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Sixty Drops – Zodiac

Written by Recensioni

I Sixty Drops sono un collettivo abruzzese che in tempi di auto-tune, casse dritte o distorsioni cattive ha deciso di andare controcorrente tornando alle pacate sonorità Trip Hop di una Bristol anni 90. C’è da dire che sono passati un po’ di anni da quando “Teardrop” dei Massive Attack (1998) ha colonizzato anche le orecchie dei più sordi, ed anche se successivamente Tricky ha aggiornato il genere introducendo elementi elettronici più movimentati, comunque l’essenza di quell’atmosfera sonora opaca e al confine tra tristezza/speranza è rimasta la stessa; e soprattutto sembra rivivere ancora nelle note di Zodiac. L’EP d’esordio di questi baldi giovani si compone unicamente di tre tracce, poche forse direte voi, ma in fondo si preferisce la quantità o la qualità? Io opto per la seconda e ribadisco che qui la qualità sonora non manca. Si inizia con “Nelumbium”, cinque minuti tra beat Hip Hop, suoni Dark, delay ed un botta e risposta tra Jacopo Santilli e Ludovica Mezzadri, due voci che danno il meglio di sé quando risuonano all’unisono. “Down the Light Zone” si lascia invece l’oscurità alle spalle per dare spazio a sonorità Jazz e Chillout, creando una traccia pacata che mette in risalto il basso di Lorenzo Lucci. Si finisce con la strumentale “The Japanese Sundance” che di giapponese ha ben poco (se non dei synth/campana che appaiono sporadicamente), ma che invece di Dance o meglio di “dolce” Industrial ha molto. Il cerchio di Zodiac si chiude in modo incazzato e turbolento, quasi a voler ribaltare la pace dei sensi con cui si è aperto, ma, anche se la traccia è realizzata egregiamente, purtroppo il risultato è quello di lasciare l’ascoltatore spiazzato da un brano che poco centra con il resto dei suoni e le emozioni suscitate in precedenza.

Mettetevi delle buone cuffie, oppure dotatevi di due ottime casse per ascoltare i Sixty Drop perché la fatica e l’impegno messo nella ricerca dei suoni e nel mixaggio si devono poter sentire ed essere ripagati. Quindi per favore lasciate nel cassetto le cuffiette da cinque euro e godetevi questo viaggio con coscienza e magari perdetevi nell’inquietudine umana intrinseca in ognuno di noi.

Qui sotto, ed in esclusiva per Rockambula trovate l’EP in streaming. Buon ascolto!

Nelumbium

Down The Light Zone ( Ft. Lorenzo Lucci )

The Japanese Sundance ( Instrumental)

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No Love Lost

Written by Interviste

Come ci piace fare spesso, Rockambula è stato media partner dell’evento organizzato questo dicembre a Sulmona (AQ) denominato Soundwave Christmas Nights, festival dedicato alla musica originale indipendente. Pur non trattandosi espressamente di un contest, Rockambula ha voluto comunque istituire un piccolo premio che consiste in un mini pacchetto promozionale comprensivo di recensione e/o intervista più banner pubblicitario sul nostro sito per circa un mese. La band che abbiamo scelto in quanto protagonista con il progetto più interessante e originale anche solo in ottica potenziale è stata quella denominata No Love Lost. In questa intervista cerchiamo di capire meglio di che progetto si tratta, quale possa esserne il futuro e cercheremo anche di ragionare su alcune tematiche care sopprattutto alle scene di provincia.

Iniziamo da una domanda ovvia. Il vostro nome richiama alla mente la grande band capitanata da Ian Curtis e voi avete iniziato la vostra avventura proprio come cover band dei Joy Division. Aver fatto cover è più utile a scrivere e proporre pezzi propri o più un ostacolo dovuto al rischio “imitazione”?
Aver iniziato come cover band dei Joy Division ha sicuramente contribuito a creare amalgama e affiatamento nel gruppo. Il rischio imitazione volontaria non c’è mai stato perché in fase compositiva seguiamo le nostre idee e l’istinto del momento senza doverci preoccupare di imitare qualcuno o assomigliargli. Se ci sono delle affinità con altre band non sono volute e cercate ma sono solo frutto dei nostri ascolti e gusti giovanili. Quando abbiamo deciso di cominciare a proporre un nostro repertorio abbiamo iniziato come nuovi No Love Lost e non come costola della cover band che eravamo prima.

