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Craxi – Dentro il Battimento Delle Rondini

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Niente a che vedere col politico, i Craxi sono il genuino progetto parallelo di musicisti noti del panorama alternative nostrano, considerando che stiamo parlando del vocalist Alessandro Fiori dei Mariposa, di Andrea Belfi, ex-Rosolina Mar e attivo negli Hobocombo (batteria), di Luca Cavina dei Calibro 35 e Zeus! (basso), di Enrico Gabrielli, ex-Afterhours e ora Calibro 35, Der  Maurer, Mariposa (chitarra). Un progetto ambizioso, dunque, che si apre con “Rosario”, brano caratterizzato da una lunghissima introduzione noise alla Marlene Kuntz che apre lentamente, tenendo l’ascoltatore in tensione, in attesa dell’esplosione (che di fatto, non arriva), mentre la voce, sforzata e declamata, più che cantata, arriva direttamente dalla gola. Non sono depressi, non sono incazzati, ma hanno quell’agitata impazienza new wave che si avverte nelle sonorità cupe di “E tu Non ci Sei”, dove gli sfasamenti tonici e l’accompagnamento ipnotico catturano e soffocano.

Il basso spadroneggia in “I Diari Del Kamikaze”, mentre il panorama industrial sembra essere il faro di “Drive In”, con il suono penetrante (un fischio, una sirena, una sveglia insopportabile di una mattina di hangover) che caratterizza intro e interludio. La lezione degli Afterhours, invece, si sente in “Le Ali di Alì”, mentre in “Si Appressa la Morte, Non ci è Dato Sapere” sono le avanguardia la vera ispirazione: una matrice quasi Folk, ma vagamente riconoscibile, alterata, distorta, digerita elettronicamente per un risultato visionario e psichedelico, poco gradevole all’ascolto, forse, ma molto pregevole sul piano sperimentale-compositivo. “Santa Brigida” è la più ritmata e coinvolgente fisicamente, mentre “Se me lo Chiedi Dolcemente” si pone a cavallo tra le sperimentazioni internazionali hippie del Rock anni ’60-’70 e un sapore intellettualoide hipster di ben più recente foggia: il trattamento melodico-timbrico richiama l’oriente mistico indiano, mentre la voce declamata riporta alle letture degli scrittori della Beat Generation. La title-track, “Dentro il Battimento Delle Rondini”, invece, è un visionario testo decadente alla Teatro Degli Orrori.L’impressione generale è che la band incarni bene tutto ciò che non vorremmo essere ma siamo, tutto lo squallore di una generazione precaria, corrotta dai media, costretta a guardare indietro anziché avanti. Un moto di ribellione, però, quasi nel tentativo di restituire speranza e vigore, viene dato da “Sono il Mio Passeggero”, dove finalmente la voce prende il volo in un recitato con urletti dal profilo melodico incerto, che, ancora una volta, mostrano l’implicita cupa inquietudine che i Craxi ci raccontano. Il disco chiude con “Le Mostre di Pittura”, una critica ben poco velata alla società finto-intellettuale odierna, ironicamente arrangiata con violini e battiti di mani che decorano il tappeto Grunge aspro di sottofondo.

I Craxi non sono piacevoli e non vogliono esserlo, perfettamente inseriti in quella nicchia di musicisti italiani che non hanno intenzione né di divertire, né di sensibilizzare, ma solo di mostrare tutto il loro profondo disgusto per la situazione vigente. Tecnicamente bravissimi, assolutamente non orecchiabili, new wave quanto basta per soddisfare i fautori del ritorno in auge del genere, avranno sicuramente fortuna. A me non hanno fatto impazzire, ma de gustibus.

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Divanofobia – I Fantasmi Baciali

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Certi dischi ci inquietano per la loro stranezza che in fondo si assume anche tutti i paramenti d’una intrigante – a modo suo –  bellezza, e l’esordio dei bolognesi Divanofobia, I Fantasmi Baciali, rientra in quella massa di dettagli espressivi con una voglia di imprimersi per passione sincera e per  un piano sonoro necessario a chi in un disco cerca il lato riflessivo di una giornata particolare, ibrida.

