Math Rock Tag Archive

Recensioni #02.2018 – Korto / Martin Kohlstedt / Gil Hockman / Cup / Slow Nerve / Vinnie Jonez Band

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What’s up on Bandcamp? || novembre 2017

Written by Novità

I consigli di Rockambula dalla piattaforma più amata dall’indie.

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Cose nuove dal mondo indie || The Singer Is Dead

Written by Novità

Sei brani che riescono a offrire un ascolto piacevole per un Math Rock emozionale, intenso, celebrale ma non esplosivo. Continue Reading

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Sdang! @ Garbage Live Club, Pratola P. (AQ) | 11.03.2017

Written by Live Report

Un live report chiacchierato.

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Ed Wood Jr – The Home Electrical

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Top 30 Italia 2016 | la classifica di Maria Pia Diodati

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10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #04.11.2016

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Flowers and Paraffin – Ricordati di santificare le feste

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Pubblicato il 27 Marzo, domenica di Pasqua, Ricordati di Santificare le Feste è il secondo lavoro dei Flowers and Paraffin, giovane band campana che due anni fa realizzò un breve Ep (5 pezzi in 12 minuti) che faceva ben sperare per questo seguito. I sei ragazzi provenienti dalle province di Salerno ed Avellino in questo nuovo lavoro, che si sviluppa in 7 pezzi che scorrono via in 19 minuti, non solo non hanno disatteso queste speranze ma sono riusciti a fare un buon passo avanti evolvendo il loro sound. Questo secondo capitolo porta infatti a maturazione la ricetta del buon esordio accompagnandola a soluzioni strumentali ora divenute più ricche soprattutto nei momenti in cui la band cerca soluzioni diverse (Post Rock, Math Rock, Shoegaze) che diventano ben più dei brevi inserti che si potevano trovare in Caduta e che suonate con la loro inclinazione Emo Post-Punk (senza dunque perdere in immediatezza) portano ad un buon guadagno in intensità. Non manca inoltre una crescita anche nelle liriche sempre basate sulla sublimazione di confusione, incertezze e paure della terra di mezzo dei ventenni nonché sull’immancabile ed altrettanto confuso argomento amore, che in questa seconda prova, nonostante qualche piccolo passaggio a vuoto, guadagnano comunque indiscutibilmente in spessore.
In quasi ogni brano della scaletta vedremo alternarsi momenti musicalmente soffusi ad altri ben più tirati ad accompagnare liriche ora espresse con uno spoken abbandonato a sé stesso ora urlate come per liberarsi da pesi troppo pesanti da portare per una sola schiena (come dichiarato nella conclusiva “Maledetta Gioventù”). Troveremo i momenti migliori nelle ben coese “Conta”, “Cosmo (Andrea)” e “Autoritratto”, brani dove l’incastro tra musica e parole risulterà pressoché perfetto, dove le chitarre ora carezzevoli ora graffianti pur facendo la parte del leone non ruberanno la scena a tutto il resto: una sezione ritmica sempre puntuale e pronta a pestare nei momenti più tirati, un synth che decora con precisione e senza risultare invasivo. In questi brani, che sono anche quelli dalle liriche più intense, troveremo gli incontri meglio riusciti tra l’innato animo Emo Punk della band e le deviazioni in altri territori di cui si parlava sopra e sarà sicuramente possibile sentirci una riuscita fusione, tra i tanti, di Marlene Kuntz, Fine Before You Came e Massimo Volume.

L’idea di terapia di gruppo tra amici segnalata dalla cartella stampa descrive bene l’intenzione dei sei ragazzi e si fa viva anche durante l’ascolto, i testi sono spesso delle confessioni, delle (ri)scoperte di sé che la band accompagna con complicità e riuscendo a creare una discreta tensione, considerando tra l’altro che stiamo parlando di ragazzi ancora giovanissimi che ad oggi in due lavori ci hanno regalato mezz’ora di quel che sono, mezz’ora di questa sofferta crescita che li porterà ad essere quel che saranno.
In estrema sintesi: promossi.

