Il Duchenne Music Project non è il lavoro di una band, ma di un collettivo di artisti, accomunati dall’origine livornese e della volontà di sensibilizzare sulla distrofia muscolare di Duchenne e Beker. Il cd, il cui ricavato infatti viene devoluto a Parent Project Onlus, l’associazione di genitori con figli affetti da questa malattia, raccoglie sedici contributi i cui unici denominatori comuni sono la lingua inglese usata per la redazione dei testi letterari e la presenza di Matteo Caldari e Alessio Carli, i due ideatori del progetto, che hanno chiamato a partecipare altri musicisti della loro città. Ciascuno di questi porta le sue esperienze musicali pregresse, i suoi gusti, il suo stile. Ne esce un prodotto disomogeneo ma molto interessante: si va dal brit-pop all’indie americano, dalla new wave al reggae, dall’hard rock al folk, in uno spaccato dell’underground livornese che diversamente non si sarebbe potuto esplorare. La qualità, naturalmente, varia da traccia a traccia, con esiti molto interessanti come nel caso della beatlesiana Anymore, dell’americanissima The answer, della super indie Our Summer Nights o della delicata Dorothy. Al di là dell’impegno sociale, vale la pena di ascoltare quest’album e farsi un’idea della ricchezza del panorama indipendente nostrano.
Marialuisa Ferraro Tag Archive
Thony – Birds
Essere donna e musicista non è sempre un’impresa molto semplice. Generalizzando, ma neanche poi troppo, gli uomini giudicano più il tuo aspetto fisico che la tua performance e le donne giudicano più il tuo aspetto fisico – nel 90% dei casi rosicando- che la tua performance. Insomma: fuoco incrociato. Se sei troppo aggressiva, qualcuno sbava e qualcuno ti addita come ennesimo stereotipo del rock in gonnella con zebre e leopardi su vestiti, chitarre e scarpe col tacco, magari fantasticando anche sul livello di porno che suggerisci. Se sei troppo dolce, ti relegano nel panorama della canzoncine d’autore melense e strappalacrime, adatte solo a un pubblico di adolescenti che confondono l’ormone con l’amore.
Federica Victoria Caiozzo, palermitana classe 1982, si presenta al pubblico con uno pseudonimo androgino, Thony, che mette subito le cose in chiaro: è una donna – anche molto affascinante, con qualcosa della giovane Giorgia e qualcosa di Pj Harvey e della sua sosia nostrana Paola Maugeri – ma con due palle così. Femmina nel senso più puro del termine, determinata e fragile al tempo stesso, è in grado di mettere a tacere le malelingue di ambo i sessi e far parlare solo la sua musica. Intanto ha dalla sua una grande vocalità: timbro caldo, una certa quantità di quella sensualissima aria che per i puristi del belcanto è un difetto, un falsetto delicato e ben controllato. In secondo luogo, ha saputo evidentemente circondarsi di musicisti con una competenza tecnica e un gusto per gli arrangiamenti tali da creare un disco davvero molto buono. Difficile indicare Birds, realizzato come colonna sonora per l’ultimo film di Paolo Virzì, Tutti i santi giorni, semplicemente come il lavoro di un cantautore: Thony emerge come compositrice, polistrumentista, esecutrice e interprete, il tutto in armonia con l’apporto qualitativo delle collaborazioni, fondamentali e mai casuali. Esattamente come la presenza di Giuliano Dottori.
Fin dalla prima traccia, Time speaks, è chiara la direzione vocale intrapresa: echi di Emiliana Torrini, di Julia Stone, con la nasalità di Marisa Monte e la pienezza nelle note gravi di Julieta Venegas. Aria e acqua sembrano gli elementi che legano le 14 tracce: dal timbro della sega musicale su Quick steps, col suo effetto strascicato e ben poco temperato, a Birds che ricorda le sonorità di Ukulele Songs di Eddie Vedder e le doppie voci eteree degli Imogen Heap di Hide and Seek. La cura per l’arrangiamento è evidente soprattutto in Promises, costruita per intero su un passaggio continuo dalle tonalità maggiori a quelle minori, con una oscillazione di tensione sottolineata da frequenti cambi motivici e timbrici strumentali. Le dissonanze di apertura in Water e in Blue wolf tradiscono un’influenza classica quasi madrigalistica, mentre è Debussy il faro che guida Birds interlude. Nyctinasty rivela una grande attenzione anche in fase di registrazione, visto che addirittura l’attrito delle dita sulle corde, oltre a contribuire a un certo calore sonoro, diventa quasi tematico. Non manca l’alternative rock più puro, come nelle prime battute di Dim light, che richiama l’intro de L’estate degli Afterhours, e in Sam, in cui Thony si lascia andare a un canto meno contenuto e sussurrato, rivelando anche una discreta potenza alla Florence.