Un Rock Cantautorale, viscerale e amaro che ha una sostenuta velleità per abbandonarsi nella notte, nelle notti di una poetica stilistica che sfiora pure il Pop delle altitudini, fuori dai giri commerciali e valorizzato negli spessori emozionali che amorevolmente fasciano in un battibaleno ascolti e percezioni inaspettate; nove tracce che respirano e danno il senso di un diario intimo, una sensibilità musicale che pretende una doverosa attenzione per essere assorbita come un unguento riflessivo. Arrangiamenti generosi e tristezze semplici al servizio del più  complicato dei fini: arrivare dritti in testa, in pancia e nel cuore, tutte cose che assolvono al loro dovere come una perfetta meccanica estrosa.
Con la tracotanza accorata di certi Modà “Campo di Nervi, la focosità di lontani Afterhours “L’Eremoe la leggerezza sofisticata di taluni Negroamaro “Ci-viltà”, i Divanofobia esordiscono nel migliore dei modi, si affidano alla mera melodia laddove altri lasciano il rumore molesto della rabbia, ricamano liriche profonde nei luoghi in cui molti sperperano personalità nulle, ed intendiamoci non è il classico disco di rodaggio, la prima “volta brufolosa” di un’emulazione dei grandi, ma un compendio di maturità sorprendente che costituisce un già sdoganamento nei gironi superiori dell’underground, in alto verso le mete main che ora come ora sono vuote strade in cerca di nomi e cognomi nuovi di zecca. Il macramè aggrovigliato di corde acustiche e tensione accumulata sullo stile Marlene Kuntz “Non Farti Corrompere” e la traccia opposta della tracklist “Fidia”, poesia solitaria di purezza innocente sulle corde  di uno splendido Mussida, fanno da punti cardinali per un disco in cui la paura di perdercisi dentro è  molta, ma come disse qualcun altro “ è il naufragar m’è dolce in questo mare”.

Da ascoltare in un pomeriggio uggioso col sole dentro.

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Shed of Noiz – Re: Son

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Ci son voluti poco più di quatto anni per la pubblicazione del primo album degli Shed of Noiz, band fondata da Mattia Salvadori, Dario Sardi, Giulio Panieri e Luca Bicchielli che esordì dal vivo al premio “Rossano Fisoni” nel dicembre 2008.
L’impatto con “Re: Son” è davvero all’insegna del Rock anni 2000 con la titletrack che mette subito in chiaro che la stoffa del gran disco c’è anche se con la successiva “Inno Qui” il gruppo riesce persino a superarsi nella bravura e nella precisione, con un sincronismo davvero perfetto.
“Immutevole” invece inizia con tutta l’irruenza che avrebbe un pezzo dei Rage Against The Machine (molte le similitudini con “Killing in The Name of”) e la lingua italiana non limita la violenza sonora anche se rimarrebbe da porsi la domanda “ma come suonerebbe in lingua anglofona?”.

“Corri Dora” invece riprende la dolcezza dei Marlene Kuntz, quelli di “La Canzone Che Scrivo Per te” tanto per capirsi, ma lascia anche spazio a rari momenti un po’ più impulsivi ed aggressivi.
“Psico Area” se il disco fosse in vinile sarebbe l’ideale inizio della facciata b, per il suo spezzare il tutto, perfetta nel suo ruolo da spartiacque sonoro con “Aurora” altra traccia dalla delicatezza unica e dal testo molto profondo (bellissimi i versi “dentro il vento io mi trascinerò nel silenzio se ti incontrerò”).
“Senza Peso” avvicina l’ascoltatore alla fine (peccato!) con sonorità che ricordano da vicino i PorcupineTree di Steven Wilson e Richard Barbieri e si conquista il ruolo di piccolo fiore nel giardino del moderno rock progressivo.

“Infetto” chiude all’insegna del miglior Stoner all’italiana ma anche dei Queens of The Stone Age e Tool, tanto per non perdere i riferimenti esteri.
Una prova di esordio insomma perfetta in ogni singolo dettaglio con un drumming sempre impeccabile e preciso a far da padrone con basso, chitarre e voce non relegati  al ruolo di semplici comprimari come spesso succede in questi casi ma a quello di protagonisti di un’amalgama che ha davvero dell’incredibile.
Peccato solo che le tracce siano appena otto, sarebbe stato perfetto magari includere anche gli ep  Shed of Noiz (2009) e Primates (2010) anche per non perdere il filo del discorso di una maturità acquisita negli anni grazie anche a tanti concerti a fianco di band quali Ministri.

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Disorchestra – Umano Disumano

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I Disorchestra, trio formato dal cantante, chitarrista e autore Giulio Marino, dal bassista Emanuele Ciampichettie dal batterista Alessio Palizzi,che nel 2012 esce con l’album d’esordio intitolato Umano Disumano, due termini antitetici per spiegare l’umano, inteso come attenzione all’Essere, sostituito da una disumanizzazione spietata dell’individuo.

Un lavoro di tredici brani che si muovono nel Rock Cantautorale tipicamente italiano, a tratti alla Marlene Kuntz, pieno di elementiteatrali nell’uso della voce e soprattutto poetici nei testi molto fitti, come loro stessi dicono senza molte pretese, che come nella maggior parte delle volte nella sfera cantautorale esprimono il mondo interno dell’artista, con i suoi sentimenti, pensieri, passioni e preoccupazioni, confrontandosi poi con la parte oggettiva del complicato mondo contemporaneo. L’andamento del disco appare però fin troppo omogeneo, nella parte vocale sempre uguale a se stessa nel modo di cantare parlando, nel ritmo e nella parte strumentale che potrebbe esplodere in sonorità più Rock ma invece non lo fa se non ne “La Camera Elettrica” che sottolinea soprattutto nella batteria l’ansia di vivere e in “Non è Nessuno”rabbioso e dolce allo stesso tempo. Interessante è invece “La guerra dei Poveri” ultimo brano del disco che finalmente sperimenta nuovi orizzonti sonori con un country ironico sulle guerre quotidiane contro nemicisbagliati per la gioia di un potere che si ricicla e ingrassa… e brani come questo spiegano perché la musica e il cinema riescano a raccontare la realtà e la vita in modo più facile e sincero rispetto alla politica fasulla. Peccato che poi poeti musicali come Franco Battiato si siano lasciati trasportare dall’infamia e dalla lode di un mondo forse troppo lontano dall’arte musicale, facendola vergognare di espressioni sempre più volgari.