Perché avete scelto di iniziare con le cover e perché avete scelto di passare a proporre pezzi vostri? Suonate ancora brani dei Joy Division dal vivo?
Il gruppo inizialmente è nato come una sfida a proporre una band poco conosciuta ai più e comunque poco coverizzata. L’idea era di fare alcune esibizioni in pubblico e divertirci a suonare una musica che aveva sempre esercitato un certo fascino su di noi. Abbiamo deciso di cominciare a proporre brani nostri perché da sempre noi tutti abbiamo avuto un approccio compositivo alla musica, ci viene naturale. Ognuno di noi tre normalmente compone in proprio e a maggior ragione trovandoci tutte e tre insieme, idee vecchie e nuove si sono accumulate con una certa rapidità dandoci la possibilità di scegliere tra un materiale numericamente consistente ancora in fase di definizione e composizione. In eventuali serate dal vivo in cui avremo la possibilità di suonare per più di un’ora sicuramente riproporremo dei brani dei Joy Division.

La vostra formazione attuale non prevede batteria, o meglio batterista. Il suo ruolo è affidato all’elettronica. Quanto la batteria elettronica può essere un vantaggio (Albini ci ha costruito una carriera, passatemi il termine, con una certa Roland) e quanto un limite per la vostra proposta? E perché avete fatto questa scelta?
La batteria elettronica (ma le basi in generale) per noi e per il nostro sound è un vantaggio in quanto la nostra musica necessita di ritmi definiti e ben schematizzati; ci da la possibilità di far lavorare il basso in modalità non usuali (uso di ottave alte quando lavora in contemporanea con un basso synth) mantenendo una certa corposità del suono e avendo virtualmente una sorta di seconda chitarra. Inoltre la batteria elettronica permette al basso di esprimersi liberamente con riff definiti e di effetto e permette al cantante/tastierista di dedicarsi totalmente al canto. Attualmente non vediamo svantaggi nell’utilizzarla e non escludiamo neanche il ritorno di una batteria acustica in futuro quando e se necessario.

Vi ho ascoltato dal vivo durante l’esibizione a Sulmona (AQ) al Soundwave, un piccolo Festival di cui Rockambula è stato media partner (ndr I No Love Lost hanno vinto qui il premio Rockambula). Perché avete scelto di parteciparvi? È questa la strada migliore per la musica emergente? Cosa non vi è piaciuto?
Abbiamo scelto di partecipare al Soundwave Christmas Night per avere una vetrina e far sentire i nostri brani inediti a un vasto pubblico. Per i gruppi della scena Indie la via migliore per farsi conoscere è comunque soprattutto quella di partecipare a manifestazioni ad hoc come questa e ovviamente utilizzare la rete nei suoi numerosi canali e avere tanta voglia di mettersi in gioco credendo a quello che si fa. Più di quello che non ci è piaciuto, preferiremmo invece mettere in rilievo il fatto che questa manifestazione non era un concorso ma appunto una rassegna. È stata un’ottima idea in quanto nei concorsi è molto facile che a vincere sia la band raccomandata o che porta più pubblico; diverso è stato invece creare un premio per il progetto e l’idea espressa da una band come ha previsto il Soundwave con Rockambula.

Una cosa che, ad esempio, mi pare di aver notato è che, specie nelle piccole realtà cittadine, mancano vere e proprie scene e ognuno tenda a fare musica inseguendo, spesso scimmiottando, i propri idoli, senza alcuna voglia di sperimentare, osare, innovare. Uscire da questo tunnel credete sia possibile? Come?
Uscire dal tunnel delle imitazioni è possibile ma richiede apertura mentale, un discreto background culturale, creatività e voglia di mettersi in gioco. Il problema principale è che si tende, soprattutto nelle nostre realtà, a giudicare l’operato di un musicista solo ed esclusivamente dal punto di vista tecnico senza mettere in rilievo che la creatività costituisce un elemento fondamentale per chi fa musica.

