Marialuisa Ferraro Tag Archive

A Step To Delirium – First Step BOPS

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Registrato presso il Raw Tape Studio di Perugia, il primo Ep della band, First Step, si presenta come un lavoro ben concepito, strutturato ed elaborato sul piano tecnico. Con chitarre sanguigne, attitudine blues e tanto tanto hard rock, i quattro presentano un sound che cavalca l’onda gloriosa di band che hanno fatto la storia del genere, con un riferimento immediato e costante ai Led Zeppelin. La lezione è appresa così bene che A Step To Delirium pecca della gravissima mancanza di originalità: non c’è nessun elemento nuovo, nessuna rilettura, nessuna innovazione, neppure nella quotatissima e ruffianissima cover di “Helter Skelter” che infilano nel disco. Un primo passo, come dice il titolo stesso, senza dubbio, ma mosso semplicemente sul posto.

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Absolut Red – A supposedly Fun Thing We’ll Probably Do Again

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“Non sarò solo una copia se saprò essere te” cantava il leader dei braidesi Mambassa qualche anno fa e io devo ancora capire come si possa applicare questa frase agli Absolut Red. Appropriarsi di qualcosa attraverso l’imitazione e saperlo fare proprio non è un fatto semplice in ambito musicale. Si rischia sempre di essere tacciati di scarsa originalità, di già sentito. E la band di Sasso Marconi effettivamente suona come già sentito fin dalla prima traccia, “Embriology”, in cui i riferimenti a un certo alternative rock americano dei primi Duemila si delineano subito attraverso l’uso di chitarre chiare e cristalline che eseguono melodie composte e raffinate. “Occasion” apre con un riff semplice ma incisivo, dal sapore molto Nineties, che lascia spazio a brevi incisi strumentali che dialogano creando un tappeto ideale a una voce che spesso si lascia andare a falsetti sullo stile dei Muse di Showbiz (non di quella porcata tamarra che sono diventati adesso). E già a questo punto si capisce che gli Absolut Red prendono a piene mani dagli Strokes. Ma tanto. Anche in “A Love Story From Outer Space”, una ballata con un momento chitarristico delicatamente blues, le agogiche e il timbro vocale ricordano l’uso della voce di Julian Casablancas. Mio dio, in Italia c’è qualcuno che sa suonare così: è davvero entusiasmante rendersi conto che è possibile anche dalle nostre parti fare un rock gustoso, serio, meditato a livello fonico ma non necessariamente ingessato, politico, incazzato.

Ma in “90’s Call”, quando ci si rende conto che gli Absolut Red non muoveranno passi in superamento della loro primaria ispirazione, quasi viene da chiedersi perchè non ascoltare gli originali e farla finita. “Sunday” mostra la bravura tecnica sopratutto della sezione ritmica, con un basso quasi didascalico che esegue passaggi tecnicamente didattici, così come emerge in “Life in Black and White”. “Bathroom Wishlist” è scanzonata e apparentemente leggera, ben sostenuta ritimicamente, al punto di sembrare, a tratti, un surf rallentato. “African Savannah” ha stacchi netti e aperture di gusto, ma, ancora un volta mi chiedo cosa mi stiano lasciando questi ragazzi. Probabilmente tanta voglia di finire di scrivere e far partire “I’ll try anything once”.
A Supposedly Fun Thing We’ll Probably Do Again è un esordio felicissimo per una giovane band nostrana, a cui non posso che augurare, però, di riuscire a rintracciare un sound molto più personale e di elaborare criteri compositivi che, pur guardando al panorama internazionale, li allontanino dall’essere semplicemente copie e rendano il giusto merito alla bravura tecnica degli Absolut Red.

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Gli Ebrei – Disagiami

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Gli Ebrei sono una band che parla veramente poco di sé ma sa decisamente stare sulla bocca di esperti e appassionati del settore. Una biografia stringatissima che va all’essenziale: arrivano da Fano, suonano insieme da poco più di due anni, pubblicano un primo lavoro per Sinusite Records che viene poi ripreso da Wallace Records e ristampato in vinile, in edizione limitata, e ora, per la Tannen Records, producono Disagiami, un Ep di sei tracce che si susseguono senza respiro e che è stato lanciato prima dalle pagine web di Rockit e ora è in download gratuito al prezzo di un retweet su Twitter o di una condivisione su Facebook. Una forma di pubblicità nuova che potrebbe rivelarsi una buona strategia di marketing, più dell’ormai apparentemente obsoleto download gratuito da iTunes e probabilmente già più immediato dell’ascolto su Spotify.

