Marialuisa Ferraro Tag Archive

Built to Spill

Written by Live Report

Ci ho messo parecchio a compilare questo report, me ne rendo conto. Non è tanto questione di tempo a disposizione, quanto di riordinare le idee che un concerto ti dà, in un determinato contesto e in un dato periodo della tua vita. Non che i Built to Spill siano il gruppo della mia vita, sono andata al concerto più che per curiosità che per fanatismo o ammirazione, ma la band sa muovere certe corde e se sei in un mood un po’ blu, è fatta. Il sound cupo, rumoroso in modo controllato ed elegante della band di Doug Martsch risuona nel parco del Circolo Magnolia davanti a pochissime persone (pochissime rispetto a quello che mi sarei aspettata, l’area davanti al palco era zeppa di gente, ma pur sempre di dimensioni molto contenute): il concerto si apre con “Goin’Against Your Mind” e insomma, il mio scazzo non sarebbe migliorato affatto. Martsch è nevrile nel modo di cantare, saldo davanti al microfono, un fascio di nervi: crede ad ogni parola che dice e questo rende il messaggio molto più immediato.

Il pubblico è molto attento, silenzioso, concentratissimo. Sembra un concerto d’altri tempi o pare di assistere a un vaticinio. I suoni non sono sempre pulitissimi, forse colpa della location: troppe acute che disturbano. Dopo “In The Morning”, “Revolution” e “Centre of the Universe” ho già le orecchie bollite. I Built to Spill non vantano chissà che presenza scenica, parlano pochissimo, si limitano a ringraziare, in italiano, quando si ricordano. Ma non è certo quel tipo di comunicazione che ricercano, né quel tipo di comunicazione che vuole il loro pubblico. Dopo l’intensa “Get a Life” la scaletta per me scorre abbastanza placida (“Heart”, “Strange”, “Sidewalk”, “Joyride”), fino a “I Would Hurt a Fly” che mi risveglia dalla trance mistica della confusione scazzo-depressiva che mi stavo portando addosso e mi fa godere della bella esecuzione di “Else”, “Fuck 2006” e della mia preferita, “Carry The Zero”. Una bella esecuzione, sì, per quanto Martsch non ce la faccia vocalmente più da almeno cinque canzoni: le frasi vengono troncate prima di quando avrebbero dovuto essere, come se mancasse il fiato e i falsetti sono addirittura stonati in più riprese.

La band rientra per un encore inaspettato e mozzafiato: sta suonando da più di un’ora e mezza consecutiva e se ne ritorna sul palco per lanciare due rivisitazioni molto personali e molto coraggiose di “How Soon is Now” degli Smiths e di “Age of Consent” dei New Order. Qualcuno neanche se ne accorge, qualcuno si gasa per la prima volta dopo un concerto molto intimista, essenziale, impreciso in più punti ma fondamentalmente molto buono per quanto riguarda l’intensità emozionale. Se non ci siete andati, non è che avete perso gran cosa a livello puramente tecnico-compositivo, però avete mancato l’occasione di vedere che la musica è ben altro che note pulite, precisione, grandiosità scenica. E un po’ secondo me ce lo si dimentica che il live è più pancia che dita veloci e frasi a effetto lanciate dal microfono.

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Múm – Smilewound

Written by Recensioni

Il panorama musicale islandese, mai come negli ultimi anni, ha attirato così tanto l’attenzione su di sé. Sulla scia dei successi internazionali di Björk prima e di Sigur Rós dopo, sono emersi band della forza di Amiina, Agent Fresco, FM Belfast, Of Monsters And Men e i Múm. Pur con declinazioni molto diverse in ogni esito, la formula che sta alla base delle composizioni di questi artisti sembra essere sempre la medesima: una commistione di Pop, musica colta, folklore, elettronica, ciascuna in percentuale diversa a creare un panorama musicale variegatissimo ma anche immediatamente collocabile sul piano culturale-geografico.
Uscito il 6 settembre scorso, Smilewound, l’ultimo disco dei Múm, sembra essere una summa di tutte le precedenti esperienze della band. Il disco si apre col singolo “Tootwheels”, un brano dal sapore particolarmente trip-hop, con un contrappunto di archi pizzicati e pianoforte che lascia lo spazio a sonorità elettroniche da carillon. “Underwater Snow” è una ballad con un’introduzione pianistica alla Yann Tiersen e il cantanto alla Julia Stone (o Emiliana Torrini, se vogliamo pescare fra i connazionali della band). Una rivisitazione degli artifici elettronici anni 80 sembra essere la base di “When Girls Collide” (come della successiva “Candlestick”, in fondo), con un motivetto in loop ipnotico e quasi fastidioso, che però ben si amalgama con le voci spesso in deelay. “Slow Down” ricorda particolarmente Björk ed è forse la traccia più studiata e costruita, con un continuo slittamento di accenti ritmici e l’uso massiccio di rumori coloristici. “One Smile” è il brano che più si discosta dall’omogeneità stilistica del disco: la melodia principale, affidata a un metallofono, rimanda all’estremo oriente e la freddezza del timbro di questo strumento viene subito scaldata dalle chitarre e dagli archi, in un crescendo ritmico-dinamico che diventa una specie di cavalcata nervale frenata solo dalla delicatezza vocale. Per “Eternity Is the Wait Between Breaths” sembra che i Múm si siano rivolti nuovamente a Tiersen: il brano sarebbe perfetto per una sonorizzazione cinematografica, con il mix di rumori sintetici e patina vintage con cui è costruito. “The Colorful Stabwound” è probabilmente la traccia più Pop di tutte, sia per la linea melodica, ben più lineare e convenzionale, sostenuta solo dal basso che scandisce l’incalzante ritmo della batteria, sia per la costruzione strofica.