Una delle soluzioni potrebbe essere una certa apertura (date, concerti, festival, contest) alle band, anche poco note, che vengano da fuori (vedi il Progetto Streetambula di cui siamo co/organizzatori). Ma il pubblico dei piccoli centri è pronto a questa sorta di “rivoluzione”? Sembra piuttosto disposto ad ascoltare solo i propri amici, di là dell’interesse ridotto verso la musica.
Finché i piccoli centri ragioneranno con la logica bigotta e culturalmente ristretta, non ci sarà alcuna rivoluzione. La rivoluzione va stimolata e secondo noi, molti in questa valle (Valle Peligna, provincia de L’Aquila ndr), a partire da chi organizza eventi musicali e si occupa di band emergenti come voi di Rockambula, stanno lavorando bene per creare un circolo virtuoso in tal senso.

nolove

Cambiamo discorso ma non troppo. Perché i musicisti vanno con tanta fatica ad ascoltare i colleghi?
Molti musicisti (non tutti), disertano le serate dei loro colleghi, semplicemente per mancanza di umiltà, attenzione, informazione e forse anche invidia. È una costante fra colleghi, Morrisey ci ha scritto anche una canzone.

Passiamo a voi. La vostra musica è fortemente influenzata dal Post Punk dei Joy Division. Quali altre influenze vi si possono ascoltare?
La nostra musica è influenzata da diversi artisti del passato e del presente. Sicuramente i Joy Division hanno avuto un’influenza importante ma non principale. Prima di loro vorremmo citare Gary Numan, Depeche Mode, New Order, Asylum Party, Pj Harvey e Massive Attack senza dimenticare le forti influenze Punk che arrivano dalla nostra chitarrista Francesca Orsini e in particolare in brani come “Closer”, “Torture” e “The Party’s Over” che speriamo avrete presto la possibilità di ascoltare su disco.

Che progetti avete per scoprire il vostro peculiare sound e renderlo più moderno?
Premesso che oggi parlare di suono vecchio e nuovo risulta un po’ difficile in ambito Indie, vista la varietà e le molteplici combinazioni sonore tra i vari decenni e tra i vari generi, stiamo valutando di “svecchiare” il suono cercando, in fase di registrazione, di applicare con astuzia quelle caratteristiche sonore che possono far risultare il prodotto più moderno e muovendoci all’interno di questo impianto sonoro per mantenere il nostro suono volutamente vintage.

Oltre al limite dovuto dall’ovvia somiglianza con i padri del genere, ho notato che, dal vivo, c’è ancora qualche imprecisione soprattutto in chiave vocale e andrebbe attuata anche una più attenta ricerca melodica. Come pensate di muovervi in tal senso? Credete di dover lavorare ancora anche sulle canzoni ormai già ascoltate live?
Per ciò che riguarda la voce stiamo lavorando continuamente per perfezionare quanto già ascoltato dal vivo. Sicuramente un paio di brani richiedono una maggiore attenzione melodica e rivisitazione da parte nostra, per molti pensiamo che la soluzione attuale sia soddisfacente ma sappiamo che un gruppo deve essere sempre alla ricerca di novità’ e aperto a rivedere le soluzioni già date per stabili se necessario e se rispondono a una reale esigenza dei compositori. Pertanto anche le versioni live che avete ascoltato sono suscettibili di qualche cambiamento in fase di registrazione.

Uno dei modi migliori per superare i propri limiti è distruggere quelli mentali che ci portano ad ascoltare sempre le stesse cose. Per questo credo che per tutti, e ancor più per i musicisti, sia importante ascoltare tanta musica, vecchia e nuova, e sempre molto diversa. Qual è il vostro modo di approcciare alle nuove sonorità, alle nuove band? Chi vi piace tra le nuove proposte italiane e straniere e consigliateci un paio di dischi di questo ormai andato 2013?
È essenziale uscire dagli schemi mentali acquisiti, pertanto ci poniamo sempre con grande interesse all’ascolto di quanto di nuovo viene proposto dal mercato discografico soprattutto indipendente. Del 2013 ci sono piaciuti il nuovo dei Soviet Soviet e degli Arcade Fire senza dimenticare The National ma anche in ambito Pop ci sono molte produzioni di valore.

