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Le Fate Sono Morte

Written by Interviste

Ciao ragazzi, cominciamo dal principio: chi sono le Fate? E come sono morte?

ANDREA: ciao, Le Fate Sono Morte sono cinque ragazzi che vivono tra Milano e Varese e hanno deciso di fare musica e di creare un progetto personale che potesse esprimere al meglio i propri sentimenti e pensieri. Andrea (voce e chitarra), Giuseppe (batteria), Daniele (violino), Riccardo (basso), Federico (chitarra). Le fate, in fondo, non sono mai morte per noi; il nome sta a rappresentare la fine delle illusioni giovanili, ma allo stesso tempo l’inizio di una crescita interiore. La band si è formata nel 2008 con svariati cambi di formazione che ha portato sino a quella attuale. In realtà per noi la parola morte nel nome non deve esser presa come negativa ma un pensiero positivo che ti possa far pensare che la fine non sia una vera fine ma un nuovo inizio.

Il vostro ultimo album s’intitola La Nostra Piccola Rivoluzione. Di quale piccola rivoluzione stiamo parlando? Che cosa è realmente cambiato dopo l’uscita di questo disco?

PEP: il titolo del nostro album ha un duplice significato. Il primo inteso come rivoluzione nel senso di riuscire a registrare un disco in modo indipendente, senza l’appoggio di nessuno se non delle persone che da anni ci seguono, ci supportano e ci vogliono bene. Il secondo ha un significato più profondo. Quest’album tratta di rivoluzioni personali che, seppur piccole, possono cambiare le nostre vite. Ognuno di noi ha dei sogni e il fare di tutto per realizzarli può portare a una svolta epocale nelle nostre piccole esistenze. Dopo l’uscita del disco è cambiato l’interesse della gente nei nostri confronti, che di giorno in giorno capisce il nostro messaggio e ci supporta e di questo siamo loro sempre più grati. Speriamo di vederli sempre più numerosi ai live.

Leggo sul vostro sito che attingete il vostro suono dal Cantautorato, dal Rock nostrano, dal Post Grunge e dal Pop. Ci fate qualche nome in particolare? Chi sono i vostri riferimenti?

ANDREA: noi veniamo da svariate influenze essendo persone molto diverse una dall’altra e avendo anche età molto varie (18,23,24,32,35). I riferimenti a cui m’ispiro o da cui vengo influenzato posso dire siano band come: Le Luci della Centrale Elettrica, Giuliodorme, Marlene Kuntz, Afterhours, Giorgio Canali, Nadar Solo tra le band della scena underground ma non disdegno neanche i vecchi cantautori che hanno fatto la storia del nostro Paese o quelli contemporanei.

PEP: io amo tutti i gruppi sopra citati da Andrea ma al contempo sono un grande appassionato di elettronica/strumentale (Aucan o Tyng Tiffany per citare qualche band italiana, Crystal Castles, 65days of Static, ecc). Diciamo che dall’incontro di tanti generi differenti è nato questo disco.

Leggo inoltre che traete ispirazione anche dai libri letti. La cosa è molto interessante. Anche in questo caso, di che libri stiamo parlando? In che modo entrano a far parte della vostra musica?

ANDREA: esatto. Penso sia normale che ogni cosa ci possa influenzare, noi diamo molta importanza ai testi e alle parole; questo ci porta anche a leggere spesso libri e a vedere film, mostre ecc, Un po’ tutto aiuta, il cervello è una gran bella macchina che assorbe tutto, lo rielabora e crea uno stile personale. Penso sia così per tutti. Nello specifico, ho inserito il nome di Alda Merini a cui ho dedicato la prima canzone “A Parte il Freddo” in quanto per un periodo le sue composizioni sono state una specie di colonna sonora della mia vita. In un altro brano “In Ogni Mio Sorriso” mi riferivo alla poesia di Giovanni Pascoli “10 Agosto”.

Nel corso del tempo avete cambiato più volte la vostra formazione. Questo ha portato anche a un cambiamento del vostro sound? Se sì, in che modo?

ANDREA: durante gli anni le priorità delle persone e le vite chiaramente cambiano e così, a volte a malincuore, a volte per scelte differenti, abbiamo cambiato elementi della band. Il sound è cambiato perché siamo cresciuti, gli elementi che sono arrivati dopo hanno solo arricchito e reso possibile quello che era il sound a cui volevamo arrivare quando siamo partiti. In futuro cambieremo ancora ed è giusto sia così perché l’esperienza e la vita aiutano anche a migliorarsi o a seguire diverse idee.

La bonus track del vostro ultimo disco s’intitola: “La Storia Non Siamo Noi”. Si tratta per caso di una dichiarazione di guerra a De Gregori?

ANDREA: Ahahah, no direi di no. De Gregori è uno di quei cantautori a cui mi riferivo nella terza risposta. Più che altro è una presa di coscienza del fatto che in questo periodo siamo troppo presi da noi per riuscire a fare qualcosa, ognuno ha la sua storia che va troppo veloce e si fa fatica a pensare ad altro, siamo diventati tutti molto più egoisti negli ultimi anni, delusi, disillusi, si salvi chi può insomma. Il titolo dell’album poi riprende anche questo messaggio. Se ognuno di noi facesse qualcosa di buono nel proprio piccolo per questa società, sarebbe un altro mondo. Spero non sia solo utopia.

PEP: come dice Andrea il messaggio di questo disco è racchiuso soprattutto nei due pezzi finali “La Storia Non Siamo Noi” e “Niente”, al quale sono particolarmente legato. Dire “La Storia Non Siamo Noi”, non significa “non possiamo fare nulla per migliorare il futuro”, ma anzi “la storia non sta nell’individualità e nell’egoismo dei NOI intesi come singoli, ma nella collaborazione, bellissima parola ormai in disuso”.

Dalla vostra musica, dai vostri testi, dai vostri video, emerge un pessimismo denso, una nebbia fitta nella quale è avvolta tutta una generazione, quella che voi e qualcuno prima di voi ha collocato negli “anni zero”. Oltre a constatare questa dura realtà, c’è un modo in cui pensate di combatterla?

ANDREA: più che pessimismo cerco di esser realista. Con gli anni e crescendo sono diventato molto più positivo e credo in un possibile miglioramento di questa situazione, ma su larga scala non saprei in che modo poter migliorare questo mondo, quindi mi limito a cercar di fare il mio ed esser sempre il meglio di quello che posso essere. Cerchiamo di trasmettere, per noi è fondamentale arrivare alle persone e riuscire a far provare qualcosa.

PEP: diciamo che ci limitiamo a descrivere una situazione, quella nella quale noi e tanti altri giovani vivono oggi. Non è un pessimismo fine a se stesso, come detto prima. C’è sempre un soffio di speranza in ogni canzone, una luce alla fine di questa fitta nebbia.

Il vostro logo rappresenta una fata trafitta da una penna che, immagino, le tolga la vita. Il messaggio che ne traggo è che date molta importanza alle parole; per voi possono avere anche un significato mortale. Qual è il messaggio che invece volete trasmettere?

PEP: come dici tu, per noi le parole hanno una potenza incredibile. Sono più forti di un pugno, più violente di qualsiasi gesto, quindi possono fare male. Ma questa potenza può essere usata anche per aprire gli occhi alle persone. Trafiggere la fata vuol dire uccidere le illusioni giovanili. Ma penso che anche dalla disillusione non debba automaticamente nascere un pensiero pessimista (anche se può sembrare quello più scontato). Questo però è un discorso ampissimo, se volete andiamo a prenderci una birra e ne parliamo per ore!

Siamo giunti alla fine. Per concludere, quale domanda importante non vi ho fatto, alla quale avreste voluto rispondere?

PEP: “Siete davvero convinti che non diventerete niente?” Forse, ma noi ce la stiamo mettendo tutta per diventare grandi e forti insieme, alla faccia di chi continua a lanciarci fango addosso.

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Anna Calvi 21/02/2014

Written by Live Report

Il venerdì notte è la mia notte. È un momento carico di una strana euforia, di una stanchezza che ubriaca, di un’energia potenziale che dilata il tempo e gli conferisce un aspetto simile all’eternità. È venerdì notte, e tutto può accadere. Vi starete chiedendo se siete stati catapultati improvvisamente alla Sagra delle Banalità, dato che questo pensiero accomuna buona parte della popolazione planetaria ed è già stato ampiamente espresso, anche in maniera più eccelsa, da altri prima di me (un certo Robert Smith ad esempio, nei suoi momenti di rara esaltazione, cantava “Friday I’m in Love”). Ma cosa che volete che vi dica? A me basta così poco per essere felice stasera, un bicchiere di vino con un panino, ed un concerto di Anna Calvi. L’Hiroshima Mon Amour è stranamente calmo e poco affollato all’esterno; il pubblico è già tutto all’interno, tranquillo, in attesa, C’è ancora il tempo per tutto: una birretta al bancone, due chiacchiere per riassumere le sfighe della settimana appena trascorsa e due chiacchiere per anticipare quelle della settimana che verrà, commenti di varia natura su questi bicchieri di birra che hanno drasticamente ridotto la loro capacità pur avendo lasciato inalterato il prezzo, discorsi vari ed eventuali. Poi si guarda l’ora, ed è meglio avvicinarsi al palco, perché tra un po’ le danze avranno inizio, e così succede. Anna Calvi arriva e sembra uscita da una foto, una di quelle che compaiono quando si digita il suo nome su Google: stessi capelli color miele, stessa acconciatura, stesso rossetto (rosso), stesso colore (rosso) per la maglia, stesso look per farla breve. Dal vivo sembra  piccola, una Lolita pura nelle espressioni ma accattivante se le metti una chitarra in mano. Invece ha trentatré anni. Penso che ho ancora tre anni di tempo fare qualcosa di buono nella vita.