“Sweet Impression” sottolinea moltissimo la precedente impressione sulla parentela fra la voce dei Múm e le rese canore di Emiliana Torrini e Julia Stone. La mia traccia preferita, comunque, è “Time to Scream and Shout”,  meravigliosamente ossimorica, visto che invece di essere urlata, l’esecuzione è placida, greve, con atmosfere trasognanti alla Himogen Heap. Piccola chicca del disco è la collaborazione per “Whistle” con Kylie Minogue che, chi l’avrebbe detto, si amalgama perfettamente col sound della band e non solo non disturba, ma conferisce addirittura un certo tocco di grazia al brano. Smilewound è un album veramente da ascoltare, un bello spaccato della produzione di una band e un gradevolissimo susseguirsi di ispirazioni e suggestioni.

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Goldfrapp – Tales of Us

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Incredibile. Sono tornati i Goldfrapp. Chi l’avrebbe mai detto. Proprio quando non ci si sperava più e neanche ci si pensava più, il duo pubblica Tales of Us e già dal titolo si potrebbe capire di che disco si tratta. Sicuramente un concept album, non tanto nel senso Prog del termine, quando nella profondissima omogeneità di mood, contenuti, tono e filo conduttore narrativo. Il disco si apre con “Jo”, molto cadenzata, ripetitiva, ossessiva, con un delay vocale che crea un incredibile effetto pioggia battente, perfetto per l’autunno in cui Tales of Us fa la sua apparizione. “Annabel”, nonostante l’andamento flemmatico e arpeggiato non è mai scontata: molto cinematografica, con cadenze armoniche e melodiche del tessuto strumentale che spesso e volentieri ingannano sulla loro risoluzione. La malinconia e l’inquietudine proseguono in “Drew”, apparentemente leggera con quel suo inizio da scherzo pianistico che viene subito appesantito dalle sferzate tonali minori. “Ulla” è delicata e sensuale, mentre “Alvar” è un brano onirico e senza tempo, a cavallo tra la ballata medievale e le sonorità Folk nord-europee. Forse l’unico brano del disco a tradire sinceramente una nota positiva. Non mancano neppure gli anni 90, che in “Thea” acquistano quasi un gusto vintage. Purtroppo arrivati a questo punto ci si è un po’ stufati. Il cantato è complessivamente monocorde. L’omogeneità di cui parlavo prima e che, per certi aspetti, potrebbe essere un dato incredibilmente positivo sul piano compositivo e stilistico, finisce per annoiare l’ascoltatore almeno: finisce per annoiare me e ci si rende conto che Tales of Us potrebbe essere perfetto a piccole dosi, a sezioni interrotte e usate come soundtrack per qualche film, ma non certo per un ascolto da cima a fondo di un full-length. Perfetta a scopo cinematografico sarebbe proprio la “Simone” che passa quasi inosservata, così come la fumosa “Stranger”, che pare arrivare direttamente dagli anni 50, perfettamente identica per toni a tutti i brani precedenti ma forse con quel tanto appeal che basta a renderla più catchy. “Laurel” vive della luce riflessa della precedente, mentre con “Clay” si ritorna a sonorità vagamente più Folk: la chiusura è fresca, positiva, inaspettata. Forse un messaggio di speranza? Forse la fine della stagione fredda che porterà alla rinascita della primavera? Chissà. Nel frattempo i Goldfrapp ci danno un disco che non è assolutamente un capolavoro, né sembra avere alcuna velleità di esserlo. É una narrazione di ciò che è (autunno, malinconia, precarietà), con un piccolo barlume finale di quella speranza che è sempre l’ultima a morire.

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Wolther Goes Stranger – Love Can’t Talk

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“L’amore non parla ma suda, santifica, scarnifica. Questo disco è una raccolta di canzoni d’amore calde e bastarde. Perché così è l’amore e pure Wolther”. Questo è quanto recita il retro della copertina di Love Can’t Talk, fatica discografica di Wolther Goes Stranger. Sorvoliamo su cosa tendenzialmente suscitano le già mezze recensioni degli uffici stampa o delle agenzie di promozione, figuriamoci quando è la band stessa che velatamente indirizza all’ascolto, naturalmente suscitando poi reazioni tutt’altro che favorevoli. Il terzetto, comunque, apre il disco con “Darling”, ballatona Indie Elettronica punteggiata dal pianoforte, con un testo piuttosto banale, volutamente ripetitivo, che lascia spazio all’apertura pulsante di  “Your Name”, primo esempio della commistione linguistica inglese-italiano che la band tanto decanta (“Hanno l’inglese e l’italiano perché sanno a chi devono parlare e vogliono essere capiti”), ma che a me fa abbastanza rabbrividire.

Già da questi due brani si evince un’ottima competenza tecnico-strumentale, una buona creatività e un’ispirazione variegata che attinge dallo Shoegaze quanto dal Trip-Hop, dalla Dance anni 90 e dal barocchismo degli anni 80. Manca però uno stile inconfondibile, manca quel quid che faccia trasalire nel sentire qualcosa di nuovo. E nella terza traccia, “I’m Sorry”, troviamo l’altro neo della band: la voce femminile. Nulla da togliere alla tecnica di Linda “Bru”, ma il timbro e la dizione andrebbero modificati: personalizzato il primo e migliorato il secondo. Il brano di per sé è l’ennesima conferma della cifra stilistica della formazione, che ha le idee chiare sul da farsi ma sembra dover ancora trovare il suo spazio nel mondo musicale. “Idol” ha meravigliose chitarre pulp, ma tristi rime tronche meteperché che fanno rimpiangere l’uso dell’inglese. “Jesus” è la traccia più riuscita, più curiosa, originale, personale: anzitutto il duetto vocale che fonde una timbrica maschile a quella femminile rende la costruzione del testo, questa volta ben fatto davvero, dialogica e filmica, suadente e sexy.