Comunque. Sei tracce vi dicevo. E un sound tendenzialmente garage con sferzate noise alla Sonic Youth e una registrazione molto molto sullo stile del più recente indie americano (e parzialmente inglese). Di quelle con chitarra, basso e cassa davanti a tutto e la voce indietro, da doversi sforzare di sentire bene cosa dice il cantante, perché la linea vocale viene trattata al pari degli altri strumenti. “Opportunità” ha un incipit molto sullo stile dei Franz Ferdinand, anche per il trattamento vocale, che pure ha tratti propri dato che articola un testo in italiano. Dopo uno stacco che ricorda neanche troppo vagamente i Marlene Kuntz, il brano cambia colore, diventa più aggressivo, sullo stile dei Linea77. La title-track, “Disagiami”, risente dell’influenza della new-wave: le sonorità si fanno più cupe e il canto di Matteo Carnaroli, soprattutto, assume quella costruzione melodica caratterizzata da una voluta incertezza nell’intonazione delle note acute, che dà un particolare tocco emotivo, noir, fumoso, istintivo. Decisamente più ironica e scanzonata è l’atmosfera di “Strage di Pasqua”, traccia surf da cui emerge la bravura tecnica del bassista Andrea Gobbi, capace di soluzioni semplici ma di grande gusto. “Scatola Nera” è un brano squisitamente post-punk di poco più di due minuti in cui la vera protagonista è la pura esaltazione del rumore guidato, meditato, studiato, soggiogato. Il noise viene contenuto invece in “Strumentale”, penultima traccia nuovamente d’ispirazione inglese (stile Milburn, per intenderci), che lascia poi spazio all’indie puro di riff semplici e incisivi alla Yuck, esaltati da stacchi che prevedono il momentaneo silenzio di tutti gli altri strumenti.

Ho un problema mai taciuto con un arrangiamento che prevede livelli di incisione tali per cui la voce viene relegata in un secondo ideale piano sonoro e tendenzialmente prediligo le voci calde e gravi a quelle tenorili e ariose, ma Gli Ebrei hanno imbroccato la formula giusta. Sono al passo coi tempi con le loro chitarre più melodiche che armoniche e il basso incalzante; sono incazzati, schifati ma senza piangersi addosso o far sempre comizi. Sono ironici ma non fanno i buffoni. Sono poetici ma non si circondano certo dell’alone dei dannati. Forse patiscono un po’ il cantare in italiano, non perché le loro liriche non abbiano spessore, ma perché certe sonorità rimandano direttamente a una parlata diversa e a volte fa quasi strano, durante l’ascolto, sentire una lingua tanto distante da quella che ci si aspetta. Non resta che augurar loro tutto il meglio, ricordando a voi di scaricare l’Ep, dopo un po’di condivisione dai vostri personali profili Facebook e Twitter.

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Maleducazione Alcolica – Peccati e sogni

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Lo ska e il reggae hanno, per me, il grandissimo difetto di annoiare dopo dieci minuti di ascolto live. A meno che non sia strafatta di alcol (di altro non mi strafaccio, ma, insomma, chi frequenta festival e concerti del genere sa a cosa mi riferisco). Figuratevi la fruizione salottiera che effetto può farmi. Quindi appena ho aperto la cartella stampa di presentazione dei Maleducazione Alcolica e appreso cosa suonano, m’è preso il panico. La band è composta da nove elementi, tra fiati, chitarre e batteria e ha un sound tipico, che ricorda Ska-P, ma anche Roy Paci, Statuto e Après La Classe.  Questi ultimi, che stranamente a me piacciono tanto, sono punti di riferimento più per gli arrangiamenti strumentali che per la resa vocale.