Il pubblico accorso all’evento è un pubblico sensibile e colto; lo si capisce dal fatto che davvero in pochi, pochissimi, hanno il coraggio di sfoderare gli Smartphone per improvvisarsi fotografi delle migliori riviste di musica. Tra i non colti vince il primo premio colei che, presa da un raptus feroce di intelligenza, mi chiede: “Ma si può fumave qui dentvo?” (Ha pure la “r” moscia, cosa volete da me?). L’animale che mi porto dentro avrebbe voluto rispondere “Cogliona. Sono  anni che in Italia non si fuma nei locali, e poi, ti sembra che qualcuno stia fumando qui dentro? Non ti accorgi che quella nebbiolina che vedi in controluce sul palco altro non è che un effetto scenico ormai in uso (e in disuso) da diverso tempo?”. Tuttavia mi volto lentamente con uno sguardo che chi era con me ha definito da madre incazzata, misuro l’ampiezza cerebrale della mia interlocutrice, e decido di limitare al minimo il mio consumo di energie rispondendo: “Non credo proprio…”. “Peccato” mi dice. È inutile, non ha proprio speranza. Ritornando al pubblico, trovo che sia anche molto eterogeneo: giovani, meno giovani, adolescenti, rockettari incalliti ed attempati con segni di calvizie in stato avanzato, uomini serrati in maglioncini Tommy Hilfiger con tanto di camicia abbottonata fino all’ultimo bottone, madri di famiglia forse in cerca delle figlie scappate di casa per l’ennesima volta, hipsteromani che invece non cerca nessuno; di tutto di più insomma.

Una volta sul palco Anna mette subito le cose in chiaro: in questo concerto si darà spazio nient’altro che alla musica. Pronuncia poche, pochissime parole, rigorosamente in inglese (anche se da una che si chiama Anna Calvi almeno un grazie in italiano ce lo aspettavamo),  rigorosamente sussurrate al microfono, in netta contrapposizione con la potenza che la sua voce può raggiungere. A fine concerto sussurra qualcosa che quasi nessuno riesce a capire. Potrebbe aver detto Thank you so much, ma anche Fuck you so much, è un aggrottarsi di sopracciglia generale. Facci capire, Anna,  facci capire se dietro tutta questa ricercatezza nascondi un innato spirito Punk, facci capire se ci hai mandati tutti a fanculo con la dolcezza della tua voce melliflua, facci capire che peso dare alla serata; non abbiamo paura degli stravolgimenti, non abbiamo pregiudizi, ci piace voltare le carte in tavola e cambiare strada all’improvviso. Ma lei continua a pronunciare parole sottovoce, e noi continuiamo a non capire. L’intera esibizione è come un giro sulle montagne russe. Anna ci porta in alto, con la voce, con il suono, è un’esplosione di chitarre e vocalizzi (forse ce ne sono anche troppi). Poi un attimo dopo siamo in basso, in profondità, siamo acqua stagna che cerca un varco per entrare in luoghi segreti. Ci prende in giro Anna, a metà serata, tra alti e bassi. Accelera, arriva in alto, poi frena di botto, rasenta il silenzio. Crediamo sia finita lì, parte un applauso fuori luogo mentre lei riprende ad accelerare, sale di nuovo veloce e poi riscende in picchiata, e noi ci ricaschiamo una, due, tre volte. Penso che siamo un pubblico di merda; non sappiamo nemmeno quando applaudire. Poi però penso anche che non siamo a teatro, ma in uno di quei posti dove si suda, e che certe formalità le abbiamo volutamente lasciate chiuse a chiave nelle nostre case.

Siamo a tre quarti di concerto e tocchiamo l’apice quando Anna si perde in un assolo da capogiro. È là, sul palco, ci sono solo lei ed il suono, ha i fari puntati addosso ed il collo teso verso l’alto, mentre le dita inseguono corde ad una velocità inaudita. È in estasi. Mi guardo intorno. Mi chiedo cosa pensano gli uomini quando vedono certe donne impugnare la chitarra in quel modo. Sei o sette rockettari stempiati di cui sopra la osservano a bocca aperta, con lo sguardo inebetito e la faccia persa nel vuoto, ed inutilmente cercano di stare dietro a quelle dita accennando movimenti con la testa. Io invece penso che sia cazzuta, ed il fatto che non ha bisogno di dimostrarlo con gesti e parole eclatanti, con cavalcate faraoniche del palco e movimenti eccessivi mi piace parecchio. Siamo fin troppo pieni di fronzoli in questo mondo, un po’ di sostanza non può che farci bene. Dopo il teatrino uscita-applauso-uscita si levano le ancore e si torna a casa, con un bella scorta di Bellezza per i giorni futuri, che sono sempre un punto interrogativo troppo grande, ma non è il momento di pensarci ora, non me ne frega niente in questo momento. Sono le 3.30 di un venerdì notte qualsiasi, è vero, ma è quella la parola magica, Venerdì, è quella che conta. Sorriso in bocca ed occhi che cedono al sonno. It’s Friday I’m in Love.

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Brunori SAS – Vol.3 Il Cammino di Santiago in Taxi

Written by Recensioni

Quando ascolto un nuovo disco, tra le prime cose che faccio, mi soffermo sul titolo e spingo l’acceleratore sull’immaginazione per vedere fino a dove mi riesce a portare. Il titolo che ho davanti in questo momento è Vol.3 – Il Cammino di Santiago in Taxi della Brunori SAS, fondata da Dario Brunori. Non ho mai avuto modo di fare l’esperienza del Cammino di Santiago, ma dai racconti di chi si è cimentato in questa impresa colgo che la bellezza di tale cammino sta nel viaggio in sé, nelle tappe intermedie che lo compongono, negli incontri casuali che lo caratterizzano. Con questa premessa, la lentezza del mezzo di locomozione diventa una condizione necessaria e sufficiente per assaporarne appieno tutte le tappe ed arricchirsi interiormente sotto diversi aspetti. A piedi, in bicicletta, in autostop o in bus, immagino un viaggio a volte più lento, a volte più veloce, ma che dà sempre la possibilità di creare legami con gli esseri viventi circostanti: piccoli pezzi di vita messi nelle mani di altre vite. Cosa posso aspettarmi invece da un Cammino di Santiago che avviene in Taxi? Certo la comodità del viaggio è un aspetto allettante, ma il solo pensiero di una conversazione più o meno sterile con il tassista che riguarderà nel 90% dei casi il Meteo e nel 10%  la Crisi mi fa venire un’ansia assurda. Premo play, forse è meglio.

“Arrivederci Tristezza” arriva dopo una breve introduzione al piano. Più che un titolo è un monito: la tristezza si saluta solo con un arrivederci e mai con un addio. Il brano, che si sviluppa in un graduale crescendo, mi porta alla consapevolezza che la Brunori SAS funziona sempre più come una piccola orchestra: gli strumenti si moltiplicano, il suono si completa di sfumature che lo rendono più caratteristico, gli arrangiamenti sono più articolati, anche se non mancano brani più intimi. Tra questi ci sono “La Vigilia di Natale”, dove bastano voce e piano per raccontare l’angoscia di certi giorni festivi, dell’ obbligo alla felicità dettato dal numero rosso di un calendario, oppure “Kurt Cobain”, che introduce il tema del suicidio partendo da una serie di riflessioni sul senso della vita, e che perde di intensità nel ritornello dove vengono tirate in ballo le morti di Kurt Cobain e Marilyn Monroe come esempi emblematici (il motivo di tale scelta rimane per me ancora un mistero). La conclusione alle riflessioni sul senso della vita si risolve in un forse troppo superficiale: vivere è come sognare ci si può riuscire spegnendo la luce e tornando a dormire. “Mambo Reazionario”, dal ritmo quasi caraibico, è un modo ironico di criticare la decadenza di certi ideali di rivoluzione. I temi scottanti arrivano con “Pornoromanzo” che si rifà al tema dell’amore tra adulti ed adolescenti, dei novelli professor Humbert e delle moderne Lolite, che confondono sesso e amore, il tutto cantato con un ritmo rockeggiante ed un linguaggio esplicito che esclude ogni fraintendimento. “Le Quattro Volte” mette in risalto lo scorrere inevitabile del tempo e la routine che accompagna la vita affrontandone con tono semplice e leggero le tappe che la caratterizzano, dalla scuola elementare alla pensione, senza però considerare che il corso della vita è ormai cambiato, e che in pochi si rivedono nelle tappe descritte. “Il Santo Morto” è una sorta di zapping televisivo di immagini contrastanti, che vanno da Padre Pio al Pulcino Pio, senza tralasciare i programmi trash che ci propone Nostra Signora TV. “Il Manto Corto” spegne le parole e permette alla Brunori SAS di esprimersi con la sola forza del suono, e ciò che ne viene fuori è una bella conversazione in musica in un brano del tutto strumentale. Non potevano mancare infine le storie d’amore finite male, come “Maddalena e Madonna” e “Sol Come Sono Sol” in chiusura, una sorta di Valzer sulla solitudine con tanto di storia di abbandono sull’altare.