Umano e Disumano, quindi, è un lavoro “adulto” forse un po’ troppo e un po’ troppo carico del peso della vita, con i suoi riferimenti all’amore finito, alla mafia, alla tossicodipendenza, alla perenne agitazione dell’individuo nonché del popolo. Tutto questo certamente è utile per spingere la gente a pensare e a riflettere invece di farsi trasportare dalle mode, ma dal punto di vista della melodia che viene definita asciutta, sembrerebbe un lavoro che con molta difficoltà lascia trasparire qualche brivido musicale. Tutto sommato un buon esordio, ma per finire un consiglio: uscire dagli schemi e colorare il Cantautorato con altre sfumature musicali forse sarebbe una strada da imboccare, tanto male che vada si può sempre cliccare il tasto cancella.

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Lolaplay – La Città Del Niente

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La seconda canzone del nuovo disco dei Lolaplay, La Città Del Niente, è “Non Comprate Questo Disco”!
Davvero un titolo insolito, soprattutto se consideriamo che il rock dei Lolaplay ben si applicherebbe anche a folle oceaniche quali quelle presenti in eventi prestigiosi quali il concertone del Primo Maggio a Roma.
E dire che il ritornello dice chiaramente “non comprate questo disco e non ascoltate i Lolaplay o ucciderete anche voi la buona musica!”
Eppure proprio della buona musica è contenuta in questo disco fatto di tanto cuore, passione e soprattutto chitarre, batteria e bassoche vi entreranno nella testa in ogni singola nota!
Loro dicono che questa città è pazza e puttana, che” sembra che ti dia invece lei prende” ma pensandoci bene forse tutta la società forse è un po’ così ed è forse vero che non c’è “nessun posto in cui potrete scappare”.

“Musa” è una ballad straziante e commovente, una chiara dichiarazione d’amore a colei che è la migliore offerente per un cuore non ancora distrutto dal nobile sentimento.
“Signorina Paranoia” ha qualche riferimento alla new wave anni ottanta eal rock dei Dandy Warhols che diventarono famosi con la loro “Bohemianlikeyou” grazie a uno spot di una nota compagnia telefonica.
“Antidoto” è un pezzo onirico con qualcosa di magico così come il successivo “Fantasma” anche se i due sono antitetici nello stile e nella metrica delle liriche.
“Il Paese Dei Balocchi” si scaglia contro il “popolo di servili geni”, contro i reality show per far capire quanto ci sia di malato in questa Italia ormai ridotta all’osso dalla crisi.
“Confessione di un Killer Sentimentale” è una sorta di lettera da parte di un sano o di un pazzo che ci insegna che “elemosinare carezze ci può uccidere” e che se metabolizzato l’amore può trasformarsi in odio.

“Talk Show” unisce sperimentazione sonora su basi rock e dance con elettronica dosata e testi lontani dall’intimismo, tra realtà e visione onirica.
Chiude il tutto “La Sposa”, piena di echi dei Marlene Kuntz più gentili, che è una sorta di ultimo bacio di una splendida ragazza con cui vi verrà voglia di fare nuovamente l’amore.

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Malatempora – Vite Parallele

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“Castelli di Sabbia” apre questo ep (anche se suona strano chiamare così un disco seppur virtuale che contiene ben sette pezzi per una durata totale di poco più di mezz’ora).
Nel brano scorgerete echi dei Marlene Kuntz un po’ dappertutto, con qualche piccola mescolanza al dark anni novanta, che non mancheranno di riempirvi il cuore di gioie ed emozioni.
“In Aria” per parafrasare il titolo di uno noto libro vi porterà “Tre Metri Sopra il Cielo”, più in alto delle nuvole, già dal parlato iniziale e dalle melodie (davvero intriganti con quel tanto di effetti che bastano ad ammaliare l’ascoltatore) delle chitarre.
Subito dopo invece viene naturale chiedersi chi sia la “Ilaria” a cui è dedicato il titolo del brano successivo, protagonista di un passato (ancora vivo?) che ritorna.
“Il Pifferaio” invece porta più che in un tempo remoto in una dimensione diversa con i suoi sounds che paiono usciti da una colonna sonora di quei telefilm anni settanta di fantascienza (Star Trek e Dr. Who ad esempio) ma con un fading eccessivo (che forse è l’unico difetto del brano e che secondo il sottoscritto andrebbe rimosso perché quei secondi di silenzio, diciamocelo, non hanno senso).
E con “Moniti Lontani”, come dicono i Malatempora stessi, piano piano ti allontani ancora più verso una destinazione ancora ignota.
“Vetri e Calci” infatti discorda con tutto quanto sentito finora ma non è detto che ciò sia un male perché è forse l’episodio più riuscito in assoluto in cui questi ragazzi della provincia di Salerno danno il meglio.
“Mentre tu te ne Vai (Il Mio Risveglio)” chiude questo lavoro che di immaturo ha ben poco e a cui basta davvero poco per poter essere un prodotto “commerciale che possa giungere alle orecchie di tutti.
Perfetto per l’airplay, un po’ meno forse per essere riproposto in concerto (sarebbe troppo difficile e forse un po’ assurdo riprodurre con maestria tutti i suoni) questo disco è un puro concentrato di vibrazioni sonore.