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Mood – Mood

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Francesco e Daniele sono due giovanissimi ragazzi emiliani con la certezza recondita che la musica può risultare efficace senza usare parole, che si possono imporre e dettare regole combinando una potenza binaria alla voglia di uscire dagli schemi con l’incoscienza di chi ha l’età dalla propria parte. Francesco e Daniele suonano, rispettivamente, chitarra e batteria e hanno 34 anni in due.
L’omonimo disco d’esordio è un concentrato di Math Rock secondo la concezione dei Don Caballero: riff controversi seguiti a ruota da un drumming preciso e glaciale. “M.W.” e “15 Seconds”, le prime due tracce dell’album, ci aiutano a trovare il giusto climax e ci permettono un ambientamento netto e, al contempo, graduale. I Mood si fregiano di un’ossatura solida che non si sgretola neanche davanti al paragone pesante con i newyorkesi Battles e il loro sound sperimentale. “Supernova” ne è la prova lampante. Si gira pagina e con “Falicon” respiriamo un’aria diversa, molto meno rarefatta, dove una forte componente Punk sbatte contro attimi più introspettivi.  La stessa cosa avviene con “Sick Pride Nice Vibe”, anche se tra le due c’è spazio per  “Room 204” l’unica composizione con una parte cantata (o sarebbe il caso di dire urlata?) all’interno. Gli oltre otto minuti di “VE-LO” chiudono i giochi tra sfoggi di tecnica e una purezza sonora che va apprezzata a piccoli sorsi.
Mood è un disco che, preso di petto, già al primo ascolto sa di suo regalare emozioni a profusione. Per la nostra Italia inflazionata un altro bel lascito da promulgare.

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Recensioni | agosto 2015

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Ben Miller Band – AWSOF (Country, 2014) 8/10

Un secondo album spettacolare per il trio Ben Miller, Doug Dicharry, Scott Leeper che unisce in dodici tracce dal sapore Country tutta la propria esperienza e classe, miscelando Bluegrass, Americana e Southern Rock in un sound estremamente tradizionale ma che riesce a non emanare mai lo sgradevole odore di anacronismo.

Gab de la Vega – Never Look Back (Cantautorato, Punk, 2015) 7,5/10

Il cantautore Punk Folk bresciano Gab de la Vega torna e stupisce tutti con dieci nuovi pezzi e un’interpretazione di “Never Talking to YouAgain”, un grande classico degli Hüsker Dü. Un po’ ricorda quanto fatto recentemente da Tv Smith, ma c’è anche tanto di Bob Dylan e Neil Young. Da non lasciarselo sfuggire!

Stearica – Fertile (Post Rock, Math Rock, 2015) 7,5/10

Essere scaraventati al muro dalla potenza del suono non è cosa che succede troppo spesso. Gli Stearica ci riescono, in versione digitale quanto in versione live, a botta di drumming energici, bassi e chitarre distorti.

Lydia Lunch/Retrovirus – Urge to Kill (No Wave, Post Punk, 2015) 7/10

Lydia Lunch scrive il capitolo del progetto Retrovirus, riunendo sul palco Weasel Walter alla chitarra, Tim Dahl al basso e Bob Bert (Sonic Youth) alla batteria. Nove tracce per ripercorrere la carriera della “big sexy noise queen” e una ciliegina sulla torta: la cover di “Frankie Teardrop” dei Suicide.

OoopopoiooO – OoopopoiooO (Sperimentale, Ambient, 2015) 7/10

Due maestri del theremin creano un nome impronunciabile, sintomo di un universo distorto, onirico, pazzoide. Quella pazzia sana, che fa andare oltre le spesse barriere del Pop e mischia strumenti, giocattoli, elettronica, parole e voci che sembrano arrivare dalle zone più nascoste del nostro cervello. Tredici brani che sembrano difficili al primo ascolto ma che alla fine ci sembreranno vicini alle orecchie come ronzii di insetti.

All About Kane – Seasons (Pop Rock, 2015) 7/10

Gli All About Kane alla loro seconda prova discografica intitolata Seasons, confermano l’ottimo esordio con Citizens e aggiungono alla loro dna british un pizzico di sperimentazione che si spinge verso il Pop e l’Alternative. Seasons è un interessante insieme di melodie leggere e mood movimentati; canzoni come “Old Photograph” e “Hurricane” si fanno amare fin da subito per piacevolezza e orecchiabilità. Nonostante spesso la voce del cantante ci ricordi molto Brian Molko dei Placebo, gli All About Kane riescono a mantenere viva la propria identità per tutto l’album, offrendo all’ascoltatore qualcosa di interessante e ben realizzato. Anche se uscito da qualche mese lo consigliamo per tutti i viaggiatori estivi che hanno voglia di una sferzata di aria fresca.