Il viaggio è finito e sotto certi punti di vista è stato comodo e veloce. Ma per quel che mi riguarda, non sempre la parola comodo è sinonimo di bello. È stato comodo nella scelta di alcune tematiche, e veloce nel modo di trattarle in superficie, con retorica, senza addentrarsi troppo nelle questioni, lasciandosi indietro la possibilità di arrivare fino in fondo. La scelta di intraprendere un cammino come quello di Santiago, e la scelta di farlo in Taxi, lasciandosi indietro dettagli che avrebbero davvero potuto fare la differenza. Posso affermare con sicurezza che il titolo dell’album è quello giusto.

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Dente – L’Almanacco del Giorno Prima

Written by Recensioni

Me la ricordo bene la mia prima volta con Dente. È stata durante una sessione d’esami estiva, di quelle che ti tolgono il sonno e l’appetito, e ti riducono a un’insignificante particella subatomica immersa nell’immane grandezza dell’universo. È stato un ascolto casuale, di quelli che arrivano e ti trafiggono alle spalle, mentre ignaro ti aggiri nei labirinti della tua esistenza, convinto di essere immune a certe manifestazioni emotive. Parole che ho cancellato dal vocabolario ce ne sono una dozzina o anche di più. Ho cominciato da quelle che, si sa, son delle bugie. Come per sempre che, fondamentalmente, è uguale a mai. Un modo scanzonato di affrontare la vita, accompagnando l’ironia delle parole con il suono della chitarra, a volte del piano; non mi serviva altro per sorridere quel giorno. Ed è così che ho conosciuto L’Amore Non È Bello. Un’affermazione che nell’immaginario collettivo presuppone l’esistenza di un seguito: l’amore non è bello se…, ma che in questo caso non esiste. L’amore non è bello. Punto e basta. Chi ha bisogno di un se vada a cercarselo altrove. E da lì in poi sono andata a ritroso, verso l’ascolto di Non c’è Due Senza te ed Anice in Bocca, dal sound più primitivo, essenziale, ma sufficiente ad accompagnare parole di una schiettezza ancora una volta disarmante. Io Tra di Noi rappresenta invece una svolta musicalmente parlando; gli arrangiamenti si fanno più completi grazie all’introduzione di archi e fiati, si osa con qualche suono elettronico.

Dopo quasi tre anni da Io Tra di Noi arriva L’Almanacco del Giorno Prima. Il titolo si riferisce palesemente alla trasmissione televisiva l’Almanacco del Giorno Dopo, con la variante della parola prima a continuare la tradizione del gioco di parole nel titolo dell’album.  Anche il disco, come il titolo, si conferma in pieno stile dentesco: brani caratterizzati da una forte malinconia, la predilezione per tematiche riguardanti amori quasi esclusivamente infelici (teoria confermata dallo stesso Dente), il tutto contornato da arrangiamenti molto ben curati, merito anche della collaborazione di  Enrico Gabrielli (Calibro 35) e Rodrigo D’Erasmo (Afterhours). Sembrerebbe che ci sia proprio tutto in questo disco, ed invece la grande assente è proprio l’emozione, e scusate se è poco. Brani come “Chiuso dall’Interno”, “Invece Tu” e “Miracoli”, sono piacevoli all’ascolto, ma vanno via veloci, senza lasciare molte tracce dopo il loro passaggio, senza farsi troppo notare. Qualcosa comincia a muoversi con “Fatti Viva”, dal ritmo quasi ossessivo di sottofondo, che introduce il suono del clavicembalo capace di portare chi ascolta in epoche remote. Sulla stessa scia si sviluppa anche “Fiore Sulla Luna”, ma perde di intensità rispetto alla precedente. Altra presenza non così scontata è il suono delle chitarre elettriche; non aspettatevi assoli da capogiro, ma piuttosto piccole comparse in canzoni come “Al Manakh”. Per “Meglio Degli Dei”, “I Miei Pensieri e Viceversa” e “Remedios Maria” a chiusura del  disco vale lo stesso discorso dei brani di partenza: si fanno ascoltare piacevolmente, ma vanno via veloci. Il tempo rimane tempo che scorre e basta, e non si dilata come a volte succede quando si ascolta musica.

L’Almanacco del Giorno Prima è senz’altro un buon disco, ben costruito, molto ben arrangiato, molto radiofonico se vogliamo, migliore di molta altra musica che si sente abitualmente in radio, ma a mio avviso non aggiunge niente rispetto alle produzioni passate di Dente, anzi, si priva di quella autenticità che contraddistingueva i testi e di quella straziante ironia che si riduce ad una ricerca forzata di giochi di parole che però non mi fanno più sorridere. Lascio ad animi più nobili del mio il compito di emozionarsi di fronte a parole come chi non muore si ripete, chi non vuole non si vede più. Io ci vedo solo la citazione di un proverbio e nulla di più. Aspetterò i live per poter sorridere ancora, sperando che Dente non abbia deciso di ammazzare la sua ironia anche sul palco.

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The Blacklies – Kendra

Written by Recensioni

Mi lasciano sempre un po’ perplessa quei film di Fantascienza dove gli esseri umani, sempre più cibernetici e tecnologici, presi da smanie di grandezza ed onnipotenza, finiscono per distruggere la Terra. È  quello che in realtà sta effettivamente succedendo, non sono paure del tutto infondate. Poi però penso che siamo in Italia, che non molto tempo fa ho letto su La Stampa: secondo gli ultimi dati diffusi da Eurostat nel 2013, più di un italiano su tre (il 34%) non ha mai usato Internet, (il risultato peggiore tra i 28 Paesi Ue dopo quelli registrati in Romania, Bulgaria e in Grecia), e ridimensiono la mia paura. Per altri millemila anni la tecnologia non si impossesserà di noi.

Dello stesso avviso non sembrano essere The Blacklies, che hanno incentrato il loro ultimo lavoro, un concept album dal titolo Kendra, tutto sulla questione di cui sopra. La storia si svolge nel 2024 ad Atlantis, una metropoli futuristica e super tecnologia, in un mondo sempre più schiavo della rete (chissà se è ancora schiavo di Facebook), dove l’accesso ai propri dati personali non avviene più tramite password ma solo attraverso il riconoscimento di impronte digitali. In questo scenario di decadenza da eccesso di tecnologia si inserisce la storia dell’haker Leonard Spitfire, che riesce a mettere a punto un diabolico virus che chiama Kendra, come il nome della donna che ama e che però gli mette anche le corna; a quanto pare questa enorme piaga sociale continuerà ad esistere anche nel 2024, fatevene una ragione. Kendra, che in principio era stato pensato come un modo per poter migliorare la vita delle persone (come un moderno Robin Hood, Leonard pensava di poter prelevare il denaro dai conti correnti dei ricchi per metterlo in quello dei poveri) diventa in realtà motivo di malcontento e sommosse popolari, e si trasforma in un’arma di distruzione di massa; in poche parole i ricchi continueranno ad essere ancora più ricchi anche nel 2024, e chi si impossessa del potere, anche se all’inizio è mosso dalle migliori intenzioni, continuerà a creare caos e malcontento, proprio come oggi. Fatevene una ragione anche stavolta.

Tuttavia qualcosa di nuovo accade: Leonard, afflitto dal rimorso per i danni arrecati, decide di distruggere Kendra per porvi qualche rimedio. È un elemento nuovo, soprattutto in Italia, quello di vedere un uomo di potere sedersi dalla parte del torto; questa si che è Fantascienza! Il povero Leonard tuttavia, deve fare i conti con René, suo amico e collega di malefatte, che invece non è affatto felice di abbandonare lo scettro del potere. Tra i due nasce un duello corpo a corpo, al termine del quale Leonard si scopre vincitore, ma qualcosa continua a non funzionare. Nonostante abbia vinto cade lo stesso a terra esanime, ed è là, in un finale degno di un copia-incolla dal celeberrimo Fight Club, che Leonard scopre di essere sempre stato anche il perfido René.

La musica che compone l’album è ben articolata e ben si sposa con gli scenari apocalittici e tecnologici sopra descritti; l’associazione ai Muse, ed in particolar modo a The 2nd Law è inevitabile (chi è stato ad uno dei loro ultimi concerti sa di cosa parlo). “K”, il virus che distrugge il Sistema dall’interno, apre l’album con effetti elettronici e si rivela subito essere l’introduzione a “Upon My Skin”, energica ed impattante: la presentazione di Leonard al mondo. “Higher” è una ballata dal forte trasporto emotivo che ti porta sempre più in alto, complice anche l’assolo sul finale. Il personaggio di René entra in scena sulle note di “Show Me the Way”, dove il ritmo torna ad essere incalzante, come in “He Was Driving Fast” dove, tuttavia si percepisce una maggiore inquietudine dettata dal risveglio della coscienza di Leonard per i danni arrecati. Con “Atlantis” i toni diventano decisamente più crepuscolari a seguito della scoperta della misteriosa doppia vita di Kendra. Con “Scarlet” l’irreparabile è ormai successo: la violenza del suono descrive appieno la violenza che si è ormai sprigionata per le strade di Atlantis, e non sarà l’urlo Remove The Virus di F.Thomas Ferretti, la voce potente dei The Blacklies, a poterla fermare. Occorrerà agire fisicamente, Leonard ne diventa consapevole in “Redrum”. “Duel” preannuncia l’epilogo della storia: è il duello corpo a corpo tra Leonard e René che avviene a colpi di chitarre, che in questo caso perdono di tono rispetto all’evento che rappresentano. Ritornano in perfetta sintonia con la storia invece “It’s Time to Make a Change”, inquietudine che esprime la consapevolezza di Leonard del suo sdoppiamento di personalità e “Photograph” che, accompagnata da un piano, si fa malinconica e disperata nel suo assolo finale. E’ la fotografia che ti appare quando apri gli occhi e prendi consapevolezza di ciò che sei davvero, e quello che vedi non ti piace per niente, ma ormai è troppo tardi per cambiare.

