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Cose nuove dal mondo indie || The Singer Is Dead
Sei brani che riescono a offrire un ascolto piacevole per un Math Rock emozionale, intenso, celebrale ma non esplosivo. Continue Reading
Sdang! @ Garbage Live Club, Pratola P. (AQ) | 11.03.2017
Un live report chiacchierato.
Flowers and Paraffin – Ricordati di santificare le feste
Pubblicato il 27 Marzo, domenica di Pasqua, Ricordati di Santificare le Feste è il secondo lavoro dei Flowers and Paraffin, giovane band campana che due anni fa realizzò un breve Ep (5 pezzi in 12 minuti) che faceva ben sperare per questo seguito. I sei ragazzi provenienti dalle province di Salerno ed Avellino in questo nuovo lavoro, che si sviluppa in 7 pezzi che scorrono via in 19 minuti, non solo non hanno disatteso queste speranze ma sono riusciti a fare un buon passo avanti evolvendo il loro sound. Questo secondo capitolo porta infatti a maturazione la ricetta del buon esordio accompagnandola a soluzioni strumentali ora divenute più ricche soprattutto nei momenti in cui la band cerca soluzioni diverse (Post Rock, Math Rock, Shoegaze) che diventano ben più dei brevi inserti che si potevano trovare in Caduta e che suonate con la loro inclinazione Emo Post-Punk (senza dunque perdere in immediatezza) portano ad un buon guadagno in intensità. Non manca inoltre una crescita anche nelle liriche sempre basate sulla sublimazione di confusione, incertezze e paure della terra di mezzo dei ventenni nonché sull’immancabile ed altrettanto confuso argomento amore, che in questa seconda prova, nonostante qualche piccolo passaggio a vuoto, guadagnano comunque indiscutibilmente in spessore.
In quasi ogni brano della scaletta vedremo alternarsi momenti musicalmente soffusi ad altri ben più tirati ad accompagnare liriche ora espresse con uno spoken abbandonato a sé stesso ora urlate come per liberarsi da pesi troppo pesanti da portare per una sola schiena (come dichiarato nella conclusiva “Maledetta Gioventù”). Troveremo i momenti migliori nelle ben coese “Conta”, “Cosmo (Andrea)” e “Autoritratto”, brani dove l’incastro tra musica e parole risulterà pressoché perfetto, dove le chitarre ora carezzevoli ora graffianti pur facendo la parte del leone non ruberanno la scena a tutto il resto: una sezione ritmica sempre puntuale e pronta a pestare nei momenti più tirati, un synth che decora con precisione e senza risultare invasivo. In questi brani, che sono anche quelli dalle liriche più intense, troveremo gli incontri meglio riusciti tra l’innato animo Emo Punk della band e le deviazioni in altri territori di cui si parlava sopra e sarà sicuramente possibile sentirci una riuscita fusione, tra i tanti, di Marlene Kuntz, Fine Before You Came e Massimo Volume.
L’idea di terapia di gruppo tra amici segnalata dalla cartella stampa descrive bene l’intenzione dei sei ragazzi e si fa viva anche durante l’ascolto, i testi sono spesso delle confessioni, delle (ri)scoperte di sé che la band accompagna con complicità e riuscendo a creare una discreta tensione, considerando tra l’altro che stiamo parlando di ragazzi ancora giovanissimi che ad oggi in due lavori ci hanno regalato mezz’ora di quel che sono, mezz’ora di questa sofferta crescita che li porterà ad essere quel che saranno.
In estrema sintesi: promossi.
Mood – Mood
Francesco e Daniele sono due giovanissimi ragazzi emiliani con la certezza recondita che la musica può risultare efficace senza usare parole, che si possono imporre e dettare regole combinando una potenza binaria alla voglia di uscire dagli schemi con l’incoscienza di chi ha l’età dalla propria parte. Francesco e Daniele suonano, rispettivamente, chitarra e batteria e hanno 34 anni in due.