L’unico difetto è che Samuel Romano dei Subsonica sembra l’ideale ispirazione della linea melodica su cui viene intonato il testo e non che il cantante della band torinese non sia un buon esempio stilistico nel genere, ma, diciamocelo, ha anche un po’ rotto. A “Sometimes” mi sembra già di sentire una cover di una cover, mentre “Sixteen” ricorda particolarmente “Architecture” dei Manor, che, se avevano conquistato il mio interesse con “Afghan Hound”, con quell’ultimo singolo stantio anni 80, se l’erano giocata completamente. L’album chiude con “Julesdormeinberlin”, brano riflessivo, quasi interamente strumentale, un prologo ideale e azzeccato per un album nel complesso né sgradevole né particolarmente pregevole. I Wolther Goes Stranger si ascoltano una volta da disco e una volta dal vivo, se proprio capita, per dare una seconda possibilità e, per il resto, nulla più.

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I 10 peggiori personaggi incontrati ai live estivi! Ci sei anche tu?

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Ed è finita un’altra stagione di concerti e festival, nonostante i tagli siano stati numerosi e abbiano ridotto di molto i live “delle grandi occasioni”. Non resta che programmare i concerti al chiuso che vorremmo andare a vedere nell’interminabile autunno-inverno e, nel frattempo, ricordarci la spensieratezza dell’estate. I pantaloni corti, le tipe in bikini e stivali anche a luglio perché gli stivali fanno Rock, le zanzare, la birra sempre sciacqua e sempre cara, il sudore del barbuto metallaro di fronte a noi, perché c’è sempre un metallaro a qualsiasi concerto, di qualsiasi genere e i rompicoglioni. E già… perché sì sì, che bello il live come momento di condivisione di una passione, sì sì che bello ritrovarsi lì, nello stesso posto, noi e centinaia di altre persone comenoi. Cazzate. Non ce la meniamo. A ogni concerto che si rispetti c’è sempre qualcuno con cui ciascuno di noi pensa di non avere proprio niente a che spartire. Esattamente come quando siete nella vostra spiaggia libera a leggere l’ultimo saggio che vi appassiona e di fianco a voi c’è quella che legge i romanzi Harmony o Novella 2000. O proprio come quando al mare siete lì a cercare relax e pace al largo, pensando a quanto sia bello farsi accarezzare dalle onde leggere e dal sole ma sentite dal bagnasciuga gente che impreca, starnazza o semplicemente passeggia con musica improponibile, a un volume improponibile che esce dal proprio smartphone, rigorosamente senza cuffie, così che tutti gli astanti possano compartecipare al cattivo gusto artistico del soggetto in questione.  Ai concerti è uguale. L’inopportuno, il rompicoglioni, quello che crede d’essere nel posto giusto e che magari si atteggia anche a grande frequentatore, grande appassionato, grande cultore e non ha mai imparato un minimo di etichetta. O quanto meno il vivere civile. Vogliamo ricordarli con voi, stilando un breve elenco che non vuole essere una classifica, ma solo una carrellata di macchiette da live con cui sicuramente vi sarete imbattuti anche voi. Così il quadro dei ricordi della nostra estate musicale può essere veramente completo. Eccoli:

1)      Il fotografo o cameraman raffazzonato che invece di guardare il concerto passa tutto il tempo con la macchina fotografica o il cellulare alzato impedendo anche a te di godere dello spettacolo. Nelle situazioni di scarso pubblico, alcuni s’improvvisano fotografi ufficiali piazzandosi nei posti più improbabili sul e vicino al palco.

2)      L’organizzatore di eventi che a fine concerto, palesemente ubriaco, blocca il cantante e ufficializza con contratto verbale una data a costo zero nel suo paesino, il prossimo anno, per la festa del patrono.

3)      Il fan che le sa tutte, le canta tutte, le canta male e, nelle pause, urla come una groupie di Justin Bieber in preda a crisi d’overdose. A fine concerto si lamenterà perché non hanno fatto il suo pezzo preferito nonostante per tutta la durata del live avesse suggerito la scaletta alla band, urlando il nome delle canzoni.

4)      L’indifferente e/o infastidito che dà le spalle al gruppo, rompe i coglioni chiedendo come possiamo apprezzare certa “roba”, sbuffa, si annoia ma dentro sta male perché vorrebbe scatenarsi anche lui. Non lo fa perché distruggerebbe la sua immagine di indie snob. Tende a sviare quando gli si chiede che cazzo ci sia andato a fare al concerto. Al limite risponde di aver avuto un accredito o di aver accompagnato qualcuno.

5)      Il giornalista. Ha avuto l’accredito stampa. Sta lì impassibile, passando il tempo a guardare ogni minimo movimento delle dita del bassista e giudicando ogni nota. Scatta al massimo un paio di foto che allegherà a un articolo, non balla, non ride, non può divertirsi. Lui sta lavorando. Ovviamente gratis.

6)      L’ubriaco che non ha neanche idea di chi stia suonando. Urla a caso, canta a caso, balla e poga a caso, litiga con quelli vicino, inveisce contro la band, sputa, suda (rigorosamente in canotta o a petto nudo) e ogni tanto vomita. Qualche volta è portato via dai buttafuori o da un’ambulanza.

7)      Lo spaesato. Ce l’hanno portato. Non voleva venire. Spesso è la ragazza o il ragazzo del fan. Non sa chi stia suonando e non sa nulla di musica che vada oltre Tv Sorrisi e Canzoni. Di solito ascolta la Pausini, Emma o Malika Ayane ma gli amici o il/la fidanzato/a non volevano lasciarlo/a solo/a di sabato.

