L’ultima fatica degli Albedo è un ancora una volta un concept album, anche se in senso meno stretto rispetto al poetico viaggio nel corpo umano che fu Lezioni di Anatomia un paio di anni fa. Gli spunti che trae dal capolavoro di Fritz Lang da cui mutua il nome confluiscono nelle atmosfere e nelle liriche, tracciando un filo conduttore mai troppo vincolante, che rende l’album un lavoro organico ma che lascia spazio a molti temi: la città e le sue contraddizioni, l’incomunicabilità di realtà sociali che coesistono senza toccarsi, ma anche la religione, i confronti generazionali, i meccanismi con cui si innesca l’odio. Sembra un po’ che le dieci tracce di Metropolis si prendano l’onere di andare a verificare le inquietanti previsioni di una quella che fu una pellicola estremamente lungimirante. Metropolis non è immediato come il suo fortunato predecessore perchè è meno irruente: la tracklist è intervallata da incisi di pochi minuti che conferiscono un ritmo un po’ inusuale all’ascolto, per poi srotolare gli episodi più catchy alla fine, senza mai ricorrere ad escamotage sfacciatamente Pop. Se Lezioni di Anatomia ha il pregio di colpire al primo ascolto, in compenso Metropolis merita tutti gli ascolti che necessita. Il sound poggia su un valido Alt Rock che si concede ispirazioni Post Punk (“Partenze”) e New Wave (“Replicante”) e costruisce un mood inquieto e viscoso fatto di giri di chitarra ben assestati, che spingono sulle parole scelte con cura. Il songwriting è tagliente sia nelle citazioni più testuali, come in “La Profezia”, meno di due minuti di piano e riverberi per dipingere le vuote esistenze dei privilegiati in cima ai grattacieli della città di Metropolis, che nelle derive più introspettive (“I Miei Nemici”, “Sei Inverni”) e nei quesiti spiazzanti di un dialogo in prima persona con Dio (il singolo “Higgs”). A starlo a sentire, il Rock degli Albedo non sembra affatto volersi attardare su strade già percorse, e con radici sonore ben piantate si dimostra capace di trovare ogni volta il modo giusto per raccontare una nuova fase. Buon per tutti, compresi noi.
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Albedo – Metropolis
Metropolis, il nuovo concept album degli Albedo
Uscirà il 16 marzo in digitale e Cd per etichetta Massive Arts (Fratelli Calafuria, Nadar Solo) e free download per V4V-Records, Metropolis, il quarto disco degli Albedo reduci dal successo di Lezioni di Anatomia (V4V-Records 2013). Metropolis è il quarto disco in studio degli Albedo. Il titolo è un tributo al capolavoro omonimo di Fritz Lang, capostipite della fantascienza al cinema. Metropolis si sviluppa infatti come un racconto, una sorta di moderna Odissea, ambientato nel futuro, in rigoroso ordine cronologico e narrato in prima persona. È la storia di un allontanamento obbligatorio, di un viaggio oscuro dalle terre di origine del protagonista, devastate dalla povertà e dalla miseria, verso un grande agglomerato urbano, Metropolis appunto, alla ricerca di una via d’uscita, di un modo per reagire, per cambiare il proprio destino dettato da una ancestrale profezia. La spinta al benessere materiale, negli anni, tocca territori più profondi nello spirito dell’io narrante, che avvia una disperata ricerca di se stesso: “Chi sono io? Da dove vengo?” Queste domande sorprendono per la loro spiazzante semplicità ma sono solo il principio di una feroce analisi di una civiltà distratta, meccanizzata e spersonalizzata, senza più un Dio a dare conforto o in cui credere, espressa dal punto di vista del protagonista, innocente, puro, giacché giunge da un luogo lontano, diverso e distante dall’inumana Metropolis. Un racconto nel futuro proiettabile a ritroso, nel presente, che attraverso il linguaggio della metafora, riferimento continuo nella poetica della band, svela e analizza vizi e perversioni dei tempi di oggi”.
Nadàr Solo – Diversamente Come?