Sul palco si nota una certa spensieratezza alle chitarre (basso incluso) mentre Fabrizio D’Azzena (voce) mantiene un’aria seriosa, tesa, quasi preoccupata e ansiosa. Studiate attentamente le vostre performance, anche per quanto riguarda l’immagine oppure suonate cosi, come viene?
Sinceramente abbiamo ancora forse poca attenzione per l’immagine globale del gruppo ma ciò’ deriva principalmente dal fatto che per ora non è la priorità e pensiamo che sia la nostra musica a dover trasmettere sensazioni emotive a chi ci ascolta. Indubbiamente il nostro cantante è tipo ansioso ma la sua espressione seriosa è risultato di forte concentrazione e passione.

Per ora non avete nessun album pronto. Tra le varie motivazioni che ci hanno spinto a dare a voi il premio Rockambula c’è: “una delle band di cui ascolteremmo molto volentieri il prossimo disco”.  Ce n’è uno in cantiere?
Attualmente stiamo per entrare in studio per registrare il nostro primo cd; vi diamo qualche anticipazione, si chiamerà Lust e sarà composto di otto o nove brani, sette li avete già ascoltati live e due che stiamo selezionando tra il corposo materiale a nostra a disposizione.

Vi faccio il nostro “in bocca al lupo”.

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“Diamanti Vintage” Portishead – Dummy

Written by Articoli

Il Trip-Hop con Dummy dei Portoshead ha il suo regno assoluto, lo scettro e la corona di un ragguaglio indistruttibile, la sua pietra miliare che, insieme ai Massive Attack e Tricky, non sarà – a tutt’ora – mai rimossa da nessun altro, e la Bristol caliginosa di nebbia e basse frequenze si innalzerà nei Novanta a capitale mondiale del genere.

Un disco cinematico, di talento e visioni atmosferiche letterarie, le pellicole degli anni Sessanta che tornano a srotolarsi per una nuova vita lungo gli strascichi di un Pop vellutato, invisibile e colorato al neon, digressioni sonore dal Soul al Bossanova, raffinatezze e sincronizzazioni che suggestionano l’ascolto come si fosse dentro una bolla d’aria, e poi quel divino decadentismo che si evolve e striscia esistenzialista come una foglia alla fine del suo ciclo vitale; Beth Gibbons voce, Adrian Utley chitarra/basso/theremin e Geoff Barrow alla produzione svelano il lato oscuro dell’anima inglese, apportano quella dolcezza amara e ovattata che ibridata dagli effetti sintetici a loop,  lo scretch mutuato dall’Hip-Hope quella melodia trasversale al French touch, diventa una formula sognante e trippy che ha lasciato segni indelebili in una generazione notturna, al limite del buio.

Undici brani preziosi, teneri e minimalisti, idonei per percorrere costellazioni oniriche e stati di grazia virtuali, la sensualità impalpabile della Gibbons è alle stelle, le impronte Jazz “Strangers”, “Pedestal”,  il soul rarefatto “Roads”, il Dream Pop di “Sour Times”, o la liquidosità eterea di “I Could Be Sweet” producono una serie di vibrazioni quasi estatiche, registri che si allungano e accorciano a seconda della struttura ipnotica o meno che il brano certifica, stop & go “Wandering Star” che vanno ad interpretare il pulse di tempie dilatate e vene a scorrimento aperto; definita la Billie Holyday dello spazio, la Gibbon insieme al sodale Utley firmano un disco che è una vera opera d’arte cosmique, quelle istantanee molecolari che una volta messe in moto sconvolgono con la dolcezza amara qualsiasi secondo della durata del disco e dove la parola “perfezione” trova finalmente e definitivamente collocazioni nella musica degli umani “umanoidi”