8)      Quello che ci deve stare. Mocassino firmato viola, calzino leggero, pantaloncino lungo bianco, cinta a riporto, camicia di lino slacciata, petto abbronzato e depilato in bella vista, barba finto incolta e sorriso da piacione con cocktail in mano, per tutta la sera. Poteva suonare Gg Allin o i Pooh, lui sarebbe stato col gomito appoggiato a quel bancone.

9)      Il reduce degli anni 80 (anche 70). È sempre il più vecchio della serata, leggermente in sovrappeso; indossa una t-shirt di una vecchia band abbastanza nota ma senza esagerare. Ramones, Dinosaur Jr, Joy Division. Di solito è solo perché i suoi amici hanno famiglia, non beve troppo, non balla troppo, non si diverte troppo.

10)   Il commentatore. Ce ne sono di due tipi. Uno che parla bene di tutto e uno il contrario. Ti si piazzano di fianco e ti raccontano tutto sulla band, sulla serata, sul gruppo spalla, sulla loro vita, sulle loro passioni. Intervallano i momenti di semplice cronaca a considerazioni su quanto sia figo l’ultimo disco del gruppo, su quanto siano stati innovativi i riff del chitarrista o al contrario, si lamenta per il costo della birra, per l’assenza di parcheggi. Comunque, non sta mai zitto.

Sono anche loro che rendono speciale l’esperienza di un live che sia di un supergruppo o di una sconosciuta band Indie di Pavia. Ma inutile fare tanto i superiori, se leggi tra le righe, uno di questi dieci sei tu. Che numero sei? Io un misto tra cinque e nove.

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Filmare i concerti coi cellulari? È da cazzoni!

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In una piccola video-inchiesta di NME, alcuni musicisti sono stati intervistati circa la loro opinione sulla moda vigente di filmare o fotografare concerti per la loro intera durata. Tra gli altri (Miles Kane, Foals, Alt-J), Johnny Marr è quello che c’è andato più pesante, definendolo «un atteggiamento da cazzoni» e «una perdita di tempo», che distoglie completamente l’attenzione dal momento che è la vera essenza del live. Come dargli torto. Non importa, infatti, quale sia l’artista sul palco, non importa la location, non importa che l’uomo con lo smartphone sia in prima, seconda, ennesima fila o gradinata che tenga. Non importa che si stia seduti, in piedi, larghi, stretti tanto da avere addosso il dna di tot persone sconosciute sotto forma di sudore, impronte digitali, capelli. Non importa che sia un concerto meditabondo o da pogo. Non importa che si abbia in mano un telefono con una fotocamera da 2 megapixel (la stragrande maggioranza) o una compatta che passa i controlli ma ha uno zoom digitale coi controcoglioni che anche se sei dietro il mixer riesci a riprendere persino i punti neri del tuo beniamino (roba per pochi eletti, nerd patologici del caricamento del dayafter su YouTube).

La situazione si ripete sempre. Tu vai a un concerto, paghi un biglietto, sei di un’altezza media e non basta che puntualmente tu davanti abbia lo spilungone due metri di altezza per due metri di spalle con ragazza al seguito che comunque si erige quei dieci centimetri buoni più di te. No. Da quando siamo entrati nell’era smart, social o semplicemente in quella dell’esistenza attestata non dall’ontologia ma dal post, ai concerti non si alzano le mani con le corna, con l’indice dritto, con il pugno. Non si ondeggia, non si poga, non si salta (se non per sovrastare l’uomo col prolungamento telefonico). Ai concerti si filma. O si fanno centomila foto tutte uguali perché il raggio d’azione di gente pressata tra la folla di un live non permette certo varietà di tagli e inquadrature. Il risultato poi è, nelle migliori occasioni, una registrazione di qualità bassina, o per immagine o per audio, che il giorno dopo – se non addirittura dopo poche ore – si può rintracciare su YouTube. Oppure un bell’album fotografico pieno di pixel tra i quali dovresti intuire che il tuo amico di social network è stato a un concerto della madonna che tu ti sei perso. Ah, bella roba. Additato come uno dei comportamenti più noiosi che si possano tenere durante un live dalla rivista Rollingstone (insieme all’urlare per tutto il tempo il titolo del pezzo che si vuole sentire, ubriacarsi come se non ci fosse un domani e a fine concerto lamentarsi perché il brano per cui si era andati non è stato suonato), abbiamo pensato di chiedere un’opinione a chi sta anche davanti e non solo dietro le macchine fotografiche in questione, ovvero ad alcuni musicisti del panorama indie ed emergente nostrano.

 

Danilo De Nicola (The Incredulous Eyes): “Liberi di farlo, anche se le emozioni devono essere sonore, quelle che ti rimangono dall’ascolto; quelle sono insostituibili. Se stai tutto il tempo a riprendere non so che ti rimane veramente della musica che ascolti. Forse e’ anche un modo del pubblico di essere protagonisti.”

Francesco Capacchione (The Last Project): “Parto dal presupposto che ero uno di quelli che voleva il ricordo del concerto, quindi filmavo di tutto, fino a che mi son detto “tanto c’è qualcuno che lo metterà su youtube” e da li non filmo più nulla, penso a godermela e me la salto, me la canto, me la ballo. Se ti metti a filmare non ti godi nulla.”

Andrea Di Lago (Le Fate Sono Morte): “Da una parte per noi emergenti può esser un modo per darci più visibilità dall’ altra parte si fa meno casino rispetto ad anni fa; per ora rimango un po’ a favore, è pur sempre un modo nuovo col quale lo spettatore dimostra il proprio gradimento. Io per primo non riprenderei mai qualche artista che non stimo.”

Luca Brombal (Lazy Deazy): “Penso la stessa cosa delle persone che passano la propria vacanza a fotografare qualsiasi cosa: con la smania di documentare e di poter rivivere quei momenti non li vivono nemmeno!”