Diversamente come? Partiamo da questa semplice quanto necessaria domanda. Domanda che blocca in uno stato di estrema staticità. Ci dimeniamo, sbraitiamo, ci incazziamo contro un sistema, una quotidianità che non riusciamo proprio ad accettare. Ma poi da dove iniziamo domani mattina? Come muoveremo i nostri muscoli per fare in modo che questo presente ci appartenga di più? Come faremo a sfruttare le opportunità se ad un certo punto ci prendessero per mano? Avremo anche solo il timido coraggio di stringerla questa mano oppure ce la faremo sfuggire? Se questo “vento tornasse a soffiare” sapremmo cosa fare oppure rimarremo fermi noi, attori di un vigliacco scambio delle parti?
Da quanto avrete capito il nuovo dei torinesi Nadàr Solo ha suscitato in me parecchi quesiti. Incastonati uno dietro l’altro. Un disco che muove le rotelle del cervello con le sue parole fitte e dirette, tra piccoli drammi quotidiani e decadente cultura popolare, tra poesia di strada e luoghi comuni smontati, tra le miriadi di filastrocche accompagnate da sali e scendi che accompagnano le nostre sensazioni. Questo album è per altro suonato benissimo, non eccede e segue la sua linea dritta, a volte fin troppo sicura e marcata. In ogni caso il suono si plasma sempre perfettamente sulle corde e sui testi di Matteo De Simone, arrivando a graffiare dove la sua soave ugola accarezza.
Ma torniamo alle domande. No, non troviamo risposte, ma solo altri punti interrogativi. Sempre più fitti, sempre più ampi e che allargano il cerchio come il disegno di una nuvola pasticciata che copre sempre di più un cielo azzurro, nuvola che perde la sua forma ma non il presagio di pioggia. E presagio è anche il coro inaspettato nell’apertura di “Non conto gli anni”, sintomo di uno stato confusionale costante. Corsa forsennata a testa bassa, corpo ricurvo in avanti. Tentativo disperato di spostare l’aria statica che ci circonda, il tutto poi arricchito da basso bello pulsante, rullante magistrale e qualche chitarrina alla Coldplay che male non fa e colora un po’ la grigia nube che inizia ad infittirsi.
Le occasioni per tirare il fiato ci sono, boccate d’aria amara e malsana in “La ballata del giorno dopo”: lentamente ci torna su tutto lo schifo. La canzone dell’hangover rende davvero ridicoli noi che continuiamo a giocare al “carpe diem” nei tristi sabati sera metropolitani. “Le case senza le porte” ci consegna una band in splendida forma: dinamica, passionale, dall’anima viscerale, primordiale. E poi non lamentatevi che in Italia non abbiamo band rock’n’roll. “L’amore sta nelle case in rovina che cadono a pezzi senza padrone, sta nelle case senza le porte, che quando piove ci posso entrare, ma cosa volete che sappia io che non sono capace ad amare”. La pioggia inizia a scendere ma sappiamo momentaneamente dove ripararci. Uno dei momenti più lucidi del disco.
Il manifesto dei Nadàr Solo rimane indubbiamente “Il vento” che vanta la partecipazione de Il Teatro degli Orrori al completo. Quest’altra perla di magistrale musica popolare ci descrive alla perfezione lo stato d’animo che aleggia nel disco. La voce di Capovilla rinforza e riesce a delineare tutte le linee pasticciate nel cielo. Angoscia? Forse. Per ora mi accontento di un pezzo che è pura esplosione di emotività. E tra la gigantesca nuvola grigia confusamente disegnata si intravede qualche sprazzo di azzurro. E tanto rosso.
NADAR SOLO
E’ una delle poche volte in cui avverto un’attesa, tensione positiva. Una fionda tirata quasi a strappare l’elastico. Pronta a lanciare un sassolino intento a crepare la dura corazza di indifferenza verso la musica che nasce dalle cantine piemontesi. E che troppo spesso nelle cantine ci rimane.
I Nadar Solo sono attivi dal 2005 nel nome del rock italiano dritto e vero. E ora sono ben pronti a presentarci il loro nuovo album: “Diversamente come?” (Massive Arts, nei negozi dal 29 Gennaio). Da qualche giorno gira in rete il video de “Il vento”, brano che anticipa il disco e (giusto per aprire un po’ di più la crepa) si avvale della partecipazione de Il Teatro degli Orrori al completo.
Ma quali crepe allora! Tocchiamo ferro, ma qui ci sono tutti i presupposti per spaccare a colpo sicuro la corazza. Rockambula incontra Matteo De Simone, voce e basso della band.
Intitolate il disco con una domanda spiazzante. Ma che cos’è secondo voi “il diverso” al giorno d’oggi?