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Bachi da Pietra – Quintale

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Sono solo in due e sembrano quindici. I Bachi da Pietra si presentano con un album nuovo, Quintale, che si discosta parecchio dal rock blues delle produzioni precedenti. Appena parte “Haiti” si viene subito sbalzati in una dimensione di rabbia cupa e graffiante, dov’è il noise a far da padrone. E l’incazzatura prosegue in “Brutti Versi”, con un larsen in lontananza che sembra esplodere da un momento all’altro, lasciandoci a bocca asciutta quando la crescita viene ritardata ed espressa con sdegno dalle parole “Il danno è doppio / Uno per me, uno per il mondo” e da un riff sanguigno alla chitarra. “Coleotteri” è una cavalcatona grind che, forse volutamente?, cita la frase “Libero di Essere” di “666” dei Linea77 e insinua il germe del basso, del viscido, dell’oscuro, che caratterizzerà tutto il brano. Gli insetti, il sangue, la religione e il perdono sono i grandi argomenti trattati dal duo, che si prende una pausa dall’incazzatura feroce con “Enigma”: rime argute e insolite e riferimenti al mondo musicale, spesso autoreferenziali, come quello al fonico di palco, ad Audioglobe o La Tempesta, che è la casa discografica della band, contribuiscono alla costruzione di un testo fatto di immagini giustapposte, senza apparente connessione, ma profondamente suggestive. “Fessura” e “Mari Lontani”, una marcia, quest’ultima, con uno splendido dialogo tra la voce in primo piano e la back voice sulla chitarra distorta, ricordano parecchio, soprattutto per il trattamento melodico strumentale, i Marlene Kuntz. Entrambi i brani sono più meditativi dei precedenti e di andamento meno mosso. La religione è la protagonista di “Pensieri, Opere, Parole”, con l’intro grind cantato in inglese e successivamente ripreso in italiano: il perdono è negato o semplicemente rifiutato, cancellato come la parola “omissioni” che viene sostituita dalla musica e dalla parola Rock’n’roll, che in fondo è l’unica vera fede, l’unica vera attitudine. E con “Paolo il Tarlo” ci si fa beffe ancora una volta la liturgia cristiano-cattolica, con la frase “generato e non creato” ripresa a piè pari (ma proseguita in modo provocatorio e blasfemo), inserita su una corsa selvaggia della batteria a metà fra i Deftones e i Black Rebel Motorcycle Club con inserti meravigliosamente psichedelici e noise, che proseguono senza soluzione di continuità in “Sangue”: tempi dilatati che quasi non lasciano riferimenti metrici all’ascoltatore, a causa anche di un cantato declamato e registrato su diversi livelli volumetrici che conferiscono un’ideale spazialità scenica alla narrazione. L’incipit di  “Dio del Suolo” ricorda parecchio gli ultimi Afterhours: tornano a strisciare gli insetti e torna il perdono per questa che probabilmente è la traccia più pop e meno incazzata di tutto il cd (e non per questo la meno riuscita, anzi). “Ma Anche No” è una ballata delicata e intensa, sanguigna fin dalle prime terzine legate della chitarra. La versione digitale di Quintale si completa di “Barattoatbachidapietra.com”: la voce comunica in modo sterile che la traccia è registrata in modo amatoriale con un telefono e che non è costata nulla, se non il prezzo dell’apparecchio stesso. Da qui parte un lucidissimo dialogo con un immaginario downloader di mp3 che non si cura del lavoro, del sudore e dell’investimento monetario dell’artista. Allo scaricatore selvaggio viene proposto un baratto: i Bachi da Pietra si offrono di andare a domicilio a farsi rendere qualsiasi servizio a scelta per ogni traccia presa illegalmente dal web.
Non è un disco immediato ed è ideologicamente divisibile in due parti, una più crossover, hard rock, urlata, una più rock-blues, cantata, ricca di sfumature. Preferisco nettamente la seconda, ma entrambe contribuiscono a creare un lavoro molto pregevole.