Una storia senza lieto fine, non particolarmente originale, ma narrata in un concept album ben strutturato e a mio parere dal forte valore artistico.

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Domani No di Cristiano Carriero: quando i libri fanno riflettere sulla musica.

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domani no - Sconosciuto

Boavida se ha muerto. Boavida è morto. Mai affermazione fu più chiara, precisa, netta. Non c’è scampo ad un’affermazione così. Ad ucciderlo è stato Ernesto Celi, in arte Ernestoc’è, ovvero, uno dei protagonisti, insieme a Boavida, di Domani No, l’ultimo romanzo di Cristiano Carriero (Bari, Gelsorosso, 2013). La questione però è che Boavida ed Ernestoc’è sono la stessa persona, almeno fisicamente, perché Boavida è in realtà un personaggio creato a tavolino da un discografico senza scrupoli conosciuto durante un Contest musicale, al quale Ernesto affida la propria musica ricevendo in cambio la promessa di un successo assicurato. È da qui che comincia o finisce tutto, dipende dai punti di vista: l’immagine da ragazzo della porta accanto nella quale Ernesto non si rispecchia affatto, la vetta delle Hit Parade con il suo tormentone estivo “Ossessione Onirica”, il nome d’arte Boavida (che poi di arte non ha davvero un cazzo, osserva giustamente Ernesto), una comparsa al Festivalbar e i movimenti sul palco alla Mauro Repetto (se non sai chi sia, vedi alla voce “quello biondo degli 883”), la partecipazione a Sanremo con una canzone riassunta tutta nell’ultimo verso che dice: senza dir nulla ho scritto una canzone, il declino, l’abisso, il dimenticatoio.

Non c’è niente di nuovo in tutto questo, mi direte. Infatti, è proprio questo il dramma. Ormai ci siamo talmente assuefatti ai tormentoni non più solo estivi, ma a cadenza mensile, ai successi che vanno e vengono con la velocità di un’eiaculazione precoce, che non ci rendiamo più conto di quanto un artista si trovi un giorno sulla vetta del mondo, e quello successivo nello strapiombo della dimenticanza. Ma di quale vetta stiamo parlando? Per Ernesto la vetta del successo ha coinciso esattamente con l’abisso in cui è caduta la sua anima. Ossessione Onirica, Ossessione Onirica ribelle: ma quale ribellione? L’alienazione totale, piuttosto: testi “disimpegnati” nei confronti anche di sé stessi. Canzoni che non devono far pensare, canzoni da canticchiare e basta, canzoni da una botta e via. E nulla più. Il caso ha voluto che stessi leggendo questo libro e facendo queste considerazioni proprio il giorno in cui ho letto che Valerio Scanu (si, proprio lui, quello dell’amoreintuttiimodiintuttiiluoghiintuttiilaghi) ha strappato il contratto con la sua ormai ex casa discografica e ha deciso di auto prodursi. E forse è un caso anche che mentre in Domani No si racconta dei perfidi meccanismi dei Talent Show, mi capita di leggere del giudice che ha rivolto insulti ad un cantante omosessuale durante l’edizione Rumena di X-Factor. Ora, non starò a sindacare su quanto la grettezza delle affermazioni di quel giudice abbiano a che fare con il fattore spettacolo; so solo che ancora una volta si è persa una buona occasione per far prevalere il buongusto, e che il libro che stavo leggendo purtroppo aveva a che fare irrimediabilmente con la realtà.

Alle volte però la vita si sa è strana, e proprio quando sei convinto che la strada che stai seguendo sia quella giusta, ti costringe a deragliare e a prenderne un’altra. Proprio come succede ad Ernesto. Ma non starò a raccontarvi altro, lascerò a voi la scelta di leggere o meno questo romanzo, che è fatto di musica, senz’altro, ma anche di amicizia, “drammi” familiari, amore, di band che si sciolgono e di band che nascono, di furgoni e camper su e giù per l’Italia, di critici musicali che con i loro editoriali sembrano decretare la tua fine ma in realtà è solo un nuovo inizio, dei soldi che non sono mai abbastanza, e di questa Generazione di Fenomeni che siamo noi, esperti in salti mortali, si, quelli che si fanno per arrivare a fine mese. E forse è per questo che siamo maggiormente sensibili a quei treni che a quanto pare  passano una sola volta nella vita. Come il treno del successo, ad esempio: se non lo prendi al volo non ti ricapiterà mai più. Ma a quale prezzo si sale su questo fantastico treno? Che costo ha questo maledetto biglietto? È una domanda che faccio a chi ha una band, ma anche a chi una band non ce l’ha, e spera in ogni di caso di poter vivere un giorno di musica. Siamo realisti, qua non si campa d’aria, anche se i Folkabbestia per anni hanno affermato il contrario. Ma esiste un limite oltre al quale non ci si può spingere? Fino a quando è accettabile il compromesso? Ed il successo può davvero definirsi tale anche quando porta alla negazione di sé stessi?

C’è un passaggio del libro che mi ha colpito particolarmente. Ernesto, Ciccio e Tony (altri due personaggi fondamentali) si interrogano sul da farsi circa il loro futuro di musicisti e di Band. Il discorso prende una piega strana e i tre amici cominciano ad interrogarsi su quale sia la chiave del successo. Quello con le idee più chiare è Ciccio: a me non interessa far parte di un mercato marcio dove ti vendono come un paio di scarpe finché non passi di moda. Il più incerto invece è, come al solito, Ernesto: tanto non la capirò mai qual è la chiave del successo, afferma sconsolato. Prova a non cercarla, gli risponde Tony. A quel punto ci pensa Ciccio a chiudere la questione; Io non so quale sia la chiave del successo, ma la chiave del fallimento è il cercare di piacere a tutti. Io aggiungo che la chiave del fallimento è anche non piacere soprattutto a sé stessi.

Ps. Alcuni pezzi di Ernestoc’è sono diventati davvero delle canzoni in seguito. Qui sotto trovate ad esempio “Domani No”

Intervista all’autore:

Ciao Cristiano, cominciamo dal titolo del romanzo: Domani No. Oltre ad essere anche il titolo di una canzone di Ernestoc’è, il personaggio principale, ha qualche altro significato in particolare?
Domani No è un invito a fare quello che ti senti, quello che ti dice la testa, o se vuoi il cuore. È come quando tiri una monetina in aria per scegliere tra due possibilità e sai già inconsciamente cosa preferisci tra testa o croce. Domani No è un modo per dire che nella vita si può anche attendere qualcosa di bello, ma non passivamente. Altrimenti non succederà assolutamente nulla. E questo Ernesto lo sa.

Nella postfazione al romanzo hai affermato che la lettura della biografia di Caparezza e Fabri Fibra è stata decisiva per delineare il personaggio di Ernesto. Come mai? Ci sono stati altri musicisti o band dai quali hai tratto ispirazione?
De Gregori, Guccini, i grandi cantautori. Gruppi come i Folkabbestia o la Bandabardò, i Martin Kleid, alcune belle sorprese come Mannarino e Brunori Sas. Ma Caparezza e Fabri Fibra sono i due che, con le loro peculiarità, meglio rappresentano Ernesto. E inoltre rappresentano le “mie” regioni: la Puglia e le Marche, luogo dove vivo.

Sempre nella postfazione hai scritto: “Io non sono un esperto di musica. Per scrivere questa storia ho dovuto studiare molto”. Cosa ti ha spinto allora a scrivere un romanzo dove la musica ha un ruolo tutt’altro che marginale, anzi, è una delle protagoniste principali?
Mi piace definire Domani No un romanzo di frustrazione. Nel senso che io volevo fare il cantante, e ho scritto anche diverse canzoni, poi non ci sono riuscito ma quella è un’altra storia. Purtroppo non ho la voce giusta. In ogni caso il mondo della musica, soprattutto quella italiana, mi ha sempre affascinato. E credo di saperne qualcosa, pur non essendo un cantante.

Qual è il tuo rapporto con la musica oggi? Scrivere questo romanzo ha cambiato questo rapporto? Se si, in che modo?
Ci sto più attento, nel senso che non scaricherei mai un brano gratis e dico davvero. Rispetto il lavoro dei musicisti, sono iscritto a Spotify a pagamento, scarico da iTunes. Ascolto anche i cantautori non ancora famosi e se posso cerco di conoscerli magari per coinvolgerli nelle mie presentazioni. Così è stato con Fabrizio D’Elia, che ha musicato “Domani No” (la trovate su Youtube) ed ha reso indimenticabile la presentazione di Bari, a Storie del Vecchio Sud accompagnandomi con la chitarra e con la voce.

Leggere il tuo romanzo è anche un bel modo di attraversare in lungo e in largo l’Italia: si parte da Bari per poi arrivare a Bologna, Roma, Milano. C’è perfino una tappa straniera in Albania. A Bari ti lega il fatto di esserci nato e vissuto, immagino. C’è qualcosa che invece ti lega agli altri luoghi menzionati?
Bologna, Roma e Milano sono tappe intermedie della mia vita. Per un motivo o per un altro ho avuto modo di conoscerle, apprezzarle e in alcuni casi disprezzarle, proprio come Ernesto. L’Albania rappresenta nel libro il luogo della redenzione, è il posto dove tutto ricomincia. E lo è stato anche per me, in maniera simbolica. Albanese è la ragazza che ho amato come poche altre cose al mondo. Albanese la sua famiglia, e il legame che si è creato con questa terra e con questa gente, nonostante le nostre strade si siano separate è indissolubile. L’Aquila ha due teste fa parte di me.

