorso artistico che, dal 2006, li porta ad esibirsi inizialmente nei migliori locali e palcoscenici di Roma e poi a partecipare alle selezioni dei più importanti contest musicali nazionali come l’Heineken Jammin’ Festival Contest e Hyundai Music Awards. A questa intensa attività live alternano anche il lavoro in studio che, dopo due EP e un full length, da vita a Solo Buone Notizie. È un album che al primo ascolto impressiona soprattutto per la qualità della registrazione e del missaggio che esalta oltremodo le già ottime capacità tecniche dei cinque membri della band.

“In Faccia a Nessuno, oltre ad essere la prima traccia, è il singolo scelto per lanciare il disco. Una scelta per nulla casuale poiché questa canzone rappresenta al meglio il sound che caratterizza l’intero progetto: una base ritmica molto potente accompagnata da riff altrettanto diretti, il tutto impreziosito dal fondamentale apporto delle tastiere e dei synth. Questi ultimi sono sicuramente  gli elementi che concretizzano la svolta degli Uscita 17 verso un’impostazione molto più elettronica rispetto ai lavori precedenti e che creano un’atmosfera  più intensa e sofisticata con  quel tocco di vintage anni 80 che fa tendenza. Ne è un esempio “Vernice”e il campionamento dell’intro degno dei Kraftwerk e di Prince di Sign O’ the Times, che da un input minimale si sviluppa in un crescendo   di effetti e di vocoder in un ambientazione molto eighties.

Se la prima parte del disco è particolarmente godibile, la seconda forse è un po’ meno incisiva in qualche pezzo e  vira lentamente dal Rock Elettronico al Pop; presenta  una struttura compositiva a tratti prolissa e scontata che, pur rispettando una coerenza stilistica, indebolisce il risultato complessivo e la tenuta dell’intero progetto.Comunque vale la pena sentire tutto l’album, soprattutto perché l’ultima traccia è la più intensa del disco. “Venti tredici”è una ballad malinconica e cupa, cantata quasi sottovoce, il riverbero delle chitarre la rende rarefatta e sospesa, come a voler lasciar lentamente allontanare tutte le occasioni perse e le sensazioni negative. Il titolo dell’album quindi è una presa di coscienza e un approccio per il futuro, da ora in poi Solo Buone Notizie.

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Psycho Killer – Dead City Life

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Del buon sano rock! Ecco, proprio questo ho pensato mentre ascoltavo Dead City Life, il primo album dei torinesi Psycho Killer. Gli Psycho Killer sono Enrico (voce, chitarra), Riccardo (basso, cori), Alessio (Batteria, voce) e  anche se si sono formati relativamente da poco (primi mesi del 2013), i tre componenti si conoscono bene poiché hanno fatto tutti parte degli ormai sciolti Hollywood Noise, band che ha infuocato le notti del capoluogo piemontese e che si è fatta conoscere al grande pubblico grazie all’apparizione televisiva su Rock Tv e ai loro due album More than your Mouth Can Swallow (2010) e More than your Mouth Can Swallow II (2012). Il loro è uno stile ispirato principalmente alla scena Hard Rock americana sviluppatasi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, caratterizzata da chitarre costantemente distorte e ruvide supportate da una linea ritmica basso-batteria decisa e martellante.

Come già detto, i tre componenti  arrivano  da esperienze precedenti a questa e il loro affiatamento nell’esecuzione dei brani è evidente in ogni singolo passaggio, l’intensità e l’energia che ne viene fuori rientra nella più tipica tradizione del Rock di concedersi al massimo, fino all’ultima goccia di sudore. Questa loro invidiabile genuinità Rock è altresì un difetto che mina tutte le tracce dell’album a livello compositivo. Non c’è nessuna canzone che spicchi per originalità o per completezza, si limitano tutte a rispettare i canoni stilistici del genere e non c’è nessun elemento che li identifichi o che li differenzi dall’immensa schiera di band simili presenti in tutto il pianeta. Sembra  un’operazione  di emulazione delle band di quel glorioso periodo e nulla di più. Non è un caso che tutto l’album sia cantato in inglese, che non deve essere per forza un elemento screditante, ma è piuttosto l’interpretazione delle canzoni che risulta  troppo impostata nella voce alla ricerca di uno slang forzato per nulla naturale.

Dead City Life è un buon esordio e promette per il futuro, e poi non sono certo io quello che deve consigliare di insistere, c’è un gruppo abbastanza famoso  che dice appunto it’s a long way to the top… giusto?