Fortunatamente per me (e per chi la pensa come me), Peccati e sogni è un album molto vario, pur nella fedeltà stilistica a un genere per natura cadenzato, ciondolante, ipnotico e ripetitivo. E per fortuna il disco si apre con la divertente presentazione di “Intro Rude Man” e contiene brillanti esempi di puro ska, come “Salta in Aria”, ma anche “Vogliamo Bevere” e, mentre “Corrispettivi” è più un divertissement musicale e la title-track, “Peccati e Sogni”, si caratterizza per i timbri introduttivi più elettrici e futuristici, che lasciano subito spazio al calore abituale dei fiati. Ben più aggressiva e distorta, invece, è “Terra Madre” che, insieme a “Teppisti”, si pone come momento eccezionale in cui le chitarre sovrastano completamente, anche se per pochi secondi, il predominio timbrico della sezione dei fiati. Le tematiche dei testi sono piuttosto convenzionali, dalla festa, il divertimento, l’invito al ballo alla critica sociale, contro l’ipocrisia di una società che impone regole e studia leggi solo per aggirarle e contro una realtà opprimente che ci si può scrollare di dosso solo col movimento.

I Maleducazione Alcolica sono senza dubbio una band in grado di comunicare molto di più dal vivo, ma l’album è prodotto secondo tutti i crismi del caso, ha una buona qualità audio e la track-list è organizzata in modo da non risultare ripetitiva o ridondante. A loro vanno i miei complimenti per questo. A tutti voi appassionati di reggae e curiosi armati di pochi pregiudizi e tanta pazienza, consiglio vivamente di dare un ascolto al loro lavoro.

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Bachi da Pietra – Quintale

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Sono solo in due e sembrano quindici. I Bachi da Pietra si presentano con un album nuovo, Quintale, che si discosta parecchio dal rock blues delle produzioni precedenti. Appena parte “Haiti” si viene subito sbalzati in una dimensione di rabbia cupa e graffiante, dov’è il noise a far da padrone. E l’incazzatura prosegue in “Brutti Versi”, con un larsen in lontananza che sembra esplodere da un momento all’altro, lasciandoci a bocca asciutta quando la crescita viene ritardata ed espressa con sdegno dalle parole “Il danno è doppio / Uno per me, uno per il mondo” e da un riff sanguigno alla chitarra. “Coleotteri” è una cavalcatona grind che, forse volutamente?, cita la frase “Libero di Essere” di “666” dei Linea77 e insinua il germe del basso, del viscido, dell’oscuro, che caratterizzerà tutto il brano. Gli insetti, il sangue, la religione e il perdono sono i grandi argomenti trattati dal duo, che si prende una pausa dall’incazzatura feroce con “Enigma”: rime argute e insolite e riferimenti al mondo musicale, spesso autoreferenziali, come quello al fonico di palco, ad Audioglobe o La Tempesta, che è la casa discografica della band, contribuiscono alla costruzione di un testo fatto di immagini giustapposte, senza apparente connessione, ma profondamente suggestive. “Fessura” e “Mari Lontani”, una marcia, quest’ultima, con uno splendido dialogo tra la voce in primo piano e la back voice sulla chitarra distorta, ricordano parecchio, soprattutto per il trattamento melodico strumentale, i Marlene Kuntz. Entrambi i brani sono più meditativi dei precedenti e di andamento meno mosso. La religione è la protagonista di “Pensieri, Opere, Parole”, con l’intro grind cantato in inglese e successivamente ripreso in italiano: il perdono è negato o semplicemente rifiutato, cancellato come la parola “omissioni” che viene sostituita dalla musica e dalla parola Rock’n’roll, che in fondo è l’unica vera fede, l’unica vera attitudine. E con “Paolo il Tarlo” ci si fa beffe ancora una volta la liturgia cristiano-cattolica, con la frase “generato e non creato” ripresa a piè pari (ma proseguita in modo provocatorio e blasfemo), inserita su una corsa selvaggia della batteria a metà fra i Deftones e i Black Rebel Motorcycle Club con inserti meravigliosamente psichedelici e noise, che proseguono senza soluzione di continuità in “Sangue”: tempi dilatati che quasi non lasciano riferimenti metrici all’ascoltatore, a causa anche di un cantato declamato e registrato su diversi livelli volumetrici che conferiscono un’ideale spazialità scenica alla narrazione. L’incipit di  “Dio del Suolo” ricorda parecchio gli ultimi Afterhours: tornano a strisciare gli insetti e torna il perdono per questa che probabilmente è la traccia più pop e meno incazzata di tutto il cd (e non per questo la meno riuscita, anzi). “Ma Anche No” è una ballata delicata e intensa, sanguigna fin dalle prime terzine legate della chitarra. La versione digitale di Quintale si completa di “Barattoatbachidapietra.com”: la voce comunica in modo sterile che la traccia è registrata in modo amatoriale con un telefono e che non è costata nulla, se non il prezzo dell’apparecchio stesso. Da qui parte un lucidissimo dialogo con un immaginario downloader di mp3 che non si cura del lavoro, del sudore e dell’investimento monetario dell’artista. Allo scaricatore selvaggio viene proposto un baratto: i Bachi da Pietra si offrono di andare a domicilio a farsi rendere qualsiasi servizio a scelta per ogni traccia presa illegalmente dal web.
Non è un disco immediato ed è ideologicamente divisibile in due parti, una più crossover, hard rock, urlata, una più rock-blues, cantata, ricca di sfumature. Preferisco nettamente la seconda, ma entrambe contribuiscono a creare un lavoro molto pregevole.