Sul mio libro c’è una dedica che recita: A Maria, ringraziandola per la domanda che sognavo da una vita. Ps. Non è un romanzo autobiografico!
Lo spieghi anche ai lettori di Rockambula perché per te è così importante che  non lo sia? Ed in ogni caso, sei proprio sicuro che non lo sia?
Sì, sono sicuro. Io non sono Ernesto, al massimo è lui che copia me e mi costringe a diventare come lui. Ma io resisto. Ho scritte diverse cose autobiografiche in vita mia, per questo stavolta era importante che questa storia non lo fosse. Era una sfida, volevo vivere un’altra vita, quella di un cantante famoso e di un ragazzo deluso per amore, in un momento in cui la mia vita sentimentale andava benissimo. Poi lascia stare che a me è successo esattamente quello che è successo a Ernesto. Se volete sapere cosa mi è successo leggete il romanzo!

Grazie Cristiano. Per finire la Domanda delle domande (o meglio, la Risposta delle risposte, se deciderai di rispondere): cosa avresti voluto che ti chiedessi e che, invece, non ti ho chiesto?
Sinceramente mi sono divertito a rispondere a domande diverse dal solito e quindi non posso fare altro che ringraziarti. Ma visto che me lo chiedi mi domando “Domani No potrebbe diventare un film?” e con un pizzico di presunzione di dico di sì, perché credo che la forza di questo romanzo sia la sceneggiatura, con dei flashback e dei personaggi fatti apposta per il cinema. Anzi, conosci un regista?

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AliceLand – Pensieri Raccolti

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Pensieri Raccolti è il titolo del primo album di Alice Castellan, in arte AliceLand: una raccolta di brani scritti dalla stessa Alice ed arrangiati dal bassista Andrea Terzo. Ma procediamo con ordine, partendo dal nome, che mi evoca all’istante Alice’s Adventures in Wonderland (Alice nel Paese delle Meraviglie, per farla breve) di Lewis Carrol; la mia fantasia galoppa. Il titolo dell’album, Pensieri Raccolti, mi porta invece alla mente la visione di pensieri intimi e profondi, raccolti in sé stessi, rannicchiati in posizione fetale; tanti piccoli embrioni cerebrali che possono crescere e diventare progetti, sogni che si avverano, futuro, ma che possono anche rimanere là dove sono, e spegnersi lentamente in vaghi ricordi. A questa visione però ne segue subito un’altra, ed è quella in cui un’Alice spensierata e saltellante raccoglie pensieri in maniera un po’ distratta e li mette in un cesto a forma di disco che si porta dietro, riempiendolo. La mia fantasia galoppa ancora più forte. Premo play, e neanche a farlo apposta, il primo brano si intitola “Immagina”, e si dichiara subito in uno stile Pop gradevole, almeno fino al ritornello, almeno fino a quando la voce di Alice (voce che tra l’altro non mi dispiace affatto) non si accanisce sull’ultima nota di ogni verso con un virtuosismo eccessivo, con un suono simile ad un gemito, che si ripete per una, due, tre, quattro, n volte. Solo alla fine del disco potrò affermare che il mio dubbio è in realtà una certezza: quel suono è presente in tutto l’album. Aiuto.

I riferimenti ad Elisa li colgo subito, soprattutto nel brano “Pianeti”, forse tra i più interessanti. Interessante anche l’utilizzo delle percussioni etniche in “Stronger (ovunque)” e “Sacred Mountain”, dove diventano veri e propri elementi caratterizzanti che valorizzano il brano. Solo in rarissimi casi mi hanno colpito i testi, che non ho trovato così intimi e profondi come il titolo dell’album mi aveva fatto immaginare. La parte musicale invece, interamente suonata in acustico, mi è sembrata essere più vicina al concetto di intimità espresso dal titolo. Altro elemento costante per tutta la durata del disco è il tema amore, preferibilmente nella sua variante che fa rima con dolore. Premetto che non ho nulla in contrario a questa variante, ma è davvero così grande il dolore di Alice da meritarsi tutto questo spazio nel disco? Oppure bastava semplicemente dare maggiore importanza ai Pensieri Raccolti di cui sopra, quelli rannicchiati in posizione fetale, più intimi, e non accontentarsi di raccoglierne alcuni in maniera distratta per riempirne un disco? (Traduzione: non conveniva magari ridurre il numero dei pezzi, attualmente quattordici e scegliere in maniera più opportuna quelli da inserire?). La musica per me ha l’effetto terapeutico di mettere a tacere, anche se temporaneamente, gli interrogativi che mi porto dietro da sempre.  Questa volta sono troppi quelli che mi restano alla fine dell’ascolto.

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Sine Frontera – I Taliani

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Sine Frontera. Senza confini. Il loro nome è già un invito a superare di ogni forma di barriera fisica e mentale, concetti che vengono ampliamente espressi con la loro musica, anch’essa senza confini, appunto, libera dalle restrizioni geografiche e svincolata dall’appartenenza ad un determinato genere musicale. Contaminazione è la parola chiave dei Sine Frontera, e I Taliani, il loro ultimo album, ne è pieno. Un viaggio su un’ipotetica linea ferroviaria che passa confini e raccoglie, strada facendo, storie e musiche di posti lontani: è così che definiscono il loro progetto musicale, e quest’ultimo lavoro non si discosta dalla loro idea di fare musica. Se di generi musicali si vuole in ogni caso parlare, il viaggio avviene tra Folk Irlandese e Ska, tra musica balcanica (“La Ruota”) e Country, fino a sfiorare il Rock con “Io Sono Io”; geograficamente parlando ci spostiamo invece tra Nord e Sud America (“No Soy Borracho”, brano interamente in spagnolo dal ritmo Ska, racconta di una storia d’amore ai tempi della rivoluzione messicana di Zapata), per poi saltare dall’altra parte del mondo e toccare tutti i punti cardinali dell’Europa. Qui il viaggio prevede anche una sosta in Spagna ed una collaborazione con Albert Ferrèr, voce del gruppo barcellonese Malakaton,  nel brano “Hombres”, un’esortazione agli uomini a pensare con la propria testa, cantato in italiano e spagnolo.

La meta principale del viaggio resta comunque l’Italia, il titolo dell’album non mente; sono numerosi infatti i tributi al Bel Paese. La title track “I Taliani” canta a ritmo Ska vizi e stereotipi del popolo italico, che non di solo vizi e stereotipi, però (fortunatamente) è fatto: di ispirazione letteraria e cinematografica è la ballata Folk Irlandese “Camillo e Peppone”, mentre di ispirazione teatrale è il brano “Il Villano”, Tarantella che si rifà ad un’opera di Dario Fo. Non manca nemmeno un tributo al “Marchese del Grillo” di Alberto Sordi nel brano “Io Sono Io” (e voi non siete un cazzo!). Di diversa tendenza è il brano “Dietro il Portone”, una ballata Folk (che mi fa tornare alla mente la malinconia di “Remedios la Bella” dei Modena City Ramblers), cantata per metà in italiano e per metà in dialetto mantovano, dedicata a tutte le vittime dell’Olocausto, e che riprende le parole del celebre libro “Se Questo è un Uomo” di Primo Levi.

I Sine Frontera sono la dimostrazione che la musica può davvero abbattere le barriere fisiche e mentali, e condurre l’immaginazione in luoghi impensabili; fondamentale è dunque il suo ruolo come mezzo di trasporto emotivo. Un po’ meno rilevante è, a mio parere, l’importanza che viene data ai testi, che rimangono a volte sospesi sul pelo dell’acqua, senza andare troppo a fondo, nonostante l’importanza di alcune tematiche trattate (penso a brani come “La Ruota”, una riflessione sul senso della vita che si riduce alla nota metafora della ruota che gira). In ogni caso, mi è piaciuto viaggiare con i Sine Frontera; mi è piaciuto sedermi intorno ad un falò di suoni e parole ed ascoltare le loro storie provenienti dal mondo. Durante una navigazione nell’oceano sconfinato del web, mi ha colpito un incontro accidentale con una frase che diceva più o meno: scrivere è come viaggiare senza la seccatura dei bagagli. Credo che la  musica abbia gli stessi “effetti collaterali”.

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Le Top 3 italiane del 2013 dei singoli redattori!

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Silvio “Don” Pizzica
InSonar/Nichelodeon – L’Enfant et le Ménure / Bath Salts
Due creature distinte, una neonata, InSonar, l’altra vecchia conoscenza dell’Avant Prog, Nichelodeon, ruotano entrambe attorno alla figura di Claudio Milano. Uno split composto di quattro cd per due parti. I primi due firmati InSonar sono avvolti in un booklet contenente alcune opere di Marcello Bellina (in arte Berlikete) e quindi mosaici di Arend Wanderlust. Il progetto di Claudio Milano e Marco Tuppo vede la partecipazione di sessantadue musicisti da tutti i continenti. Il terzo e quarto cd, a firma Nichelodeon, vedono un booklet che contiene i dipinti e le poesie visive di Effe Luciani e le foto di Andrea Corbellini. La musica che è contenuta è un tripudio di Rock Sperimentale, Jazz, Progressive, Pop, Cantautorato, Ambient, Psychedelia e tanto altro. Difficile spiegarlo in poche parole.
Deadburger Factory – La Fisica delle Nuvole
Il collettivo work in progress, definito in questa circostanza “factory”, confeziona tre dischi sensazionali, ognuno vivo di una propria essenza, eppure capace di collimare nell’altro con efficacia. Musica sperimentale per gente normale.
Twomonkeys – Psychobabe
I due fratelli bresciani affermano il loro ruolo nel panorama elettronico italiano, rivelandosi come l’alternativa tricolore agli Animal Collective. Il loro è un album che deve tanto alla psichedelia di Panda Bear e soci ma disdegna incursioni nel mondo Indie e Garage Revival e nella sperimentazione matmosiana.