Nell’insieme, Birds è gradevolissimo e nostante non brilli per originalità, ha una sua elegante personalità e una certa tensione comunicativa. Thony non è LA voce, ma è una splendida voce in grado di sostenere il confronto con altre splendide voci. Si potrebbe dire che non aggiunge e non toglie nulla, soprattutto se inserita in un panorama musicale dal respiro internazionale, ma, dalle nostra parti, avercene.
Caffiero – Moscagrande
Ho un rapporto controverso con l’elettronica. Tutta quella cassa ribattuta, i riferimenti alla dance, quei suoni liquidi ed eterei, quelle tastiere che girala come vuoi ma un po’ fanno sempre tanto maledettissimi anni ’80, quelle parole praticamente sempre inesistenti… Paradossalmente mi piacciono più certe sperimentazioni cacofoniche seriamente insentibili alla Stockhausen.
Almeno la piacevolezza si perde sì, ma prostituita alla nobile causa della ricerca.
Se mi chiedete di andare a un evento dedicato all’elettronica, storco il naso.
Se mi chiedete cosa ne penso, mi travesto da snob e sostengo che non sia veramente musica.
Sono una di quelle insomma, che non maschera una certa disapprovazione retrograda, come se ci fosse qualche differenza, poi, lo riconosco, tra girare delle manopole e mettere in vibrazione delle corde. L’altra grande verità su me e l’elettronica è che nel 90% dei casi non mi trasmette nulla, neanche sul piano corporeo. Non mi emoziona, non mi commuove, non mi fa incazzare -se non consideriamo incazzatura l’istantaneo “Ma dove diamine sono gli strumenti veri?”- non mi fa pensare, non mi rilassa, non mi accende. È un mio grande limite.
Quindi è da snob consapevolmente limitata che mi sono avvicinata ai Caffiero e al loro Moscagrande. Una sfida per me e per loro.
Tre ragazzi di Fano (basso, synth e batteria – serve altro, in fondo, per fare dell’elettronica?), 10 tracce autoprodotte e un cd edito con gusto, con una copertina essenziale e tutte le informazioni necessarie sul retro – e sembra cosa da poco, invece è pregevole sapere essere efficaci e sintetici.
Le prime tre canzoni sono esattamente come pensavo: A Damn fine cupe of coffee, per esempio, è un tappetone ritmico insistente, ossessivo e compulsivo, con sopra tanto noise cupo, dal sapore decisamente Eighties. Chinaboy ha i presupposti per essere un pezzo un po’ più distante dagli stilemi del genere, ha un sapore più acid-rock, su cui si muove una voce profonda, ma viene trascinato dall’ossessività ritmica nella banalità. Violence in the kitchen però, mi prende con grande stupore. È energica, stranamente calda e in grado di trasmettere tanta passione. La voce declamata ricorda certe canzoni di indignazione e protesta e un momentaneo sapore italiano un po’ alla Teatro degli orrori (non c’entrano nulla, lo so, ma vi assicuro, il timbro è quello!) e il brano aqcuista subito un tono serio e impegnato.
Da qui ascolto tutto l’album con una curiosità e un’attenzione insospettabili.
Questi tre sono bravi e spezzano per il resto del disco le mie convinzioni classiste sui generi musicali. Sanno il fatto loro sulla scelta della strumentazione, La tecnica è ineccepibile, il gusto no. Sono solo in tre ma riescono a costruire un buon muro sonoro, ma spesso le canzoni mancano di un tiro costante e sono tanti i momenti in cui sembrano proprio mancare le idee. Spesso i Caffiero danno l’impressione di sparare le cartucce migliori all’inizio del pezzo e manca una dinamica crescente nella costruzione del brano: tutto viene detto in pochi secondi, il resto è solo una ripetizione. Sicuramente il potenziale della band è nel live e non certo nell’ascolto da cd, ma il trio, stando a quanto viene fuori da Moscagrande, deve ancora capire bene come investire la più che buona competenza tecnica che ha, ricercare un’estetica più omogenea e personale, riuscire a trovare una soluzione nella stesura del brano che, pur sposando la ripetizione danzereccia, non cada (e scada) nella noia.