Ho mancato un loro live nella mia città pochi giorni fa, vi auguro di non fare lo stesso.

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Michele Maraglino – I Mediocri

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“Mediocre” è un termine che viene impiegato con un’accezione negativa quando non addirittura dispregiativa. In realtà significa semplicemente “di medio gusto”, “nel mezzo”. Il famoso mediano di Ligabue, insomma. E la storia è sempre la stessa allora. Fa così schifo una vita normale? Ma soprattutto al giorno d’oggi, in tempo di crisi, dove non c’è lavoro, non c’è modo di mettere benzina nella propria auto figuriamoci accendere un mutuo per comprare la casa o pagare un affitto, c’è da chiedersi cosa sia diventata la normalità. Sembra provare a rispondere Michele Maraglino, cantautore pugliese classe 1984 che si presenta sulla scena nostrana con un full-lenght album, I Mediocri, tutto cantato in italiano, sempre nervoso, sempre in tensione. “Verranno a Dirti Che C’è un Muro Sopra” chiarifica subito lo stile: una voce roca, una dizione senza inflessioni dialettali (veramente un pregio), un certo gusto per la rima che però non è scontata, si insinuano su un arrangiamento folk contrappuntato da riff elettrici. “Vita mediocre” é l’irritante rifacimento del monologo iniziale di Trainspotting. Non fraintendetemi. A me il film è piaciuto, pure il libro. E sono più incline all’avvampare subito che allo spegnersi lentamente, da brava discepola di Cobain. Però venitemi a dire che un lavoro e una casa sono una vita banale da disprezzare, oggi come oggi poi, e vi mando a cagare seduta stante. Vi assicuro che il pensiero per Maraglino, che canta “e intanto non ti accorgi dello schifo che vivi, un lavoro, una casa, una vita mediocre” è riassumibile con: figliodipapàconuncazzodafarechegiocaafarel’artistoidemaammazzati.

E in “Taranto” poi, non so più chi ho davanti: prima il pugliese si lamentava della vita quotidiana scontata e qui si lamenta invece di non avere neanche quelle poche certezze: una terra, una casa, il mare. Ah. Coerente. “Umida” abbandona per un attimo le tematiche sociali e presenta una donna matrigna, consapevole delle sua bellezza e del suo potere sull’uomo che, da canto suo, cerca di convincersi di poterla domare. L’amore è il protagonista di “Pensavo di Morire”, una ballata a tratti pulp dove i riff elettrici si muovo sul levare della chitarra acustica. Con “Lavorare Gratis” e “L’Aperitivo” si torna a commentare la nostra attualità, fatta, da un lato, di quelli che devono lavorare senza percepire stipendio con la scusa di farsi le ossa, fare esperienza, o semplicemente per non stare a casa a stampare curricula su curricula che non verranno presi in considerazione e, dall’altro, di quelli (spesso gli stessi in entrambe le categorie), che risanano le loro frustrazioni nello status symbol dell’happy hour preserale. Il quadro de I Mediocri, si conclude con “Tutto Come Prima”, ballata dal ritmo molto cadenzato, in cui l’indifferenza dell’individuo, che guarda la propria vita scorrere senza lasciare traccia, è la protagonista indiscussa.
Maraglino non le manda a dire, è diretto e spesso usa termini bassi e parolacce, accostati a prestiti verbali più colti e aulici. Il genere non si può innovare chissà quanto, ma il cantautore riesce a dare un’impronta personale. Certo, io mi sono legata al dito la faccenda del lavoro, della casa, della vita mediocre, probabilmente non avendo capito dove volesse andare a parare (cioè: se era ironico, non sono riuscita a coglierlo – o lui non è stato abbastanza in gamba da farlo emergere debitamente).
Lavoro senza dubbio pregevole, quindi, ma che non convince fino in fondo.