Marco Lavagno

Albedo – Lezioni di Anatomia
Un disco geniale. Ogni brano è un organo del nostro corpo. Indie rock che suona fresco, dinamico, melodico, forte come una voce che risuona nella nostra cassa toracica. Un lento viaggio emotivo dalla testa ai piedi.
Nadar Solo – Diversamente Come?
Potenza e testi generazionali. Il suono della band torinese è senza fronzoli, incredibilmente moderno. Canzoni per sognatori che si schiantano a terra ma non perdono mai il coraggio di sognare ancora. Nulla di più necessario al giorno d’oggi.
Perturbazione – Musica X
E’ stato etichettato, ancora prima di uscire, come il disco “elettronico” di un gruppo che ha sempre integrato le corde (non solo quelle della chitarra) al suo tratto somatico. Max Casacci entra prepotentemente nel sound e lo “perturba” senza snaturare la sua semplicità. Un applauso al coraggio e alle grandi canzoni che questi ragazzi riescono ancora a scrivere dopo 25 anni.

Diana Marinelli
Carmilla e il Segreto dei Ciliegi – Anche Se Altrove
La musica come essenza di infiniti mondi mentali. Anche se Altrove è una porta, un varco che se attraversato porta ad un’esistenza parallela fondamentale per ricominciare un nuovo viaggio, sulle vie e sulle emozioni di una vita già vissuta, forse da cui prendere esempio. Un lavoro molto interessante, studiato e soprattutto vissuto nel tempo.
ILA & The Happy Trees – Believe it
Roba da donne. E se questo significa bel timbro, bella musicalità e bell’intonazione, sia in italiano che in inglese, allora sì, è roba da donne. Tante persone, tanti colori e tante esperienze che si incontrano per un album per certi versi solare, dove protagonisti siamo tutti noi con la voglia di fare tanto e di lavorare per cambiare ciò che ci sta stretto. Una musica che lascia addosso belle sensazioni e belle emozioni.
Bruno Bavota Ensemble – La Casa sulla Luna
Il fascino di una melodia malinconica e di un pianoforte senza tempo, che però il tempo ce l’ha eccome e non solo uno preciso di metronomo ma un tempo di un determinato momento storico musicale, quello minimale/contemporaneo. Un lavoro che impone tanti interrogativi ma che ho rivalutato nel corso del tempo grazie alle sensazioni che lascia addosso. Sensazioni sincere.

Simona Ventrella
Fast Animals and Slow Kids – Hybris
I ragazzacci perugini hanno confezionato un secondo album esplosivo nel quale non mancano talento, energia e passione a tutto gas. Probabilmente quest’album rappresenta per loro un vero salto di qualità, che li ha portati in giro per l’Italia con un lungo tour e li ha fatti conoscere e apprezzare ad un pubblico maggiore.
Appino – Il Testamento
Primo lavoro solista del frontman degli Zen Circus da dieci più, testi profondi e mai banali, cantautorali al punto giusto conditi da un sound deciso, cupo e decisamente Rock.
Green Like July – Build a Fire
Terzo album per il gruppo milanese  che ci offre un lavoro ricco e variegato impreziosito dagli arrangiamenti di Enrico Gabrielli. Una tavolozza di colori e atmosfere che ti catapultano in altrettanti mondi sonori. Il cambiamento rappresenta per questo lavoro il leitmotiv che giuda le nove tracce verso un Pop fresco e moderno.

Riccardo Merolli
Soviet Soviet – Fate
Fate è ipnotico, avvolgente, straniante, di quei dischi in cui perfino le imprecisioni ti sembrano messe ad arte. I Soviet Soviet dimostrano appieno di aver digerito la lezione New Wave e Punk.
Cosmo – Disordine
Immaginate Lucio Battisti catapultato negli anni dieci sopra una DeLorean con tutte le diavolerie tecnologiche di questo periodo storico e l’intenzione di incidere Anima Latina, il risultato sarà un disco terribilmente Elettro Pop.
Albedo – Lezioni di Anatomia
Disco bomba. Arriva dritto dentro lo stomaco, Post Rock emozionale e testi bellissimi. Meritano veramente tanto gli Albedo.

Marco Vittoria
Appino – Il Testamento
Difficile staccarsi dal cordone ombelicale, soprattutto se “la mamma” in questione è un’entità chiamata Zen Circus formata da tre validi musicisti che insieme formano un vero e proprio treno sonoro… Tuttavia Appino esprime a pieno la sua creatività artistica in questo lavoro, suo esordio da solista, non rinnegando il passato ma gettando anche le basi per un nuovo futuro… Mi chiedo quindi… Come suoneranno i nuovi Zen Circus nel 2014?
Gazebo Penguins – Raudo
Il trio emiliano torna ad imporsi come una delle realtà sonore migliori italiane a soli due anni di distanza dal precedente lavoro, “Legna” con una potenza e una grinta senza eguali che si distinguono sin dalla prima traccia “Finito il caffè”, pubblicato anche come singolo in contemporanea all’album. Messaggio per le generazioni di oggi: lasciate perdere gli artisti che emergono dai talent in tv e ascoltatevi un prodotto genuino e vero dell’underground.
Lolaplay – La Città del Niente
Loro ironicamente dicono in una canzone del disco: “non comprate questo disco e non ascoltate i Lolaplay o ucciderete anche voi la buona musica!”. La buona musica è invece tutta qui, sempre in bilico fra il Noise dei Marlene Kuntz, la New Wave anni ottanta e il Rock dei Dandy Warhols… Interessante vero?

Lorenzo Cetrangolo
Ministri – Per un Passato Migliore
Il Rock popolare italiano come dovrebbe essere oggi. Spigoloso e orecchiabile, potente e sentimentale. Una produzione ruvida per un disco da consumare.
Selton – Saudade
Brasiliani trapiantati a Milano, i Selton creano un disco veramente pop, nel senso più alto del termine. Non c’è una nota fuori posto, tutto scorre liscio e comodo, ma senza banalizzare nulla. Una delle migliori band in circolazione.
In Zaire – White Sun Black Sun
L’underground italiano, quello che spacca tutto. Tribali, energici, psichedelici. Un disco strumentale che ti rivolta il cervello come un calzino.

Vincenzo Scillia
Sophia Baccini’s Aradia – Big Red Dragon
Un disco proposto da un artista dalle mille sfaccettature. Particolare su ogni fronte, una ventata di freschezza ed un cavallo di battaglia dell’ etichetta.
Corde Oblique – Per le Strade Ripetute
La musica di Riccardo Prencipe è ormai un manifesto del Sud, di Napoli, dei Campi Flegrei. Questo un lavoro ispirato e sviluppato con tanta passione. Tutto ciò non fa altro che assegnare punti ai Corde Oblique oramai una certezza.
Lili Refrain – Kawax
Kawax di Lili Refrain è un disco sperimentale, atmosferico. E’ un irrefrenabile viaggio mentale accompagnato da colori neri come l’ oscurità, rosso come la passione ed un sinistro verde scuro. Insomma una perla di questo 2013.

Giulia Mariani
Luminal – Amatoriale Italia
Distorti, veloci ed incazzati, con Amatoriale Italia i Luminal hanno fotografato e descritto al meglio lo scempio di quest’Italia marcia, corrotta, bigotta e intrappolata tra luoghi comuni inutili e finti alternativi contornati d’oro. Una botta di adrenalina pura!
Ekat Bork – Veramellious
Di origine russe ma stabilita nella svizzera italiana da una vita, Ekat Bork crea atmosfere elettroniche ispirate ad ambienti naturali come boschi e fiumi, condendo infine il tutto con una voce alla Florence Welch. Un album unico, che si contraddistingue per un’innegabile ricerca sonora, cura dei dettagli ed arrangiamenti complessi che rendono Veramellious un’esperienza d’ascolto dentro e verso un’altro mondo, un mondo fantastico ed etereo.
Miranda – Asylum: Brain Check After Dinner
Il trio fiorentino ritorna dopo quattro anni sfornando un concept album per reclusi e disadattati, tra grida di rivolta, suoni sintetizzati ripetitivi, attitudine punk, e chaos organizzato. Non so, sara’ perchè mi piacciono i piu’ internazionali Atari Teenage Riot, ma il fatto che Asylum: Brain Check After Dinner mi spacchi la testa ogni volta che lo ascolto mi fa impazzire!

Maria Petracca
Umberto Maria Giardini – Ognuno di Noi è un po’ Anticristo
Un viaggio psichedelico all’interno di sé stessi, sottoforma di EP. Severamente vietato a chi ha paura di guardarsi dentro fino in fondo, a chi non ha il coraggio di scoprire che non siamo né Santi né Eroi, come amiamo dipingerci. Perché c’è del bello e del brutto in ognuno di noi. In fondo, “Ognuno di Noi è un po’ Anticristo.
Dimartino – Non Vengo più Mamma
Anche in questo caso di EP si tratta. Chi aveva ancora dubbi sulle capacità cantautorati di Dimartino, con questo disco vedrà svanire ogni forma d’ incertezza. In più avrà modo di stupirsi di fronte ad un lavoro ricco di sperimentazioni: elettronica e cantautorato che vanno a braccetto per strada. A mio parere un esperimento riuscito. Fortunato chi ha potuto goderselo anche in versione live.
Perturbazione – Musica X
Ancora un sound più elettronico rispetto a quello dei dischi precedenti, ancora un esperimento riuscito per chi, da anni, propone una forma di Pop Rock d’autore capace di affrontare in modo leggero, ma mai banale, le varie tematiche legate alla vita quotidiana (e allo scazzo che irrimediabilmente ne deriva) e non solo. Nel 2014 avremo modo di ascoltarli anche a Sanremo.