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Me First and the Gimme Gimmes – Are We not Men? We Are Diva

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Vi è mai capitato di aver bisogno di un disco nei momenti di scazzo per poter sfogare un po’ di frustrazione e ritrovare la serenità perduta? Se state pensando a qualche mattonata New-Age o Chill-out siete fuori strada. Dopo più di 6 anni tornano i Me First and the Gimme Gimmes a riportare un po’ di serenità nelle vostre orecchie con il loro ultimo album Are We not Men? We Are Diva. Il titolo, che oltre ad omaggiare il disco più famoso dei grandiosi Devo, ci fa capire fin da subito chi sono state le loro fonti d’ispirazione per la registrazione di questo disco: le più grandi dive della musica leggera anglofona (lo so, Boy George non è tecnicamente una donna, ma sicuramente si sente una Diva!). La formula per sfornare le loro cover è grosso modo sempre la stessa, ovvero un Punk Rock in puro stile californiano abbinato ad una linea melodica che ricorda quella della canzone originale.

Il risultato, per chi conosce i MF&GG’S è abbastanza superfluo dirlo, è spassoso e, come anticipato prima, anti-stress grazie ai suoi ritmi serrati e alla voce rauca di Spike Lawson che interpreta a modo suo le canzoni delle ugole d’oro della storia della musica (immaginatevi Cippa dei Punkreas interpretare una qualsiasi canzone di Laura Pausini). Degne di nota sono sicuramente “I Will Survive” (Gloria Gaynor) che apre il disco con schitarrate e batteria rullante per mettere in chiaro fin da subito di cosa si tratta, e “Beautiful” (Christina Aguilera) che risulta la più divertente nel disco: Spike Slawson, che non è esattamente l’uomo che a primo impatto può sembrare fragile e insicuro, che canta la canzone per eccellenza delle ragazzine che faticano ad accertarsi per il proprio aspetto estetico.

“My Heart Will Go On” (Celine Dion) è l’unica canzone arrangiata in stile Country e ricorda, forse scimmiotta, lo stile dei Mumford & Sons poiché è sovraccarica di cori, accompagnamento di banjo e fisarmonica. La cover più riuscita del disco è sicuramente “Believe” (Cher) in cui la voce del cantante viene modulata in puro stile Dance anni 90 (forse una delle trovate più brutte nella musica commerciale, ricordate gli Eiffel 65?) con accompagnamento di tastiere con effetti spaziali. Are We not Men? We Are Diva! dura, ahimé, solamente 35 minuti ma vi basteranno per rendervi la giornata migliore!

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Lucio Corsi – Vetulonia Dakar

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Ultimamente ho una certa difficoltà nel capire i gusti musicali dei teenager di questo periodo storico, mi sono sempre più convinto che, ahimé, il modello inculcato dai vari talent show abbia generato un appiattimento creativo senza ritorno in cui tutto ciò che non è facilmente fruibile e rispettoso dei canoni ammiccanti musical-televisivi non possa in nessun modo trovare degli sbocchi. Fortunatamente mi sbaglio, e me ne sono accorto  grazie al disco d’esordio di Lucio Corsi intitolato Vetulonia Dakar. Lucio è un ragazzo molto giovane, diciannove anni, che arriva dal grossetano, per la precisione da Val Campo di Vetulonia, e il suo EP è una piacevole scoperta. Sia chiaro fin da subito, non è un disco di rottura che da il LA a nuove sonorità nel panorama alternativo italiano, non rivoluziona il modo di concepire la musica, niente di tutto questo. Piuttosto utilizza gli strumenti classici della musica cantautorale ed esprime semplicemente se stesso e la sua stravagante personalità, aspetto non marginale per un ragazzo della sua età.

Gli arrangiamenti sono essenziali, si accompagna quasi esclusivamente con la chitarra acustica, e mantiene in tutto il disco un profilo lo-fi, quasi casalingo, che esalta i suoi testi e la sua interpretazione, ricorda decisamente il Bugo westernato dei primi tempi. La sua scrittura ha un approccio sensoriale, si affida alle sensazioni dirette, le osserva e le vive, e poi da queste  prende ispirazione per le canzoni. Come già detto, arriva dalla Maremma, e il suo contesto natio è quello rurale e in tutti i brani è continuo il riferimento alla terra e agli animali, elementi che danno vita a metafore intriganti e giocose tipo Quando l’uomo di cocomero ebbe voglia di cocomero, lui si mangiò!. Ha uno stile maturo, non risolve mai un verso con rime scontate, e utilizza la metrica in maniera disinvolta da autore consumato, ciò è sicuramente l’aspetto più notevole e sorprendente del disco, supportato da una timbrica vocale che, anche se palesemente di ragazzino, è marcata e sicura.

Ne è la prova la canzone che chiude il disco, “Canzone per me”, che parla di un rapporto svanito e ormai lontano  senza scendere mai a facili sentimentalismi. Anche se solo il 10% dei teenager italiani fosse come Lucio Corsi, mi sentirei molto più sereno.

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