Fabrizio Giampietro (Christine Plays Viola): “Mi sembra la moda del momento. Una volta nei concerti la gente era totalmente rapita dalle emozioni, pogava, ballava si lasciava trasportare dalla musica. Ora invece sono diventati tutti registi. Nessuna telecamera o cellulare ti darà mai la possibilità di catturare quei momenti e riviverli con la stessa intensità a casa tua o altrove. Secondo me in questo modo si perde l’essenza del live e a casa ti riporti solo una sbiadita testimonianza digitale.”

Eugenio Rodondi: “Probabilmente ci troviamo in un momento in cui consideriamo una cosa esistente e reale solo se possiamo dimostrarla agli altri. Dunque solamente se viene filtrata e catturata da un video o da una fotografia, e tendenzialmente pubblicata su social network. La concezione del ricordo di un emozione sta prendendo una deriva insolita. Direi che si tocca il paradosso quando si riprende un concerto puntando il cellulare sul megaschermo. Se un concerto te lo godi immergendoti nella serata e utilizzando una buona dose di concentrazione, quel ricordo sarà sicuramente più valido di una riproduzione figurativa.”

Giacomo Ficorilli (Remains in a View): “Io sono uno di quelli della vecchia generazione , che vanno ai concerti solo per ascoltare buona musica e pogare quando ne capita l’occasione. Purtroppo i tempi sono cambiati e i ragazzi di oggi, ossessionati dalla tecnologia e dai social network che ti permettono di far sapere cosa stai facendo e dove, non sanno più apprezzare il fascino di un concerto e tutte le emozioni che ti può trasmettere una band dal vivo; io consiglio alle nuove generazioni di fare una bella foto e poi godersi il concerto a pieno piuttosto che passare la serata con il cellulare in mano!”

Alessio Premoli: “Prenderei la cosa da due punti di vista. Chi riprende e chi è ripreso. Nel primo caso è un fatto tutto personale. Se qualcuno ha il desiderio di passare tutto il concerto a registrarsi un video, ben venga: personalmente preferisco godermi lo show interamente, lasciarmi travolgere e coinvolgere dallo spettacolo. Questa attività può avere una sua utilità: documentare un live per chi non ci è andato, dare un assaggio dello show a chi vorrebbe andarci, ma è ancora indeciso. Questo atteggiamento ha una sua utilità “sociale”. Nel secondo caso ci sono un migliaio di sfaccettature diverse. So di molti artisti che non tollerano sapere di essere registrati. E molti li capisco. Mi riferisco a personaggi come Brad Mehldau (che prima di ogni live chiede di non fare video nè fotografie) o come Keith Jarret. Il jazz è una musica improvvisata, volubile e temporanea per natura. La sua anima è l’improvvisazione e, specie quella live, tale vuole rimanere: una conversazione senza schema, su strutture minime e con possibilità infinite. Per altri non voglio pronunciarmi: ogni artista ha il diritto di chiedere determinate condizioni quando suona dal vivo, il punto di incontro sta sempre a metà tra la ragionevolezza di quest’ultimo e il rispetto del pubblico.”

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Gilberto Gil

Written by Live Report

25 luglio @Zoom Park – Cumiana (TO)

Certo che scegliere lo Zoom Park di Torino, una specie di zoo fighetto con piscina per i visitatori, aree ristoro con noodles orientali preparati con prodotti a Km zero, per far suonare un artista bahiano e nero, può sembrare più attinente a una qualche festa leghista che altro. In realtà lo Zoo ha organizzato, per l’estate 2013, una serie di eventi live, sfruttando il super kitsch anfiteatro mezzo savana africana e mezzo architettura Maya: sul palco si sono già alternati Marlene Kuntz e Vinicio Capossela e, oltre a Gilberto Gil, si attende lo spettacolo di Morgan per gli inizi di agosto. Insomma. Niente di razzista.

Il prezzo del biglietto (39€ più diritti di prevendita) non ha sconfortato il pubblico, numeroso, per lo più composto di over 40 e brasiliani trapiantati in Piemonte, chiassosi, colorati, sudaticci. Gilberto Gil esce tra gli applausi degli astanti e si ha subito l’impressione di essere a un meraviglioso evento. Il padre del Rock brasiliano, uno dei tropicalisti che sfidarono la dittatura a colpi di ritornelli orecchiabili e sfrontati, sperimentatore di tanti generi musicali diversi quanto di tante droghe diverse, apre il concerto con “Fé Na Festa”, “Dança da Moda” e “Assim Sim”, un vero inno al sé in cui tutto il pubblico manifesta la sua presenza e la sua partecipazione. Gil si accompagna a un paio di pregevolissimi e giovanissimi musicisti: il violista e il fisarmonicista non avranno neppure trent’anni, ma mostrano fin da subito un’affinità con lo spirito del bahiano e una passione sul palco, che scavalcano la loro pur grande competenza tecnica.

Impressiona vedere un mostro sacro della musica affidare la sua produzione con tanta scioltezza a due poco più che ragazzini. Impressiona e causa stima. Sono passaggi di testimone simbolici, che attestano quanto sia più importante preservare il patrimonio musicale che lasciarsi andare a divismi e personalismi. Il concerto prosegue in una vera e propria lezione sulla MPB, la música popular brasileira, dai samba tradizionali al choro, dalla bossa nova alla embolada. E così la scaletta continua con “Oi Eu Aqui de Novo” e “Sao Joao Carneirinho” ed “Expresso 2222”, il brano che segnò il ritorno in patria di Gil da eroe della libertà dopo la dittatura. Gilberto Gil non manca occasione, come sua abitudine, di rendere omaggio a Bob Marley intonando “Three Little Birds” e la versione portoghese di “No Woman No Cry”, “Nao Chore Mais”. Classe 1942, il bahiano è magrissimo, drittissimo, sorridente e in una forma fisica smagliante. Accenna passi di samba, si avvicina al pubblico, stringe mani, tocca le bandiere del Brasile che gli vengono porte. E canta con una voce che non ha mai nessun tentennamento, nessuna incertezza: “Vamos Fugir”, “Andar Com Fé”, “Lamento Sertanejo”, “Casamento da Raposa” e la meravigliosa “Asa Branca”, scritta dal duo Cavalcanti-Gonzaga e già riportata in voga alla fine degli anni ’60 da quel Caetano Veloso con cu Gil ha diviso i primi anni di attività, la prigione, l’esilio europeo.