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Concorsi e contest per band emergenti: vera promozione o pura speculazione?

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Qualche tempo, fa con la mia band mi è capitato di partecipare a un concorso per gruppi emergenti. Non farò il nome né della band né del contest, perché il mio scopo è solo riflettere un momento sulla tendenza, vigente da parecchio e ogni anno sempre rinverdita da qualche filantropo più o meno sincero, di organizzare rassegne con la formula dell’agone musicale. L’obiettivo è ogni volta il medesimo: dare occasione alle giovani formazioni di esibirsi su un palco più o meno prestigioso, ottenere premi più o meno rinomati e costosi, uscire dal proprio contesto urbano e poter suonare in location a cui difficilmente si sarebbe potuto accedere. Ma è tutte le volte vero?
Nel caso specifico dell’ultimo concorso a cui ho partecipato l’associazione organizzatrice richiedeva 30€ a gruppo come quota di partecipazione. E fino a qui ok. Ce ne sono di molto più cari e in quattro la cifra procapite diventa irrisoria. Il contest è organizzato nel capoluogo di regione (che da noi dista 55 km) oramai da diversi anni; le varie fasi eliminatorie prevedono di itinerare per un po’ di locali finendo con la fase finale in un super posto parecchio rinomato.

La prospettiva di passare qualche fase di selezione e inanellare un po’ di date in locali in cui diversamente non avremmo potuto suonare (perché sei di fuori, non porti gente), non ci dispiace affatto. La registrazione del singolo con videoclip, prevista come premio del vincitore, non ci interessa assolutamente invece, ma è sicuramente un bell’incentivo. La faccenda comincia a stridere con l’assoluto obbligo di consegnare i soldi a mano pena l’esclusione, in un giorno prefissato per la riunione tra organizzatori e partecipanti, antecedente all’inizio delle fasi eliminatorie (quindi un ennesimo viaggio da mettere in conto). Riunione, oltretutto, per parlare del nulla e fondamentalmente per non tracciare il denaro, visto che non abbiamo avuto nemmeno una ricevuta che attestasse l’avvenuto pagamento (e visto che alla nostra richiesta di poter fare un bonifico bancario ci è stato risposto picche).

La rassegna si svolge di martedì. E ok, siamo in una grande città: si uscirà anche infrasettimanalmente. Noi della band lavoriamo tutti ma è un impegno, l’abbiamo preso, si va. Convocazione alle 17. Di martedì. Ma stiamo scherzando? Ci dividiamo. Due di noi che non lavorano vanno su all’ora delle convocazione per presenziare, quelle che lavorano arrivano appena possono. Se non fosse che l’orario tanto infelice era scomodo anche ai tecnici del suono che alle 19 ancora dovevano allestire il palco per il soundcheck. La mia band ha mosso, di questi tempi!, due auto per fare più di cento chilometri andata e ritorno, quando avrebbe potuto semplicemente fregarsene delle convocazioni, degli orari, dei dettami e muoverne solo una e risparmiare. Lasciamo stare che non ci sia stata offerta né la cena né una simbolica birra (e noi band sappiamo accontentarci anche del cibo come formula di rimborso spese). Chicca delle chicche: in un concorso che prevede la famosa “giuria popolare”, tutte le altre formazioni in gara con noi erano del capoluogo, quindi ben fornite del loro codazzo di amici (comunque una trentina di persone, non immaginatevi chissà che folla) nonostante il giorno feriale. Non c’è neanche bisogno di dire il risultato della selezione.

Di esperienze infelici come queste è sicuramente pieno il panorama emergente nostrano. Sono formule in cui appassionati di musica, musicisti, giovani disoccupati che cercano di arrotondare, si lanciano a pesce divertendosi a fare i promoter e, complice una certa improvvisata (in)esperienza, fanno solo danni e pagliacciate. Fortunatamente ci sono le dovute eccezioni e sta alle band vagliare molto bene la professionalità di chi organizza. Anzitutto bisognerebbe chiedere una trasparenza nei pagamenti. Sono pochi soldi, ma messi insieme tra tutti i partecipanti, fanno cifre abbastanza considerevoli e meritano un ritorno in professionalità e competenza. In secondo luogo bisogna sincerarsi dell’onestà organizzativa (puntualità e rispetto degli orari, fasi eliminatorie organizzate in modo da non privilegiare le formazioni del luogo, assenza della fantomatica “giuria popolare” che tanto ricalca l’odioso ragionamento del proprietario di locale che ti chiede, al momento dell’ingaggio “Ma tu, quante persone mi porti?” e che di sicuro tradisce un interesse tutt’altro che filantropico e musicale da parte di chi mette in moto la macchina del contest). Abbiamo voluto raccogliere, in questo articolo, tutta una serie di testimonianze di chi ruota attorno ai concorsi, tanto dalla parte di chi partecipa, quanto da quella di chi organizza. Traete voi le conclusioni. E in bocca al lupo!

Alla luce di questa esperienza diretta di uno di noi e visto che anche Rockambula, con Streetambula, si sta proponendo come organizzatrice di eventi simili, abbiamo voluto parlare anche con band esterne, che tra l’altro già hanno partecipato ad un nostro live contest, per capire se ci si sta muovendo in una giusta direzione.

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Dopo una breve chiacchierata con i De Rapage e gli À L’Aube Fluorescente (rispettivamente primo e secondo classificato a Streetambula) abbiamo scoperto che sì, a volte partecipare a un Contest musicale può dare visibilità a una band, e rappresenta anche un’occasione concreta per rendere “reale” la propria musica. Ma a volte anche no.

In merito alla partecipazione a concorsi e contest musicali:

Qual è stata l’esperienza più assurda e negativa che avete dovuto affrontare? Quale invece quella che vi ha lasciati maggiormente soddisfatti?
De Rapage: Una parte importante delle piccole realtà musicali, dovrebbe essere il mutuo supporto e la reciproca condivisione: un aspetto molto negativo di questi contest è proprio che questo genere di collaborazione viene a mancare in quanto gara, ed al momento dei verdetti, al posto di prepararsi a festeggiare tutti insieme in un terzo tempo a suon di birra, si accendono le polemiche. Questa è di sicuro la faccia della medaglia che non ci piace. Di aspetti positivi, oltre a quelli di suonare dal vivo, di farsi conoscere da un pubblico che non è il tuo e di conoscere nuove persone con la tua stessa passione, ce ne sono davvero pochi altri.

À l’Aube Fluorescente: Siamo una band con circa un anno di attività e non abbiamo partecipato a molti contest. Alcuni erano esclusivamente on line e personalmente li trovo abbastanza fini a se stessi, anche se a volte i premi in palio sono molto interessanti. Tuttavia la meritocrazia fatica a trovare spazio con questo sistema di giudizio. Streetambula ci ha sicuramente lasciato un bellissimo ricordo ed un premio utilissimo! Tutti i vari sistemi di selezione hanno funzionato molto bene. Lo consigliamo vivamente.

Quali sono gli errori che secondo voi si dovrebbero evitare a livello organizzativo?
De Rapage: Qui si parla di eventi in cui vengono mischiate in un grande calderone band dagli stili e dai generi a volte anche antitetici; un buon service in grado di gestire differenti approcci musicali è il primo elemento da prendere in considerazione; avere una giuria competente e di livello, evitando nomi che lavorano con la musica ma che di musica non capiscono un cazzo è il secondo. Ultimo ma non meno importante è essere sempre disponibili con gli artisti.

À l’Aube Fluorescente: si deve evitare in primis di sottovalutare l’aspetto tecnico riguardante la strumentazione per permettere alle band di esibirsi. Si deve garantire un palco di qualità per dare piena riuscita al contest. Le altre accortezze da porre all’attenzione delle organizzazioni sono innumerevoli. La realtà dei fatti è che alla fine la differenza la fa la voglia e la passione di chi organizza. Grazie a tutti quelli che lo fanno per vera vocazione.

In che modo i contest a cui avete partecipato vi hanno aiutato nella vostra carriera artistica?
De Rapage: Ci hanno aiutato a capire che possiamo divertirci indipendentemente dal risultato finale. Partecipare ad un contest pensando di vincere perché sei il migliore del tuo paesino disperso fra i monti o del tuo quartiere è proprio da sfigati. Divertirsi è l’unica cosa a cui una band da sottobosco dovrebbe ambire; un po’ di sana competizione la si va a cercare sui campi di calcetto!

À l’Aube Fluorescente: Alcuni ci hanno fornito visibilità e promozione; altri occasioni concrete per rendere reale la nostra musica. Sono due aspetti importanti, uno più aleatorio, un altro pragmatico. Il consiglio che mi sento di dare a tutte le band che cominciano o che, come noi, proseguono un percorso è quello di scegliere con attenzione le proprie battaglie. Non si può agire sempre su tutti i fronti ed al contempo fare musica: ottimizzare le proprie dinamiche per ottimizzare i risultati. È  poco poetico lo so, ma funziona.