Ho mancato un loro live nella mia città pochi giorni fa, vi auguro di non fare lo stesso.

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Polar For The Masses – Italico

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Con “Italico” i Polar For The Masses fanno quattro, quattro dischi in otto anni che lacerano e segnano a fondo l’endemico tremore dell’underground nostrano, una necessità – la loro – di stare ai margini del rumore per dare vita ogniqualvolta ad un contrasto epidermico e da brivido sottocutaneo che si fa riconoscere subito, immediatamente, all’istante.

Dieci traccianti sonici che sono un trionfo di sonorità onnicolore, un cromatismo plumbeo che si bagna di liquidi elettro, fendenti chitarristici, trillii di esplosioni di basso, urgenze sociali e tonnellate di sudori di vita vissuta, sogni evocati e deliri tormentati; un disco come sempre notevole, carico di pesi e attitudini clamorose, mai fuori tempo e doppiamente interessanti che favoriscono quei piacevoli e solitari momenti di ribellione interna. Marlene Kuntz, Fluxus ed effervescenze alla Bluvertigo d’antan fanno da consapevoli istintività con i quali la formazione – nella sua scrittura estrosa e di attacco – si dota per creare paesaggi e paradigmi eccezionali, una presa diretta di elettricità, shuffle no borders “Laogai”, “Un Uomo, un Voto”, “Ruvido” che si attacca alla pelle come plastica fusa.

Minuti di fuoco e d’azione quelli che questa tracklist sforna a ripetizione, avvolgenti tappeti si suono che portano ad una nuova lettura – oltre che il cantato in italiano – in cui il trio vicentino sfonda, ovvero la maturità agognata per una band che matura già lo era alla partenza e qui confermata alla grande; aggressivamente sensuale in talune parti, il disco dei P4TM è un tripudio di componenti altisonanti, i grandi numeri di un basso incazzato “Terrorismo e Deejay”, la frenesia accalorata di “Wall Street” e l’opulenza marziale e pesante che detta legge in “Mia Patria” non sono altro che i primi effetti di una devastazione interiore e “affacciata” sulle vie sottostanti della vita di tutti i giorni.

Disco “nobile”, drasticamente calato nel nostro tempo e perciò imperdibile. Bentornati P4TM!!

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“Diamanti Vintage” Marlene Kuntz – Catartica

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Fu il salto di qualità dell’underground italiano, un fulmine nella lunga notte esasperata dell’indie, il punto di fusione massima tra grazia e strafottenza elettrica, e pensare che i Marlene Kuntz nessuno se li filava, un classico mescolone di frizzi alla Sonic Youth e nervosi lazzi Einsturzende Neubauten buoni ma fuori tempo, e Catartica fu accolto da debutto come tanti lungo gli anni Novanta, ma fu una mina ad esplosione ritardata, e quando saltò in aria fu – e rimane –  testo rock per tutte le formazioni imbizzarrite che vennero dietro.
Prodotto dal Consorzio Produttori Indipendenti e con la benedizione di Maroccolo e Giovanni Lindo Ferretti, il disco della band di Cuneo fece impazzire i cultori del nuovo rock, della violenza dolce che la formazione modificò e plasmò in una tracklist che è tutt’ora “sacra scrittura”; chitarre al fulmicotone, liriche amarissime, una ritmica a schiaffo/carezza e quella voce serafica e gonfia nel contempo che Godano domava come in un rapporto sessuale, furono queste le alchimie soniche che il quartetto si trascinava dietro, a “spingere” una strepitosa eloquenza distorta con sempre un sole malato a fare da lampadario sopra.
Un disco dove non si butta via nulla, ogni brano – dei quattordici programmati – è sempre più bello di quello che viene prima, una forza di penna e fioretto che taglia e ricuce, e quegli anni Novanta nostrani ne rimasero sconvolti e dannatamente affascinati tanto che definirono il registrato la continuità filologica della parte muscolosa del respiro d’amore; un qualcosa di mistico si muove ovunque, pressioni di maestà e passione sanguigna si ritrovano tra il tellurico di “Festa Mesta”, “Sonica”, nel galleggiamento metafisico “Nuotando Nell’Aria”, “Lieve”, “Gioia (Che mi do)”, nei flussi deliranti di “Mala Mela”, “Non ti Scorgo Più” come nella disillusione umana “Merry  X-Mas”. I Marlene colpiscono a dovere emozioni e profondità recondite, lasciano già al primo vagito discografico il disegno graffiato di un modo di fare rock che fece vittime e ferite nei cuori.

Mai esordio fu  più “grande”, Catartica anche in questi frangenti, è la bocca storta e l’autunno che ognuno vorrebbe rivivere a loop.