Per me, che ho fatto la tesi di laurea sul Tropicalismo, è stato come vedere concretizzato quanto ho solo letto sui libri, quanto sono riuscita solo a sentire da cd. Gilberto Gil racchiude in sé il misticismo del culto yoruba, il rispetto delle tradizioni, la sincretica sovrapposizione di generi e stili propri del Brasile, su cui ha innestato, fra i primi, il Rock anglo-americano, in una continua ricerca durata quasi cinquant’anni e che ancora non accenna ad arrestarsi. Felice di poter dire: io c’ero.

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La Band Della Settimana: CosaRara

Written by Novità

Il progetto CosaRara nasce nel 2005 e ha visto l’avvicendarsi di diversi musicisti.
L’attuale formazione è composta da:
Andrea Onesti, chitarre
Francesca Goria, tastiere,synth,sampler
Piolo Aluffi, basso
Maurizio Pinna, batteria

Le radici del gruppo sono legate principalmente al Progressive Rock psichedelico anni ’70, ma la vena progressiva li porta inevitabilmente ed innovativamente ad aprirsi verso la musica più attuale, sfumando anche nell’ Elettronica.

Da ricordare tra le passate esperienze live: Fraskettando 2006 (apertura ai Soft Machine), Il Maltese di Cassinasco, Ok Fest di Alba, Diavolo Rosso di Asti, Indie(a)volato Fest, etc..

Ep 2011

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Pig Tails – So What

Written by Recensioni

Due ragazzi di Mantova. Solo due. Niente basso, niente seconda chitarra. Un organico ridotto all’osso, col cantante che suona anche la chitarra e il batterista. Questi sono i Pig Tails, che hanno dato alla luce So What, il loro full lenght composto di dieci tracce, oscillanti tutte tra il Punk americano e il Grunge anni ’90. Energia da vendere, indubbiamente, come si intuisce già da “Spitfire”, brano modellato sulle sonorità Garage con chitarre anni ’70 e un retrogusto pop, un po’ alla White Stripes.

È con la title-track “So What”, però, che si delinea meglio lo stile del duo: un bel Punk’n’Roll graffiante, su cui si muove la linea vocale dalla timbrica chiara seppure urlata. Particolarmente interessante in questa traccia è la perizia strumentale: i due ragazzi sono davvero molto bravi anche nella ricerca timbrica. “Papercut” e “The Revolution” sono profondamente in debito con i primissimi album dei Green Day quelli delle distorsioni, dei pantaloni al ginocchio e delle scarpe da skater, non certo quella copia patinata di loro stessi che sono ora. Con l’intro di “I Promise”, invece si evidenzia un certo gusto per la dissonanza che ricorda le esperienze del Grunge dei Nirvana di Incesticide, con un cantato più trascinato che lanciato: la ballad finisce però presto per diventare un po’ noiosa e ripetitiva, meritandosi in poco tempo l’etichetta di pezzo meno riuscito del disco.

Per fortuna parte “Stonecutter II” con il suo bel riffone Seventies: il brano potrebbe non essere davvero nulla di speciale, ma gli effetti usati alla voce allontanano dall’Hard Rock tradizionale e lo stacco improvviso che muove verso il Grind rendono la canzone ulteriormente originale. Lo stesso si può dire della successiva “We Can’t Fall”, mentre con “Too Bad” si torna al classico Punk-Rock. La chitarra di “Reptiles” richiama di nuovo il Grunge, ma quello degli Alice in Chains questa volta, e il disco si chiude con un nuovo richiamo ai Green Day, con la tripartita “I’ll Be Here”.

I Pig-Tails giocano con la forma canzone, scombinando le canoniche relazioni e apparizioni delle strutture strofiche e dei ritornelli, mescolando i generi, allargando le maglie di compenetrazione degli stili. Solo sono due e sembrano tanti e hanno i numeri per poter dire qualcosa. L’impressione è che, al momento, stiano esplorando un terreno in cui già molto è stato detto così tutto suona già sentito, ma l’augurio è quello di individuare un taglio più personale, che, supportato dall’indubbia capacità tecnica, non potrà far altro che portare un po’ di fortuna.