L’omonimo disco d’esordio è un concentrato di Math Rock secondo la concezione dei Don Caballero: riff controversi seguiti a ruota da un drumming preciso e glaciale. “M.W.” e “15 Seconds”, le prime due tracce dell’album, ci aiutano a trovare il giusto climax e ci permettono un ambientamento netto e, al contempo, graduale. I Mood si fregiano di un’ossatura solida che non si sgretola neanche davanti al paragone pesante con i newyorkesi Battles e il loro sound sperimentale. “Supernova” ne è la prova lampante. Si gira pagina e con “Falicon” respiriamo un’aria diversa, molto meno rarefatta, dove una forte componente Punk sbatte contro attimi più introspettivi. La stessa cosa avviene con “Sick Pride Nice Vibe”, anche se tra le due c’è spazio per “Room 204” l’unica composizione con una parte cantata (o sarebbe il caso di dire urlata?) all’interno. Gli oltre otto minuti di “VE-LO” chiudono i giochi tra sfoggi di tecnica e una purezza sonora che va apprezzata a piccoli sorsi.
Mood è un disco che, preso di petto, già al primo ascolto sa di suo regalare emozioni a profusione. Per la nostra Italia inflazionata un altro bel lascito da promulgare.
Lorø – Lorø
Esordio col botto per i Lorø, trio strumentale del padovano che ha studiato la materia e propone un ottimo disco privo di titolo in cui si miscela con potenza, gusto e inventiva tutto un insieme di stilemi rumorosi e psichedelici (in senso lato): batterie pestatissime, Elettronica Minimale, droni gonfi e chitarre granulose. Nove brani che spaziano dal sapore metallo di “Clown’s Love Ritual” ai sapori vagamente Jazz di “High Five”, fino alle alture di vuoto Post Rock spaziale e rumorista della chiusura di “A Trick Named God” o della sperimentale “ø”. Con un mix più organico dei vari elementi e con magari un immaginario più approfondito e definito si sarebbe potuto gridare al capolavoro. Rimane un disco che vale tutti i 48 minuti e rotti dell’ascolto: diverte, sorprende, appaga. Da provare, soprattutto se vi entusiasma il genere.
Ruggine – Iceberg
Suonano incazzati e spigolosi i piemontesi Ruggine nel loro nuovo full lenght Iceberg, nove brani di distorsioni e declamazioni dai titoli esotici e affascinanti (“Ashur”, “Raijin”, “Daphnia”, “Pangea”…) che riesumano uno spirito Hardcore d’altri tempi miscelandolo ad una cupezza sonora costruita ad arte, complice il processo compositivo con due bassi e la registrazione analogica che rende la pasta scura e densa, profonda e tagliente. Il disco è un concentrato oscuro di prove muscolari e tensive che si stemperano a tratti in curve fumose e misteriche (con il picco nell’intro della conclusiva “CDS”, che dal vivo deve proprio assomigliare ad un rituale pagano). Il mix di riff spezzati e batterie sanguinanti sostiene testi interrogativi e lineari, diretti, scanditi da una voce graffiante, che ci sputa in faccia molti dubbi e poche, pochissime certezze (o forse solo una, come nella title track). Potrà mai questa tormenta essermi d’aiuto?, gridano in “Ashur”, mentre la batteria spinge ossessiva su chitarre a spirale; Quali sarebbero state le parole giuste? Quelle che avrei dovuto pronunciare allora?, si chiedono tra i colpi violenti di “Siioma”; L’incognita più grande: è questo odio o amore?, continuano sul Post-Metal plumbeo di “Caio”.