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Altrochesanremo: commentiamo?

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Partita la seconda tornata di iscrizioni per il concorso Altrochesanremo, una formula ideata dalla redazione di Rockambula per permettere alle band emergenti di farsi promozione attraverso la nostra testata online. Le modalità di partecipazione sono molto semplici: si tratta di inviare il file mp3 di un brano che l’artista reputa più rappresentativo della propria produzione. L’unico vincolo imposto dall’organizzazione è che non sono ammesse le cover. Una volta raccolte le adesioni, la redazione pubblica dieci brani in ascolto sul sito e, parallelamente, redige un sondaggio sulla pagina Facebook di Rockambula, a cui tutti possono accedere per votare il migliore. Terminata la votazione viene decretato il brano vincitore a cui la redazione offre un banner di rimando al proprio sito web, una recensione, un’intervista e l’ascolto in streaming del demo, ep o album sulla home page di Rockambula.com. La gratuità dell’iniziativa e la struttura del concorso, che si pone come un’importante vetrina nel panorama indipendente nazionale, soprattutto se teniamo conto del considerevole numero di utenti di tutta la penisola che accedono quotidianamente al sito della webzine o alla pagina Facebook (e tra questi anche discografici, agenzie di booking, colleghi giornalisti), hanno contraddistinto Altrochesanremo come un’occasione ghiotta per gli emergenti e garantito una massiccia adesione alla prima edizione, che si è conclusa la scorsa settimana con la vittoria del cantautore Martino Adriani, i cui brani sono già in ascolto sul nostro sito web. Cosa insolita per un contest, poi, non ci sono state polemiche di sorta: tutte le fasi di selezione si sono svolte con grande serietà e serenità, in uno spirito di spensierata competizione, in cui gli artisti hanno messo in campo le loro abilità “spammatorie” condividendo il sondaggio sulle loro fanpage del social network e invitando più amici possibili a votare. Qualcuno avrà cliccato alla cieca il nome del proprio beniamino, altri invece si saranno incuriositi e avranno ascoltato tutti i  brani in gara, mettendo in azione il motore della promozione a cui puntiamo.

Ok, sono senza dubbio di parte, ma trovo molto bello che una webzine, che spesso viene vista come una macchina sputa-sentenze e assegna giudizi, possa dimostrare con un sistema tanto semplice quanto il suo scopo primario sia in realtà quello di aiutare le piccole realtà musicali che cercano di farsi strada, fornendo loro più visibilità possibile. Per questo vi ricordo che sono aperte le iscrizioni al secondo turno di gara: inviate un brano in formato mp3 con una breve biografia e una foto in allegato a pizzicasilvio@virgilio.it o riccardomerolli@katamail.com o rockambulawebzine@gmail.com.

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Le teste – 2012 BOPS

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Dopo l’incipit meditativo, a tratti cool, di “Preludio”, i lombardi Le teste partono in quarta con uno ska-rock potente, cantato in italiano e swingato in stile Roy Paci (ma se possibile con molta più classe), che non guarda in faccia nessuno: ce n’è per tutti, dalle idiozie mediatiche sulla fine del mondo di “Fine dei giochi” o “2012”, al nostro bel Paese di maneggioni in “Calciopolis” e lo status symbol da drink regalati nei locali fighetti di provincia in “Free Drink”. Immancabili la canzone d’amore, “Lovely girl” e la critica sociale di “L’animale” e “C’è crisi”. E se la prendono anche coi fresconi che si bevono qualsiasi prodotto musicale come fosse Coca-Cola nella velocissima “Estasi sintetica”, e con i “Pagliacci!” che riempiono le nostre città di slogan e false speranze. “La ruota”, traccia di chiusura del disco, sembra essere una summa di tutte le narrazioni precedenti: i ragazzi ci stanno dicendo che siamo coinvolti in un ingranaggio che forse neanche vediamo, la cui morsa stringe e lascia un segno silenzioso, nel suo incessante movimento. A noi non resta che illuderci di poterla fermare. Le teste, al contrario, vi faranno muovere e parecchio. Che vi piaccia il genere o no, questa è gente da andare sicuramente a vedere dal vivo. Enjoy!