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Sigur Rós – Kveikur

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Questa recensione non è assolutamente semplice. Ho dovuto ascoltare Kveikur, l’ultimo disco dei Sigur Rós, uscito praticamente un anno dopo Valtari, almeno sette volte in giorni diversi e momenti diversi, prima di potermi avvicinare al foglio di Word. E ho letto in giro cosa se ne pensasse per capire se ero io che non coglievo certe sfumature o se semplicemente tra i fans e tra gli esperti non ci fosse un po’ di sano servilismo. Come a dire: questi sono dei grandi, non possono che sfornare l’ennesimo capolavoro. “La sferzata Rock degli Islandesi”, “Dopo aver indagato il cielo eccoli che scandagliano l’inferno”. Ne ho lette veramente per ogni colore, ma ancora adesso non riesco a districarmi tra la mole di informazioni raccolta e l’impressione diretta che ne ho io all’ascolto. “Brennisteinn” semplicemente non sembra farina del loro sacco: la struttura è molto più canonica, le singole componenti (e soprattutto la batteria), sembrano prese da un qualsiasi gruppo indie-rock che non si scula nessuno o quasi. Manca quella sensazione di artificio elettronico comandato dall’uomo, quella sacralità di ogni movimento melodico a cui ci hanno abituato con i lavori precedenti. Persino la voce di Jonsi non sembra più la stessa. “Hrafntinna” è semplicemente debole e fortuna che “Ísjaki” e “Yfirborð” sembrano riportarci in un universo sonoro più noto e sicuro, per quanto il ritornello della prima suoni troppo troppo Pop. Anche “Stormur”, non fosse per una tendenza danzereccia che proprio non è da loro, potrebbe essere un bel brano, ma, davvero, sono le percussioni a essere strane in questo disco. E non ci trovo niente di terreno, non sento il tentativo di un’esplorazione del basso, dell’infernale, dell’interno, in contrapposizione ai voli pindarici ed eterei precedenti. Sento una patina Indie-Pop che stride con le mie aspettative. Solo la title-track, “Kveikur”, sembra confermare la lettura di chi sente una virata Rock nel disco. Più industrial, a dire il vero. E anche un industrial piuttosto malato e visionario. “Rafstraumur” è scontata, “Bláþráður” è sintetica, “Var”, invece, è meravigliosa, la prosecuzione ideale dell’ “Ég anda” che apriva Valtari. Ce l’hanno lasciata lì, al fondo, come la promessa di un ritorno, come a dire che questa era una prova, una parentesi, un esperimento e che torneranno. Senza farsi schiacciare dai loro stessi strumenti, senza bisogno di appigli pulsionali e scansioni ritmiche così rigide, senza dare l’impressione di essersi persi nei confini netti di strofa-ritornello.

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Pills nädal kakskümmend kolm (consigli per gli ascolti)

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“Le Pills rappresentano il piacere che la mente umana prova quando gode senza essere conscia di godere.”

 

Silvio Don Pizzica
Surfer Blood – Pythons    (Usa 2013)   Power Pop, Alt Rock     3/5
Un disco freschissimo, estivo e con melodie eccezionali. Perfetto per accompagnarvi per i prossimi tre mesi. Pop in salsa Smiths, Vampire Weekend e Strokes ma nessuna idea che possa dirsi minimamente nuova.
Human Thurman – Bye Bye Umani   (Ita 2013)   Alt Rock    3,5/5
Un disco che può sembrare confusionario per la moltitudine di influenze e diverse scelte stilistiche utilizzate ma che, con gli ascolti, rivelerà essere proprio questa sua diversità di spirito il punto di forza.

Max Sannella
Soul Asylum – Hang Time   (Usa 1988)   Rock  4/5
La favola di 4 adolescenti di Minneapolis che trovano l’asse personale sulla via degli Husker Du.
Soul Coughing – Ruby Vroom   (Usa 1994)   Ibrid Rock   4/5
Background dalle forti tinte off, un art rock accattivante quanto sperimentale. Seminali.
The Style Council –  Cape Bleu   (Usa  1984)    Pop Wave   3/5
Spregiudicatezza e nuovi sodalizi stilistici per una band retrospettiva e dal grigio doc.

Maria Petracca
The Muse – Showbiz   (Uk/Usa 1999)  Alternative Rock   4,5/5
Le origini. Il primo album in studio. Quando le chitarre distorte di Matthew Bellamy arrivavano come lance appuntite al petto, e là rimanevano, immobili. Sospese tra stupore e dolore.

Lorenzo Cetrangolo
Brunori Sas – Vol. Uno   (Ita 2009)   Cantautorato, Pop   4/5
Vincitore della Targa Tenco come miglior esordio, il Volume Uno (autobiografico, per la maggior parte) del cosentino Dario Brunori ha fissato su disco lo standard cantautorale “vintage” di questi anni: canzoni semplici, arrangiamenti retrò, recording lo-fi. Da suonare sulla spiaggia.
Transplants – Transplants   (Usa 2002)   Rapcore, Hip Hop   4/5
Piccolo gioiello a metà strada tra punk e hip hop, una creatura ibrida (un “trapianto”) che vede Travis Barker di Blink-iana memoria alle pelli e un caleidoscopico Tim Armstrong (dai Rancid) a quasi tutto il resto. Il disco scivola che è un piacere tra beat californiani, ironia sopra le righe e durezza da ghetto.
AFI – Sing The Sorrow   (Usa 2003)   Alternative Rock, Post-Hardcore   3,5/5
Gioiellino da quella scena americana di punk preciso, melodico, pettinato, un po’ plastificato. Alcune idee ingolosiscono (“Death of Seasons”), altre ci lasciano un po’ interdetti. Se siete rocker (o punx) duri&puri, girate alla larga.

Marialuisa Ferraro
Foals – Holy Fire   (Uk 2013)   Alternative   5/5
Praticamente da sola la tripletta Inhaler, My Number e Bad Habit fa la forza di quest’album. Suggestioni diverse per genere, ispirazioni, contenuti letterari, sensazioni.
Queens of The Stone Age – …Like Clockwork    (Usa 2013)   Stoner Rock    2/5
Ssssse. A me loro non fanno impazzire e ok, sarò partita prevenuta, ma questo disco pretende di essere ruffiano per piacere un po’ a tutti e finisce per non piacere a nessuno, per di più mi trasmette davvero molto poco…

Ulderico Liberatore
Gary Wrong – Knights of Misery   (Usa 2013)   Total Punk   4/5
Stufi delle solite canzonette Pop Punk?! Ecco una band singolare che potrà resuscitare in voi lo spirito
lo spirito antagonista e anarcoide distrutto dai Green Day.