Matteo: Il diverso è sempre stato ed è ancora tutto quello che ci fa paura. Assume un colore negativo quando lo viviamo come una minaccia ai capisaldi della nostra sicurezza, perché contiene in sé la possibilità del cambiamento. Ma la possibilità di un cambiamento può significare anche speranza nel momento in cui il nostro presente sia tutt’altro che sicuro e confortevole, come in questi anni difficili. Il grande Monicelli disse “La speranza è una trappola” e questo è vero su un piano politico, ma sul piano individuale la speranza è il motore dell’evoluzione personale, il presupposto per un’esistenza progettuale e soddisfacente. Il problema oggi è ritrovare la fiducia nella possibilità di un cambiamento, perché la trappola in cui siamo invischiati non è la speranza, ma la sua morte: l’apatia, la rassegnazione. La domanda del titolo è la domanda di chi non sa che pesci pigliare.
Nel disco precedente “Un piano per fuggire” (Massive Arts, 2010) dominava il desiderio frenetico di scappare, di voltare pagina, di rifugiarsi nell’isola che non c’è. Ora invece sembra che vi siate fermati ad affrontare la cruda realtà. La guardate in faccia e non è per nulla divertente. Fuggire rimane un’alternativa valida o è pura illusione? Come sono cambiati i Nadar Solo in questi tre anni?
M: Quel sentimento sopravvive. In “Le case senza le porte” diciamo: “Perciò tu che non hai gradito quando ti ho detto ‘ora devo partire’, sappi che io ti ho molto capito, mentre tu devi ancora guarire.” La fuga che avevamo e abbiamo in mente è del tutto simbolica e significa che bisogna cercare di vivere mettendo a fuoco quel che davvero conta per un essere umano e per la sua realizzazione interiore. In fondo decidere di fare i musicisti e ancor di più in questo Paese e in questo momento storico è il nostro piano per fuggire e quello di molti altri. Probabilmente tre anni fa eravamo un po’ meno maturi e così ci siamo concentrati sulla fuga. Questa volta ci siamo messi a studiare per prima cosa il carcere che ci rinchiude, che forse è il punto di partenza migliore perché un’evasione vada a buon fine.
Nonostante i testi riflettano spesso frustrazione e rabbia, la vostra musica rimane calda, rossa, propositiva. Quanta speranza c’è nelle vostre canzoni?
M: Tanta. Ed è tutta nella musica.
Il vostro nome è preso da un film argentino semisconosciuto che racconta la storia di un adolescente che cerca suo fratello. Cosa vi ha portato ad usare questo nome? E qual’è il filo logico che connette la pellicola alla vostra musica?
M: Ci piacque il film, che parla della solitudine dell’adolescenza con grande autenticità, e il suono del nome. E poi proprio in quel periodo ci apprestavamo a registrare il nostro primissimo album/demo completamente autoprodotto. Facevamo tutto da soli, così come abbiamo continuato a fare per un bel po’ e l’idea di chiamarci “Nuotare da solo” ci sembrava azzeccata.
Il vostro sound a mio avviso è un ricco e personalissimo mix tra: il pop dei Coldplay, l’hard rock dei Led Zeppelin, lo zoccolo duro degli Afterhours, filastrocche punk e le migliori melodie della canzone italiana. Cosa vi appartiene di più? Quando da ragazzini avete iniziato a suonare cosa vi immaginavate di diventare?
M: Penso che non ci immaginassimo granché. Eravamo influenzabilissimi, le mode del momento ci passavano accanto e ci seducevano e da tutte quante prendevamo quasi senza rendercene conto. Ci è voluto un bel po’ di tempo per sviluppare una poetica personale che è naturalmente un mix di tutti i nostri ascolti passato nel filtro delle persone che siamo diventate. Tutte le band che hai citato fanno parte dei nostri ascolti e tutte ci appartengono più o meno allo stesso modo (i Coldpay forse un po’ meno…).
Impossibile evitare questa domanda. Io non sono assolutamente un estimatore de Il Teatro Degli Orrori, ma la presenza di Capovilla e della sua band nel vostro brano “Il vento” aggiunge colore (molto scuro) al pezzo. Raccontaci un po’ come vi siete conosciuti e come è nata la collaborazione.