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Amari – Kilometri

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Spazio e tempo sono due concetti astratti che vanno di pari passo. La musica poi sembra essere la loro concreta attestazione. Il tempo è quello endogeno del metro, del ritmo, della scansione sillabica, degli accenti. Lo spazio è l’orizzontalità dello spartito, il cursore che scorre sul vostro lettore, ma anche il luogo reale in cui ne fruite e quello immaginario in cui vi conduce. Gli Amari ci offrono la loro ultima fatica, Kilometri, come unità di misura di un’ideale dimensione spaziale anzitutto ma anche, conseguentemente, temporale,  in cui l’ascoltatore viene sospeso e condotto sin dal principio, da “Aspettare, Aspetterò”, in cui il ciondolare ritmico a tratti dub scandisce il tempo e imita una camminata spensierata, sottolineata dalle rime, ma smascherata nella sua vera essenza riflessiva dal verso “Capire se il mio tempo ha lo stesso valore del tuo”. “Ti Ci Voleva La Guerra” è un brano ironico, in cui l’artista sembra riflettere sulla propria condizione, affermando che  “Per rompere la bolla non basta una canzone”. E si capisce subito che questi ragazzi nascondo una grande serietà dietro la maschera dell’ironia e delle rime scontate sul modello sanremese, come conferma “Africa”, in cui la frase “Prova a spiegare la provincia a chi sta in Africa” ci rimanda in un attimo alle ultime discussioni politiche sull’accorpamento degli enti provinciali se non addirittura sulla loro abolizione, così come ci porta a riflettere sui tanti immigrati stoccati in case di accoglienza di cui si sente parlare per due giorni per poi dimenticarsene. Il singolo di lancio, “Il Tempo Più Importante” è la canzone più dichiaratamente riflessiva: una ballata pianistica in cui ci si concentra maggiormente sull’amore e sul tempo, che “non c’è più”, la cui ripetizione ossessiva viene scandita alla maniera di Francesco-C. Azzeccato è il dialogo che si intreccia tra basso, tromba e voci in “Il Cuore Oltre la Siepe”, mentre la mia personalissima coccarda per il miglior testo va a “La Ballata del Bicchiere Mezzo Vuoto”: il pretesto del ricordo del corteggiamento diventa occasione per meditare su se stessi, i propri cambiamenti e le pirandelliane centomila proiezioni del sé negli occhi degli altri. “A Questo Punto” a me ha ricordato il terremoto de L’Aquila. Non credo assolutamente fosse il riferimento primario per la costruzione del brano, che sviluppa ancora una volta una riflessione sull’individuo, ma la citazione della “casa dello studente” e il protagonista del testo che trema, mi ha ricordato quei tragici fatti. La title-track, “Kilometri”, è la più fumosa, densa e cupa di tutto il disco, costruita su una melodia arpeggiata e ipnotica in cui addirittura l’apertura del charlie della batteria diventa tematico. “Rubato” riassume perfettamente l’iniziale considerazione sul tempo e lo spazio: “La domanda non è dove, ma quando”.
Gli Amari sono una band facile da ascoltare e difficile da recensire; il disco non è immediato nella sua profondità, ma non fatica certo a farsi studiare. Ben riuscito davvero.