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Tricky – False Idols

Written by Recensioni

L’uscita del nuovo lavoro di Tricky, False Idols, è prevista a fine mese e c’è già chi dice che questo lavoro merita la sufficienza. È chiaro che non hanno colto le sfumature. Ma andiamo con calma, piano piano. False Idols è un lavoro che arriva a ridosso di Knowle West Boy (2008) e Mixed Race (2010) dopo alcuni anni di silenzio e un paio d’album non proprio riuscitissimi. Nei precedenti ultimi lavori citati Adrian Thaws, alias Tricky, ha tentato di dare alla sua musica un ritmo più “orecchiabile” riuscendo in Knowle West Boy, album bellissimo dalla prima all’ultima traccia, e perdendosi in Mixed Race, album misto, con alti e bassi, in cui riaffiora un ritorno alle origini con suoni cupi e voce bassa, bisbigliata. False Idols non è l’album della maturità, né del cambiamento ma è un lavoro che cerca di tessere la tela degli anni che passano, tra alti e bassi, nel tentativo affermare una volta per tutte la propria identità musicale. È noto a tutti che all’inizio della sua carriera, primi anni ’90, Tricky ha, con successo, dato il via al Trip Hop (insieme a Massive Attack e Portishead) genere che ne miscelava altri, dall’Hip Pop al Dub passando per la Musica Elettronica e il Rock psichedelico. L’inizio dei ’90 rappresenta l’apice della sua carriera che andrà affievolendosi successivamente con dei lavori che il pubblico non recepì proprio bene come Angels With Dirty Faces e Juxtapose.

L’album si avvale della stupenda voce di Francesca Belmonte che con il suo contributo impreziosisce il lavoro di Tricky. Tra i brani spiccano “NothingMatters”, “Bonnie&Clyde”, “Nothing’s Changed”, “Chinese Interlude” e “Doesit”. Tutti brani ritmati che ripercorrono le varie esperienze sonore di questo problematico artista.

In un certo senso con questo lavoro è come se cercasse di far quadrare il cerchio mixando nuovi e vecchi concepts affermando con forza una e una sola cosa: Tricky è Tricky e non ha voglia  di cambiare, “Nothing’s Changed”, di seguire falsi miti accontentandosi del proprio pubblico, della propria gente e di chi fondamentalmente lo ama per ciò che è.

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Garaliya – Garaliya

Written by Recensioni

Due galli affascinati dalle immagini psichedeliche che finiscono per comporre musica dietro a delle drum machine, ecco chi sono i Garaliya. Il vinile è il loro cibo, il campionamento è la tecnica di degustazione, e i campionatori l’apparato digerente. Non producono musica di scarto, ma scatti di musica. Per capirci meglio il loro mondo assomiglia molto a quello di Aphex Twin, sia per le affinità noise che per la scelta di utilizzare delle visual importanti all’interno delle loro esibizioni, che trasformano i live in una vera e propria performance art. Lin MoRkObOt e Mizkey si sono messi insieme ed hanno creato i Garaliya, due galli cibernetici che al posto di cantare al mattino, preferiscono ruggire di notte atmosfere tekno-noise, jazz ed a tratti trip pop (trip come Hoffmann più che come i Massive Attack). Un progetto musicalmente diverso per l’Italia, o perlomeno per l’ascoltatore medio di musica elettronica. Un progetto per orecchie argute ed addomesticate al rumore, che mi auguro vivamente non diventi un live set pulito e senz’anima.

Sicuramente da assaporare live, perché é quella la formula in cui i Garaliya prendono interamente forma, e sicuramente da tenere d’occhio per tutti gli amanti dell’ IDM (Intelligent Dance Music). Se pensate ad un duo di musica elettronica convenzionale vi sbagliate, se pensate a due nerd forse ci azzeccate, sicuramente non sono due sprovveduti che aprono per la prima volta Ableton Live e pretendono di fare musica (come purtroppo succede spesso ultimamente).

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