M: Ho scritto per la prima volta a Capovilla nella primavera del 2011. Stava per uscire il mio secondo romanzo, “Denti guasti” e gli dissi che mi sarebbe piaciuto avere una sua prefazione. Lo lesse molto in fretta durante il tour coi One Dimensional Man e nel giro di una settimana mi mandò lo scritto. Poi abbiamo organizzato un reading improvvisato durante Il Traffic Festival di quell’anno, poche ore prima della sua esibizione con Il Teatro degli Orrori. Ci siamo divertiti e all’inizio del 2012 si è presentata l’occasione di mettere in piedi un vero e proprio tour di letture. Abbiamo passato una settimana insieme giorno e notte, tra prove e viaggi da una città all’altra e a quel punto, quando di lì a poco con i Nadàr Solo abbiamo cominciato la preproduzione dell’album, è venuto naturale chiedergli di cantare con noi una parte di un brano. Quello che non ci aspettavamo è che lui ci chiedesse di poter partecipare anche come autore e soprattutto di poter coinvolgere anche Giulio, Gionata e Franz. Ha reagito con un entusiasmo sorprendente.
Rimanendo in tema, il tuo romanzo “Denti Guasti” (Hacca, 2011) narra le vicende di due giovani immigrati e pare essere stato fonte di ispirazione per la stesura dei testi dell’ultimo album de Il Teatro degli Orrori “Il mondo nuovo”. Quanto questo romanzo ha invece influenzato le tematiche del vostro nuovo album?
M: Capovilla ha letto “Denti guasti” proprio mentre – io non potevo saperlo – stava concependo con Giulio e gli altri un concept album sull’immigrazione. E’ naturale quindi che il libro gli abbia raccontato qualcosa, perché trattava proprio degli argomenti che gli stavano a cuore in quel momento. Per quanto riguarda il nostro disco, non c’è invece pressoché nessuna relazione con il romanzo. Anche se per quanto riguarda i testi scritti da me, l’approccio è simile: raccontare storie piccole, concrete, intime, perché l’emozione che ne scaturisce dipinga il sentimento, anche storico, di un’epoca. Questo è quel che cerco di fare. Una band che ascolto molto in questo periodo, il Management del dolore post Operatorio, dice che “La storia è la sommatoria di tutte le emozioni.” Lo credo anch’io.
Rimaniamo in tema collaborazioni e passiamo alla vostra esperienza con il concittadino Daniele Celona. Come ci si sente ad essere la band di un cantautore? Quanto vi sentite “Nadar Solo” in questa situazione?
M: Con Daniele facciamo tutto insieme da anni. Ci ha aiutato a preprodurre “Un piano per fuggire”, mi ha accompagnato nei reading di “Denti Guasti”, abbiamo visto nascere le sue canzoni e suonare con lui è assolutamente naturale. Per noi poi, a parte il fatto che a cantare non sono io, non cambia praticamente nulla: suoniamo esattamente nella stessa maniera.
Siete sotto Massive Arts, etichetta indipendente milanese. Quanto è importante al giorno d’oggi per una band come la vostra avere un’etichetta discografica?
M: Importante, ma non essenziale. Noi siamo fortunati perché la nostra etichetta produce alla vecchia maniera, finanziando il progetto dall’inizio alla fine. Ma la maggior parte delle etichette indipendenti oggi co-produce, il che significa che l’artista si paga il master di tasca propria. Ma se l’etichetta non si trova e dopo lo studio avanza qualche risparmio, il consiglio è di investirli in un buon ufficio stampa.
Torino è vivissima negli ultimi anni e sta sfornando realtà musicali sempre più concrete e personali. Quali sono le band della vostra città che supportate maggiormente?
M: A parte Daniele Celona, ci piacciono molto Bianco e Orlando Manfredi aka Duemanosinistra, che con il nuovo album farà sicuramente parlare di sé. Personalmente mi affascina anche il progetto Niagara di Davide Tomat e Gabriele Ottino.
E ora spara qualche anticipazione del tour. Dove vi porterà questo nuovo album?
M: Per cominciare faremo tre date di presentazione a Torino (Astoria, 27 febbraio) Milano (Cox18, 2 marzo) e Roma (Circolo degli Artisti, 6 marzo) e sarà con noi anche Pierpaolo Capovilla. Subito dopo partirà il tour vero e proprio.
Matteo un bel saluto ai lettori di Rockambula e buon rock’n’roll a te e ai ragazzi!
M: Buon rock ‘n roll a tutti, specialmente ai lettori di Rockambula!