Diana Marinelli
Genesis – Foxtrot   (Uk 1972)   Rock Progressivo   5/5
Bellissimo Rock targato Genesis per un album emblema degli anni settanta. Oltre che a consigliarne l’ascolto mi permetto di consigliare anche di ascoltarlo su vinile.
Myranoir – Ely è Leggiera   (Ita 2013)   Dark Psichedelico, Ambient   3/5
Myranoir nella realtà è Valentina Falcone, musicista che scrive musica dall’età di quattordici anni. Una musica Cantautorale, Psichedelica, con una puntina di Dark e soprattutto coraggiosa nell’affrontare temi importanti come l’anoressia.

Simona Ventrella
Fine Before You Came – Come Fare a Non Tornare   (Ita 2013)   Post Rock    4/5
Dopo una pausa di circa un anno e mezzo il quintetto milanese ritorna con un mini-album. Cinque brani che svelano una nuova veste del gruppo, più matura, cruda e ricca. Il disco è scaricabile gratuitamente dal loro sito, un motivo in più per ascoltarlo.
Omosumo –  Ci Proveremo a Non Farci Male   (Ita 2013)   Elettro Rock   3,5/5
Progetto b-side per Dimartino, Roberto Cammarata e Angelo Sicurella, che si cimentano in questo EP con attitudini e sonorità distanti dalle forma canzone ai quali siamo abituati. Elettronica , synth, chitarre indiavolate e ritmiche da dancefloor, e un bellissimo video del brano omonimo, tutto direttamente da Palermo.

Marco Lavagno
Goo Goo Dolls – Magnetic   (Usa 2013)   Pop Rock   2,5/5
Più ottimista e diretto del precedente “Something For The Rest of us”, ma anche più gommoso e molle. La formula spesso vincente questa volta si infrange in uno scontato sorriso. L’onestà per fortuna rimane intatta.
Lucio Dalla – Canzoni   (Ita 1996)   Pop, Cantautorato   3,5/5
Anche nei momenti meno ispirati Dalla tira fuori interpretazioni come “Ayrton” (pezzo scritto da Paolo Montevecchi). E con estrema naturalezza il pilota ora vola in cielo e persino il suo bolide prende corpo. Una di quelle canzoni per cui vale la pena comprare un album.

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Turin Brakes

Written by Live Report

14 Giugno 2013 @ San Damiano d’Asti

La cornice scelta per l’unica data italiana dei Turin Brakes è la piccolissima cittadina di San Damiano d’Asti, in Piemonte, in occasione del Fuori Luogo Festival, una tre giorni di letteratura, cibo e musica che le Officine Carabà hanno ideato l’anno scorso. L’idea fondante che traspare subito, è quella di avvicinare i giovani al proprio territorio, alla cultura enogastronomica di una regione che su questo aspetto ha molto da offrire, offrendo anche loro show di qualità di ospiti internazionali, per altro gratuiti. Certo, alla sola seconda edizione ci sarà ancora probabilmente molto da apprendere, modificare, progettare, ripensare, ma il progetto è coraggioso e ha buone prospettive di fronte a sé, difendendosi con dignità in un panorama in cui persino i più grossi festival faticano a completare una line up e fanno che annullare tutta la manifestazione. L’edizione del 2013 del Fuori Luogo si è aperta il 14 giugno, proprio con l’esibizione dei Turin Brakes. Un po’ troppo forse per una provincia di hipster per moda e indie snob annoiati. Così snob che sotto il palco ci saranno state sì e no trecento persone, ridotte particolarmente in fretta ad ogni brano eseguito dalla band (e non perché fosse tardi, visto che la band ha suonato un’oretta dalle 23 alle 24 e la piazza adiacente, quella con gli stand di cibo e bevande, per capirci, era gremita di primi vestitini da bancarelle indiane, calzoncini corti e sandali).  I Turin Brakes non sono certo dei mattatori da palco, l’estate che ha tardato ad arrivare avrà fatto uscire di casa un sacco di sprovveduti, accorsi per l’occasione festaiola e per la gratuità del concerto e probabilmente ignari di ciò che avrebbero trovato sul palco.

Cosa c’era dunque sul palco? Una band poco calorosa e anzi proprio tendenzialmente freddina, con una grande competenza tecnica e un ottimo gioco dialogico delle linee melodiche, ma pressoché immobile, silenziosa perché probabilmente frenata dalla differenza linguistica, riflessiva, intima ma in modo poco empatico. Il concerto si apre con Time and Money, brano inedito che dovrebbe essere inserito nel nuovo album (la cui uscita è prevista per il prossimo agosto) e prosegue con Stalker, Oblivion ed Emergency 72. Solo la prima fila sembra particolarmente entusiasta di ciò a cui sta assistendo, ma per il resto del pubblico arriva la cover di Wicked Game, che, per lo meno, han già sentito da qualche parte.

Il concerto prosegue, senza troppi momenti di particolare pregio con Rescue Squad, Mind Over Money e la bellissima e freschissima Painkiller. E a questo punto è bene spezzare una lancia a favore del pubblico e fare una seria critica alla band: pulitissimi da disco, perfetti, particolari pur nel loro essere comunque uguali a centomila altri gruppi, i Turin Brakes dal vivo mancano di appeal, di verve, di energia. Persino la vocalità nasale del cantante, elemento che lo distingue per esempio da una formazione come i Kings of Convenience, con cui condividono sensibilità e costruzione della forma-canzone, viene meno. E la delusione in me è tanta che mi perdo persino l’esecuzione di Fishin’ For a Dream. Mi riprendo praticamente solo per Underdog, con momenti improvvisativi in cui finalmente sul palco qualcosa si muove, e la chiusura con Slack. Probabilmente quanto ho scritto non sarà condiviso dai presenti, ma mi aspettavo davvero tutt’altro. L’augurio è che almeno un nome di respiro internazionale come quello dei Turin Brakes porti un po’ di lustro alla manifestazione crescente. Sicuramente, invece, consiglio di continuare ad ascoltare la band da disco, anche se vi suonano praticamente sotto casa e gratis.

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