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Misachenevica – Come Pecore in Mezzo ai Lupi

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Misachenevica è un nome veramente figo per una rock band, un nome talmente bello da influenzare tutto l’ascolto del cd (davvero!). Ti piacciono subito senza una reale motivazione, hanno un nome grandioso e nessuno può farci niente, sono quelle cose che ti rendono grande o sfigato dall’inizio. Arrivano dal nord est e ci sparano in presa diretta l’album Come Pecore in Mezzo ai Lupi sotto etichetta Dischi Soviet Studio. Il rock italiano più classico degli anni novanta come linea da seguire per orientarsi dentro questo lavoro non sempre coerente con le proprie potenzialità, nel senso che assaporo dei pezzi grandiosi e dei pezzi sinceramente superflui, come presenze indesiderate durante la migliore festa dell’anno. Una festa mesta per evocare i Marlene Kuntz del primo periodo catartico, una potenza meno sviluppata ma comunque sempre dietro l’angolo quella sprigionata dalle chitarre dei Misachenevica, meno graffianti ma molto emozionali. Misachenevica, devo sempre ripetere questo nome fino allo svenimento, ne sono rimasto troppo attratto. Misachenevica. Come Pecore in Mezzo ai Lupi in qualche maniera mantiene viva quella schiera di adoranti sognatori del primo indie (italiano) che vedevano perse le proprie speranze e non riuscivano più a riconoscersi in nessuna manifestazione musicale attuale, le pecorelle smarrite che ritrovano la retta via per rimanere nell’argomento lasciato percepire dal titolo del disco (anch’esso di una bellezza fuori dal comune).

Il pezzo “Figlio illegittimo di Kurt Cobain” lanciato come singolo impressionabile del disco (e qui sotto potete spararvi il video) tira da subito fuori una cattiva essenza di rock duro, primordiale e con una struttura melodica pop orecchiabilissima, si impara subito la strofa di un ritornello studiato alla perfezione e canticchiarla non è poi così male. Indubbiamente non parliamo del disco dell’anno, per quello bisogna guardare altrove ma non tutto è da prendere alla leggera, la band appartiene sicuramente alla fascia buona della musica italiana, quella che sovrasta la cattiva di molte migliaia di distanze. Ebbene il nome della band gioca a loro favore e incuriosisce un vago ascoltatore, se mi trovassi a scegliere un disco alla cieca sopra uno scaffale di un vecchio negozio di dischi la mia scelta  cadrebbe senza esitazioni sopra di loro. I Misachenevica hanno già il potenziale commerciale nel sangue, una produzione più attenta e mirata li renderebbe competitivi sotto ogni punto di vista. Come Pecore in Mezzo ai Lupi al momento rimane un bel ricordo con tantissimo bisogno di conferme future, il vero rock si vede alla distanza.

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Twiggy è Morta! – Credo Mi Citeranno Per Danni

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Prima di buttare totalmente testa e orecchie nelle nuove produzioni del nuovissimo anno duemilatredici, ho deciso di mettermi ancora a spulciare tra quanto è rimasto dell’anno vecchio, sperando di trovare qualche cosa che si faccia maledire per non essere spuntato fuori prima, fosse anche per colpa mia. Fidatevi, non è tempo perso. Solo ieri mi sono deciso, ad esempio, ad ascoltare seriamente l’omonimo esordio dei King Tears Bat Trip, band Avantgarde e Free Jazz di Seattle e cavolo, se l’avessi fatto prima… In realtà non sarebbe cambiato un cazzo. Forse avrei ascoltato solo un paio di dischi di merda in meno ma non è neanche detto e forse avrei inserito quell’album nella mia classifica di fine anno, cambiando radicalmente la vita di ogni essere umano. Avrete capito che, in realtà, l’unico motivo per cui si va alla ricerca di qualcosa di bello è semplicemente per udire qualcosa di bello (wow, che scoperta rivoluzionaria) e allora, come già detto, eccomi a rovistare tra le vecchie uscite sperando di essere colpito dal disco giusto.