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Encomion Morias – Legend of The Drunken Bastards BOPS

Written by Novità

Due cose saltano subito all’orecchio quando si ascolta l’Ep degli Encomion Morias, formazione di Castellammare di Stabia di matrice Hard Rock con influenze Grunge alla Soundgarden: anzitutto cantare in inglese può essere una lama a doppio taglio, perché la pronuncia è davvero importante. Non fraintendetemi: il vocalist è corretto, fin troppo, e proprio per questo si evince una parlata scolastica, poco genuina, poco scorrevole, che male si insinua sulla musica di chiara derivazione anglo-americana. In secondo luogo è molto difficile fare dell’Hard Rock oggi. Il genere ha troppe decadi di storia e ha fatto scuola: è quasi impossibile fare qualcosa che non risulti già sentito e scontato. Che gli Encomion Morias siano dei bravi musicisti, lo si evince soprattutto da brani come “T.M.B”, con inseriti chitarristi quasi blues, o nel buon gusto dell’arpeggio di “God is Not an Astronaut pt.1”, con la batteria tribale che predilige il timbro dei muti e la voce che compie larghi intervalli slanciati verso l’acuto, così come nello scarto stilistico di “God is Not an Astronaut pt.2”, che, a differenza della gemella appena citata, sfiora il Nu Metal dei Faith No More, è veloce e costruita su potenti schitarrate accordali. Il punto è che non è sufficiente. In un genere in cui l’originalità è qualcosa di assolutamente impossibile da rintracciare, pena probabilmente snaturare lo stesso, non guasterebbe un pizzico di personalità in più, quel qualcosa che non faccia solo apprezzare la tecnica o il buon gusto ma comunichi effettivamente qualcosa di più profondo.

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Glen Hansard

Written by Live Report

Onestamente la lunga coda per Glen Hansard in un freddissimo 20 febbraio milanese, non me l’aspettavo proprio. E invece in molti si sono presentati più che puntuali, in tempo per vedere anche l’opener, Lisa Hannigan. E qui la seconda sorpresa. Perché la Hannigan è fondamentalmente la talentuosa corista di Damien Rice che ha intrapreso una carriera da cantautrice e non ci si aspetta certo che il pubblico sia lì anche per lei. Non fraintendetemi, la Hannigan è bravissima, con il suo uso della voce a cavallo tra Emiliana Torrini e Julia Stone, un personaggio delicato che al tempo stesso trasmette determinazione, capace di stare sul palco da sola e incantare solo con le sue melodie e un ukulele. Ma mi aspettavo il solito semivuoto sotto il palco e una platea caciarona in attesa dell’headliner. E invece tutto il pubblico era già piazzato, col naso all’insù, in un silenzio attentissimo interrotto solo da qualche “Brava Lisa” e dal brusio di qualcuno che cantava Little Bird o Passenger.

Hansard si presenta sul palco con dieci strumentisti: basso, chitarra, batteria e uno dei violini sono  i componenti dei The Frames, a cui si devono aggiungere trombone e sax, tastiere, altri due violini e un violoncello. Il concerto si apre con You will become a cui seguono Maybe not tonight e Talking with the wolves, tutt’e tre -per altro in quest’ordine- presenti nell’ultimo disco Rhythm and Repose: in un attimo l’atmosfera si fa intima e famigliare. Hansard ama raccontare aneddoti e parlare di se stesso, così intervalla i brani con la storia della gita al faro finita male o con la sua personale opinione della generazione X-factor (“Voler diventare celebri per la celebrità in sé è roba da fottuti ignoranti!”). La gente gli urla “Bravo” e “Grazie” e lui risponde “Grazie” e “Grazie” in un siparietto ilare che andrà avanti per tutto il concerto, quando finalmente Glen avrà imparato a dire “Prego”. L’irlandese è una cantautore serio ma che non veste i panni dell’intellettuale, è un frontman con un grande carisma ma anche molta modestia: il palco è gestito con professionalità, ma anche con leggerezza e disimpegno, con la consapevolezza implicita che uno show debba prima di tutto intrattenere, anche e soprattutto per catturare l’attenzione del pubblico e far passare meglio i propri messaggi. La scaletta prosegue con alcune sorprese: Love don’t leave me waiting finisce con una citazione improvvisata di Respect di Aretha Franklin, vengono eseguite alcune cover de The Swell Season, il progetto di Hansard con la pianista e cantante Marketa Irglovà, fra cui spicca la dolce In these arms, ma è l’accenno in palm muting di Wishlist dei Pearl Jam che scalda la platea: è una richiesta, il cantautore si lamenta anche perché non riesce a leggere testo e accordi per colpa del luciaio del Limelight che gli ha cambiato le luci (e ironizza: “Gli avevo detto di non farlo e lui l’ha fatto lo stesso! Che poi questo posto è una discoteca, avrà sì e no cinque colori…”). Fedele all’originale ed eseguita con molta delicatezza con il solo accompagnamento della chitarra, il brano richiama i musicisti sul palco per Fitzcarraldo, Santa Maria e Song of good hope, un momento serissimo in una serata leggera e divertente: la canzone viene dedicata a un amico malato di cancro che dopo anni di inutili cure si è messo in giro per il mondo a vivere il tempo che gli resta.