HBG

A quanto pare, le nostre idee sembrano combaciare perfettamente con quelle di chi, al nostro contest ha partecipato e ha aderito anche ad altri. Noi di Rockambula e conseguentemente di Streetambula cerchiamo di metterci sempre dalla parte di chi suona ed è per questo che non chiediamo e non chiederemo mai soldi per iscrivere una band a un contest. Tutta la nostra webzine e tutto il lavoro che c’è dietro è veramente frutto della nostra passione per la musica e questo si riflette anche sull’organizzazione degli eventi. Con il progetto Streetambula organizziamo serate alle band senza chiedere alcuna percentuale, con il solo scopo di fare promozione alle nostre serate (2/3 all’anno). Stanziamo cifre cospicue per service e premi, e conti alla mano, ci guadagnano ben più le band di noi che organizziamo. Con questo non vogliamo certo dirvi che Streetambula è un contest migliore di ogni altro in Italia ma certamente possiamo garantirvi che è fatto con onesta e forse anche troppa passione (quando magari non guasterebbe del sano egoismo). Con la prima edizione di Streetambula, su otto band finaliste abbiamo garantito otto premi, di cui il primo premio del valore di 1000 euro. Abbiamo garantito una promozione alle band notevole, anche grazie al sito di Rockambula, oltre che quello di Streetambula. Abbiamo creato un progetto col quale stiamo organizzando serate alle band iscritte, sempre gratis (guadagniamo qualcosa con lo stand di gadget e le birre). In pratica, chi partecipa non partecipa solo per il premio ma per avere un rapporto diretto ed essere supportato in ogni situazione possibile. Abbiamo migliaia di contatti di ogni tipo, quindi se una band ha bisogno di supporto, noi diamo una mano. Il contest è una minima cosa. Spesso le band credono che la formula del contest sia un modo facile per fare serate a costo zero. Non è proprio cosi. Nel nostro caso, ad esempio, abbiamo speso in premi lo stesso che se avessimo fatto un festival, nel qual caso avremmo risparmiato tempo e fatica. Inoltre i premi sono scelti tutti per aprire nuove porte alle band che spesso non sanno neanche come muoversi in un certo ambiente. Grazie a Streetambula i De Rapage hanno delle splendide foto, Doriana Legge andrà in radio, gli Old School hanno attrezzatura, i Suricates promozione e À l’Aube Fluorescente ha registrato un singolo e molti avranno lezioni di batteria gratuite. Inoltre tutte le band del contest e le altre che hanno chiesto di essere inserite nel progetto, hanno avuto o avranno recensioni sincere, news, spazio sul sito di Streetambula e di Rockambula. E le nostre giurie sono sempre qualificatissime, variegate e il giudizio del pubblico nel contest estivo non era previsto, mentre per il contest invernale (21/12/2013 Caffè Palazzo Pratola Peligna) avrà un ruolo comunque marginale.  Insomma, noi siamo dalla loro parte. Vi lascio alle parole del nostro direttore e vicedirettore di Streetambula, Riccardo Merolli.

Da organizzatore di Contest posso dire con estrema sincerità che quelli a pagamento non hanno motivo di esistere, nel rispetto della musica come arte. Ho fatto parte di molte organizzazioni nel corso degli anni e vi assicuro che far pagare una band per esibirsi è come rubare la cioccolata a un bambino, una tristezza infinità che aumenta la nostra pochezza culturale. Tutti i contest nel giro di qualche tempo dovrebbero trasformarsi in festival, esclusi naturalmente quelli che ti portano a suonare in un grande festival. Capisco le difficoltà economiche ma questo è un problema che toccherebbe risolvere a chi scalda poltrone, noi ci mettiamo la faccia almeno fino a quando non sarà completamente ricoperta di sputi.”

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La Tosse Grassa – Tg3

Written by Recensioni

La Tosse Grassa: il nome è già tutto un programma. Il titolo del suo terzo disco poi, TG3, lo è per davvero (sempre se, come me, credete che i telegiornali somiglino sempre più a dei Talk Show). Tra ricordi catarrosi di nottate insonni, febbri deliranti ed antibiotici dai colori psichedelici, mi accingo a premere play con in faccia, lo ammetto, un’ espressione di schifo per tutto quello che una tosse grassa può evocare nella mia mente.

Già dalla prima traccia la sensazione è di essere investiti da un camion in corsa. Sto ascoltando un disco Metal? Nonostante la presenza di sonorità riconducibili ad altri generi, “Veleno”  sembra volermi condurre in quella direzione. Sembra, appunto; perché la seconda traccia “la Vita È Bella (Quella di Benigni)” si presenta con un ritmo Pop Dance che si lascia ascoltare facilmente, e che subisce una metamorfosi nel ritornello passando all’Hardcore, con tanto di esasperazione della voce proprio sulle parole La vita è bella, la vita è una cosa meravigliosa. E così si procede, altalenando tra vari generi, riferimenti e citazioni, fino a quando non mi sembra di riconoscere nella melodia della terza traccia (“Hanno le Manine”) il ritornello di “Take Me Out” dei Franz Ferdinand. Una coincidenza? Chissà.

Proseguo con l’ascolto di “Santo Subito” e questa volta non ho dubbi, lo riconosco chiaro e tondo il motivetto di “Sei un Mito” degli 883, così palese, spudorato e deciso che per un attimo mi viene da cantare tappetini nuovi Arbre Magique, deodorante appena preso che fa molto chic. È stato solo un attimo, mi ricompongo subito. No, questa non può essere una coincidenza. Ed infatti non lo è, perché mi trovo davanti a Vanni Fabbri alias La Tosse Grassa, e a quello che è un vero a proprio culto, Il Culto della Tosse Grassa appunto, della quale lui stesso è il dio indiscusso. TG3 è quella che Vanni definisce la sua nuova stagione liturgica, che prevede la stessa formula delle due stagioni liturgiche precedenti (TG1 e TG2): una serie di basi realizzate con campionamenti provenienti da brani altrui. Un mix letale, ripetuto per la terza volta, ma sempre vincente: il Pop va a braccetto col Metal per recarsi a fare una visita alla Dance, passando però prima dall’Elettronica, senza dimenticarsi del cantautorato italiano (in “Ghigliottina e Lanciafiamme” c’è spazio anche per Pupo e per la sua “Firenze S. Maria Novella”).

Il tutto è poi accompagnato da una serie di testi irriverenti, dissacranti, diffamatori e violenti che trattano con cruda ironia e straziante verità la decadenza di questa società allo sbando. Suicidio, droga, disoccupazione, pedofilia, consumismo, religione, omosessualità, precarietà, vengono sviscerati senza mezze misure o giri di parole; le vergini orecchie si mettano al riparo e le signorine perbene non svengano se  travolte da alitate di Trash. Chi di voi ha mai visto una tosse grassa avere pietà del poveraccio che vi è malcapitato? Dopo le dovute cure, magari. Ma questa è una tosse grassa per la quale non farà effetto nessuno sciroppo e, sinceramente, mi sta bene così.

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Placebo – Loud Like Love

Written by Recensioni

Ci sono stati momenti di vero panico per il mio elettrocardiogramma emotivo durante l’ascolto di Loud Like Love, ultimo disco dei Placebo. Alla vista di un tracciato piatto ed in presenza di un suono Biiiip  continuo, il medico di turno era pronto a decretare la morte di qualsiasi forma di emozione,  sentimento o stato d’animo, dalla felicità più sconvolgente all’angoscia più devastante, per citare solo gli estremi di un lungo intervallo di sfumature sentimentali che la musica è capace di generare. Tuttavia, prima di mettere nero su bianco una definitiva sentenza di morte, un ultimo brevissimo Bip ha rimesso in moto quella macchina infernale generatrice di turbamenti che i comuni mortali chiamano cuore, insieme a tutto ciò che è capace di contenere, risollevando in questo modo le sorti di un album che troppo spesso si abbandona ad un Pop Rock, passatemi il termine, “scontato”, ma che a tratti riesce ancora a regalare momenti di piacevole musica.

“Loud Like Love” (traccia che dà il titolo al disco) ad esempio fa pensare ad una corsa disperata dettata dal ritmo sostenuto di chitarra e percussioni, che si ferma a riprendere fiato proprio nel momento in cui Brian Molko canta Breathe. “Scene of the Crime” sembra voler tentare il colpo riproponendo il lato più oscuro dei Placebo, ma è un colpo che non va mai a fondo e si riduce a rimanere un graffio in superficie. La discesa comincia con “Too Many Friends”, una critica contro i social network che si perde in ovvietà di ogni tipo ma si salva grazie ad un ritornello orecchiabile, e continua con “Hold On to Me”, che potrebbe passare tranquillamente inosservata se non fosse per la voce di Brian Molko che resta comunque un elemento valorizzante, nonostante tutto. Segnali di ripresa arrivano con “Rob the Bank”, dove il ritmo si fa più sostenuto, ed “Exit Wounds”, dove i protagonisti sono i suoni elettronici della parte iniziale che esplodono in una moltitudine di chitarre, riprese poi nella successiva “Purify”. “Begin the End” annuncia, di nome e di fatto,  la fine del disco che si chiude con la melensa, più che romantica,  “Bosco”.

Un album che genera un elettrocardiogramma emotivo instabile insomma, fatto di momenti  in cui ti daresti per spacciato, e momenti in cui ritorna un barlume di speranza a farti credere che davvero qualcosa di nuovo possa ancora accadere. Ma quel qualcosa non accade. Non in questo album, almeno.

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