Twiggy è Morta! Oddio chi era Twiggy? Quella modella inglese supermagra di qualche decennio fa, se non ricordo male. Deve essere proprio il suo, sulla copertina di Credo Mi Citeranno Per Danni, quel volto, tutto scarabocchiato, come vi capita di fare con la foto di Michele Cucuzza in prima pagina alla Settimana Enigmistica, quando seduti sul cesso, noia e stitichezza, avanzano tra le vostra budella.
Molto accattivante la cover. Ho scelto cosa ascoltare.
Sembrano fare le cose in grande questi romani, almeno all’apparenza. Hanno anche un manifesto:
“L’arte è citazione. L’artista copia, il genio ruba. Ridiamo l’arte agli artisti! Twiggy è Morta! Significa che l’arte è morta. La musica è morta, verso un decadimento apparentemente irreversibile. Twiggy è il simbolo, la musa, il feticcio utilizzato. Se prima nascevano i Modena City Ramblers, i Diaframma, i Verdena, gli Afterhours, Paolo Benvegnù o Moltheni, ora è il tempo de Lo Stato Sociale, I Cani, Dente: musica da quattro soldi fatta di slogan in un periodo in cui nessuno ha più niente da comunicare. È tempo di ridare all’arte la sua collocazione.”
Direi che chiamarlo “manifesto” è un po’ eccessivo, però spiega bene il senso di quello che vogliono o forse vorrebbero fare. E poi, cazzo, hanno le palle di dire quello che sembra impossibile da far dire a qualunque artista, soprattutto emergente, del mondo Indie italiano. Lasciando stare il mio giudizio, hanno il coraggio di proferire parole come… ora è il tempo de Lo Stato Sociale, I Cani, Dente: musica da quattro soldi fatta di slogan… Parole che mai, nel corso di un’intervista anche con veterani della scena, sono riuscito a cavare dai loro (dei musicisti) denti. Già solo per questo, Twiggy è Morta! mi fa simpatia. Mentre scorre il loro Ep, cerco di capire chi sia questa band. Come detto, si tratta di quattro ragazzi laziali, Paolo Amnesi (voce e chitarra), Andrea La Scala (chitarra), Valerio Cascone (basso) e Simone Macram (batteria) con già all’attivo un Ep autoprodotto e più di cinquanta esibizioni live e un bootleg, L’arte Marziale (lo trovate in download gratuito o anche su You Tube), tratto un loro live alla Festa De L’Unità. Come avrete capito, i Twiggies (pare che cosi si facciano chiamare) si sono dati un ruolo da supereroi nel mondo Indie, salvatori della musica contro il male rappresentato dalle canzonette nostrane. Assolutamente niente da dire. Anzi, magari ci fosse qualcuno a ridare linfa artistica alla nostra musica. L’unica cosa che mi viene da sostenere è: “Non è che state esagerando?”. Magari converrebbe prima scrivere, suonare, farsi sentire, costruire arte che non lo sia solo per chi la fa, ma anche per chi ascolta e poi, aspettare che qualcuno si renda conto, magari con qualche aiuto, che questa è Musica e non Lo Stato Sociale o I Cani. Non lo dico perché l’arroganza può essere antipatica ai più ma soprattutto perché si rischia di fare la figura dei coglioni.
Intanto che il primo album Le Parole Sono Un Muscolo Involontario, sempre per l’HitBit Records, sarà pronto, io continuo ad ascoltare questo Ep. Sentiamo che succede.
Succede che si parte con il Rock molto classico de “Il Parossismo Del Cuore”, brano che nella sua semplicità melodica e nelle sue esternazioni derivative è abbastanza apprezzabile anche se non proprio originale. Ma questa cosa dell’originalità, come avrete capito, non riguarda necessariamente l’arte o il genio, almeno a detta di tanti, tra cui i nostri Twiggies (vedi il manifesto). Se da un punto di vista musicale i possibili riferimenti sono tantissimi, sia italiani sia stranieri, in ambito vocale, si sfiora in maniera preoccupante non tanto la copia o il furto, ma la parodia involontaria di Giovanni Gulino (Marta Sui Tubi) e Pierpaolo Capovilla (Il Teatro Degli Orrori). Più distesa l’atmosfera di “Crepapelle”, che insegue, a differenza del brano precedente, linee soprattutto vocali più Pop, anche grazie ad armonie sonore languide e struggenti e un cantato a volte quasi solo sussurrato. Con “Legno”, la musica di Twiggy è Morta! sembra fare per un attimo un passo indietro, verso le sonorità del Rock alternativo anni ’90 stile Diaframma, fatto di riff puntuali e mai ridondanti. Il testo non si occupa più dell’amore ma guarda prima all’esterno, attraverso un pessimismo letterario che vi sfido a riconoscere e poi si fionda alla ricerca del genio presente dentro l’animo di ognuno di noi. L’ultimo brano, “A Bocca Aperta” è quello che più di tutti, specie nella sezione ritmica, richiama il sound delle nuove leve della No Wave, come Editors, Interpol, The National, ma anche dei Piano Magic ultimo periodo. Il testo invece sembra essere una specie di manifesto (anch’esso) di quello che significa Twiggy è Morta!, affrontando il tema della bulimia culturale e sociale in un metaforico parallelo con l’anoressia di una modella come Twiggy, appunto.