È l’encore, però, il vero apice di una serata piacevole e piena di sorprese: Hansard torna sul palco con la sua sola acustica (tra l’altro con la tavola armonica bucata – il ragazzo pesta come un dannato e credo si diverta anche a non usare i battipenna) e canta Say it to me now, senza microfono e senza amplificazione. Il pubblico si stringe sotto il palco, tutti fanno silenzio e ascoltano incantati. Con la Hannigan, poi, intona O sleep (brano composto dalla ragazza) e Falling Slowly dei The swell season. I musicisti tornano sul palco e c’è un momento veramente grottesco: un ragazzino dal pubblico aveva richiesto un brano dei Nirvana, perché il 20 febbraio sarebbe stato il compleanno di Cobain. Hansard lo accontenta, ma a condizione che salga sul palco per cantare. Il ragazzino è tutto imbarazzato, non sa che dire. La band attacca Breed e lui sta lì, microfono in mano, ad ammettere di non sapere le parole, poi prende coraggio e si limita a saltare e a fare le corna, secondo il migliore stereotipo. I musicisti sul palco sono divertitissimi (e per altro fanno una versione davvero bella del brano, energica e raffinata al tempo stesso), il pubblico anche. Con una splendida e caldissima This Gift (dal vivo davvero molto molto più potente che da disco – c’erano schegge di bacchette di Hopkins ovunque) finisce il concerto. Hansard e soci decidono di congedarsi dal pubblico in un modo meraviglioso: abbandonano tutti l’amplificazione, si dispongono sul palco come una compagnia teatrale per i saluti e gli inchini e intonano Passin’ through di Leonard Cohen: danno istruzioni agli spettatori sulle parole da cantare e scendono in mezzo a noi come una marchin’ band. Si fermano un po’ in mezzo alla platea e poi, continuando a suonare e cantare, salgono la scala che porta su una balconata di fronte al palco.

Davvero meraviglioso!

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Tres – Tres Bops (recensioni tutte d’un fiato)

Written by Novità

I Tres sono il progetto dei livornesi Roberto Luti, Simone Luti e Rolando Cappanera, nomi già ben noti e stimati nel fecondissimo panorama blues nostrano e non solo: i primi due, infatti, sono rispettivamente chitarrista e bassista affermati nel blues e nel funky, mentre Cappanera militò nella band heavy metal Strana Officina, che negli anni ’80 portò a casa meritatissimi successi e che ad oggi può vantare l’incisione di sette album. Il disco dei Tres, omonimo, pubblicato nel 2012, si compone di 11 tracce sanguigne, calde, tutte esclusivamente strumentali. Il richiamo al rock blues di Jimi Hendrix è pressoché istantaneo dall’iniziale Tres Niños a Cool ain’t cold con il suo sguaiato e onnipresente wah wah; 504th stone into the sea è una ballatona americana sexy e pelvica, mentre Bound to Houma con i suoi nove minuti di delirio psichedelico dà prova di tutta la bravura dei tre. Molto significativa è Hey Joe, citazione dell’hendrixiano omonimo capolavoro, con un inserimento non troppo velato del riff di Whola Lotta Love dei Led Zeppelin.

Non è il disco da avere assolutamente eh, soprattutto perché non è particolarmente originale né aggiunge qualcosa a un genere che già ha raggiunto esiti altissimi nella sua sotira, ma se vi capita tra le mani passerete un’oretta più che piacevole e se vi capitasse di poter assistere a un loro concerto dal vivo, avreste l’occasione di vedere dei veri musicisti.

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