I Ruggine rappresentano più il loro moniker che il titolo del disco in questo Iceberg che di freddo ha ben poco: nella ruvidezza del suono, nell’odore di ferro ossidato di batterie scalene e nell’angoscia intensa e arteriosa del flusso distorto di chitarre e voci si scopre il metallo – proprio in senso chimico – come nella splendida copertina: rotaie divelte che curvano nella desolazione di una natura che appare fredda, immobile, distante. Dell’Iceberg c’è forse il nascondersi sotto il pelo dell’acqua, un ribollire di forme immense che stanno nelle profondità e che poco alla volta si liberano oltre la superficie. Un disco fatto con stile, con coerenza, focalizzato e compatto, che lascia la forte curiosità di poterli godere dal vivo.
Quadrupède – T O G O Ban
La creatura di Le Mans è uno strano quadrupede, un duo eccezionalmente versatile capace di ostentare i suoi due volti, strutturalmente simili, ma completamente dissimili nella colorazione, come suggerisce la variopinta cover a doppia facciata (opera dell’artista Akatre) nella quale due teste antropiche sono completamente sommerse da flussi di vernice dalle tonalità difformi. Due anime che si avviluppano e moltiplicano in quest’opera attraverso le aperture dell’Electronic sperimentale e del Math Rock. I Quadrupède, giovane formazione in attività da circa tre anni, espandono questo poderoso processo creativo amalgamando arrangiamenti elettronici e classica strumentazione Rock, fatta di batteria e chitarre, collaudando le proprie capacità al fianco di grandi artisti come LITE, Papier Tigre, Woodkid, Adebisi Shank e Lost in the Riots e pubblicando dunque T O G O Ban, esordio dalle rosee speranze. Il lavoro è stato mixato da Matt Calvert (Three Trapped Tigers), masterizzato nella capitale britannica da Peter Beckmann (Sun Ra, The Magic Lantern) e pubblicato dall’etichetta belga Black Basset Records.
Sette brani che non raggiungono la mezz’ora ma che riescono comunque a trascinare, almeno parzialmente, e travolgerci in un ascolto vorticoso e intenso. L’intro celestiale stile Mùm contornato da voci angeliche e monotone presto si fonde con una possente Drum’n Bass (“Beam Pool Mom”) che a sua volta si rivela stilisticamente cangiante e pronta subito a palesare le diverse sfaccettature dell’opera che seguirà. Gli indizi Glith Pop e Noise della parte introduttiva si fanno presto prove (“Via Là”) mentre con “Rhododendron” emerge la vicinanza del duo dei Paesi Bassi con la musica dei cugini Don Caballero, anzi, ancor più con i newyorkesi Battles, in questa parte più che una semplice ispirazione nella combinazione di ritmiche precise e ripetitive e inserti elettronici. Quasi completamente assente l’aspetto lirico e vocale (sospiri e cori perlopiù) mentre più forte, rispetto ai già citati autori del piccolo capolavoro Mirrored, è il fattore Rock duro e crudo che tuttavia si manifesta solo parzialmente nei vari brani con brevi sfuriate che permettono al disco di suonare più carico di quanto non sia effettivamente nella sua totalità; interessanti anche i passaggi Electro/Prog Pop (“ASTRØ”) mentre annoia un po’ la deriva Electro Ambient/Ethereal nella parte finale (“Adulhood”) risollevata dal brusco crescendo potente caratteristico di molti di questi brani. Introduzione compresa, sono ben tre gli intermezzi anche se “Oblong Opale” può piuttosto definirsi come il momento più sperimentale e inquietante dell’album, invece che semplice momento di stacco tra prima e seconda parte.
T O G O Ban è un esordio degno di nota, che colpisce al primo ascolto, anche per la curiosità nei confronti di un certo tipo di Math Rock misto a Elettronica che non troppo spesso (vedi Battles) abbiamo avuto il piacere di ascoltare realizzato con efficacia. Un lavoro riuscito quando più definito e complesso come nel caso di “Rhododendron” ma che finisce per annoiare e suonare indigente quando si dilunga in ridondanze Electro prive di carattere. Complice la brevità, non regge ad ascolti ripetuti ma può essere certo la base per qualcosa di ancor più valido magari in un futuro prossimo.