Nel complesso, quello che ho tra le orecchie è un buon Ep per una band in cerca del suo spazio che mostra ottime capacità esecutive ed anche una certa discreta voglia di essere diversi dalla massa, attraverso la riscoperta di una qualche forma di classicità Rock e soprattutto una scrittura lirica fortemente “arrogante” e concettualmente aggressiva. In realtà, preso come punto di riferimento quello che dovrebbe essere l’obiettivo della band palesato nel proprio manifesto, ci sono alcune cose che non vanno. Innanzitutto, in molti passaggi, non è chiaro quale sia il ruolo dell’ironia nelle loro esternazioni.  Inoltre, fermo restando e preso per buono il concetto che anche l’artista o il genio possono copiare o rubare, è anche vero che artista e genio, quando imitano, migliorano. Nel nostro caso, preso come punto di riferimento il Blues e il Rock Alternativo, la musica dei Twiggies, vi ruota attorno, schiantandosi di volta in volta contro Marlene Kuntz, Placebo, Afterhours, oltre ai già citati, senza mai riuscire, partendo dalla propria orbita, a seguire una strada diversa e comunque più efficace. In merito ai testi, certamente non possiamo negarne l’originalità e sicuramente, sotto questo punto di vista, la loro voglia di distinguersi dal gregge è ben rappresentata ma è anche vero che non ci sono molti spunti davvero poetici o affascinanti.
Credo Mi Citeranno Per Danni è quindi un Ep pieno di buona musica, stracolmo di buoni propositi ma anche una piccola delusione, visto l’obiettivo posto dai quattro laziali.
La speranza è che, con l’uscita del prossimo disco, alcuni limiti possano essere superati. Non vorrei minimamente che ridimensionassero la loro filosofia, anzi. Voglio solo che ce la mettano tutta per dimostrarci che la loro musica non è intrattenimento ma arte, voglio che ci facciano vedere che “se prima nascevano i Modena City Ramblers, i Diaframma, i Verdena, gli Afterhours, Paolo Benvegnù o Moltheni” ora non è solo il tempo de Lo Stato Sociale, I Cani, Dente ma anche di band ancora capaci di creare opere d’arte. Magari band dal nome Twiggy è Morta!.
Una cosa importante che dovrebbero comprendere i Twiggies è che la musica ha la forza di essere arte, a volte intrattenimento o anche tutte e due le cose. L’errore è di chi scambia l’una per l’altro più che di chi fa l’una o l’altro, sempre che non spacci i suoi cazzeggi per opere di valore assoluto. Non è colpa de Lo Stato Sociale, se il loro fare canzoni per divertire e divertirsi è stato scambiato da qualche idiota per il futuro della musica italiana. Prendersela con loro sarebbe come prendersela con chi fa i meme, incolpandoli di distruggere il valore artistico del fumetto. Se cercate dei nemici, cercateli tra chi si annoia a vedere Lars Von Trier e si fionda al cinema per Boldi a Natale, tra chi legge Fabio Vola e ne decanta le capacità filosofiche al bar, tra chi ascolta I Cani convinto della loro genialità e sparla del ritorno di “quel vecchiaccio” di David Bowie. Loro sono il Male. La gente è il Male. L’ignoranza è il Male.

http://www.youtube.com/watch?v=9qUIOo02COw

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Impressioni di Sanremo

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La “terra dei cachi” ci ha da sempre abituato alla monotonia e alla monocromaticità. Si parla di musica è vero, ma di musica che non solo si ascolta dalle “monotone” casse della TV ma la si osserva pure dal suo tubo catodico, con quell’occhio critico da casalinga frustrata che ci portiamo nel DNA tutti noi italiani.
Il festival della canzone nostrana attrae non poco l’italiano medio che di musica “mediamente” non sa una mazza di niente. Eppure come davanti a una partita dei mondiali, diventiamo subito tutti critici esperti. E critica sia. Da quanti anni siamo costretti a sentire le solite opache invettive nelle prime pagine di tragici settimanali scandalistici, o in noiosi talk show che evidenziano le sbavature di mostri (più o meno) sacri della nostra canzone popolare?

Altro che rose sboccianti, il povero Festival sembra tutti gli anni chiudere i battenti in mezzo ad una triste composizione di crisantemi.
Che la musica italiana sia davvero morta? Puo’ darsi, se ci si limita a dar retta ai soliti melodici incravattati o ai residuati dei reality show. Ma il mondo è bello perché vario, siamo d’accordo? E così ricordo con piacere che Sanremo è stata teatro di grandi scoperte, anche negli ultimi anni, penso a Negramaro, Raphael Gualazzi, ma anche ad Elisa e non mi sono sforzato neanche troppo per tirare fuori tre grandi nomi.
Forse ad uccidere il Festival non è la canzone mielosa e stracciapalle, ma proprio l’ottusa visione di un audience che ancor prima di sentire l’ombra di melodia celebra il suo funerale.

Nulla di nuovo, e la storia si ripete anche quest’anno con le polemiche da bar intavolate dai fan dei Marlene Kuntz per la loro presenza a Sanremo.
Venduti e incoerenti. Fighette isteriche pronte ad incipriarsi per vendere qualche disco in più. Impuri. Proprio come lo furono Afterhours , Silvestri o Frankie Hi Nrg (anche qui niente sforzo a trovare tre nomi). Commerciali schifosi, come se vendere quattro dischi in più e farsi conoscere da qualche quindicenne arrapata sia uno scempio e una vergogna.
Credo che detto questo io inviterei tutti a leggere il comunicato stampa dei Marlene (presente in un altro articolo qui su Rockambula) e non sprecherei altre parole su quanto mi stupisca sempre dell’intramontabile moda di indossare paraocchi.

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