My Own Prison – Sleepers (Hard Core, 2015) 7/10

Cagliaritani, i My Own Prison, dimostrano con questo loro lavoro di conoscere decisamente bene l’hard core e di possedere tutta la tecnica per poterlo personalizzare. Tutto il disco è fondato sull’infuenza grind e su un cantato growl che muove su ritmi serratissimi di basso e batteria (al limite dell’agilità), che non si concedono tregua neppure in “Sleepers Eve”, caratterizzata da un timbro chitarristico dal sapore Indie-Pop, o nella più intima “Temper Tantrum”. Dieci tracce per un full lenght davvero pieno di energia, decisamente per gli appassionati del genere.

Solkiry – Sad Boys Club (Post Rock, 2015) 6,5/10

A due anni di distanza dall’album d’esordio, torna il quartetto australiano con il suo dinamico Rock strumentale di chiarissima ispirazione mogwaiana. Un disco potente e variegato, che riesce a cullare tutto lo spettro di emozioni che si accavallano nei sogni ad occhi aperti e che ha l’unico difetto di mostrarsi troppo incapace di osare davvero, risultando troppo banale e ripetitivo nella scelta pura dei suoni.

A Minute to Insanity – Velvet (Grunge, Stoner, 2014) 6,5/10

Il Grunge non è morto. Gli A Minute to Insanity da Cosenza lo dimostrano con orgoglio in questo ep. La chitarra e la voce “consumata” di Francesco Clarizio, insieme al basso di Antonio Trotta e alla batteria di Francesco Lavorato, ti riportano lì, in quegli anni Novanta che non sono ancora messi in archivio del tutto.

Attribution – Whynot (Rock’n’Roll, 2015) 6,5/10

Potente e autorevole questo Whynot dei bergamaschi Attribution, album che mescola un’attitudine classicamente Rock and Roll ad una commistione di generi che invece di risultare indigesta esalta le qualità di ogni singolo componente (prezioso l’uso dei fiati). Da ascoltare soprattutto il divertente Funk di “Scofunk” e la bella rivisitazione di “Cold Turkey” di John Lennon.

La Sindrome della Morte Improvvisa – Ep (Stoner, Noise, Hard Rock, 2013) 6,5/10

Un vero e proprio calderone: fondete Stoner, Noise e Hard Rock e otterrete la giusta ricetta sonora; un sound che appartiene più all’America che all’Italia e forse in questo la lingua non aiuta molto (sarebbe stato più giusto cantare in inglese!). Nonostante ciò un lavoro maturo negli arrangiamenti e perfetto nella registrazione

Snow in Damascus – Dylar (Elettronica, Shoegaze) 6/10

Atmosfere cupe e sonorità che spaziano tra Elettronica e Shoegaze, per un disco d’esordio che nel complesso suona come un buon lavoro di tecnica, ma che non colpisce per la sua originalità.

Moira Diesel Orchestra – Moira Diesel Orchestra (Alternative, Post Grunge, 2014) 6/10

Orfani degli anni Novanta, i MDO ricercano costantemente sonorità a metà tra il Seattle sound e dei seminali Litfiba. Tra qualche errore di gioventù e troppi eccessi di imitazione emergono alcuni momenti interessanti come “Nostema di Posizionamento Globale” o “Ardore” che per qualche minuto cancellano i molti reminder. Rimandati.

The Moon Train Stop – EP (Rock, Alt Pop) 6/10

Echi sixties per il trio piemontese all’esordio. Un Pop alternativo luccicante, divertito, ritmato, senza eccessiva originalità ma competente. Quattro brani suonati bene, cantati così così. L’inglese non rende benissimo. Non lasciano (ancora) il segno.

La Sindrome della Morte Improvvisa – Di Blatta in Blatta (Stoner, Noise, Hard Rock, 2015) 5,5/10

Quando si incide un disco che ha il grave compito di succedere a quello d’esordio si pretende qualcosa di più; purtroppo in questo lavoro si mette in evidenza solo la bravura. Mancano i contenuti e le idee nuove. Un piccolo passo indietro quindi è stato fatto nonostante il gruppo si sia aperto ad un lato più “oscuro”.

Night Gaunt – Night Gaunt (Doom Metal, 2015) 5,5/10

I romani Night Gaunt fanno loro l’essenza dei Candlemass unendola alle cupe atmosfere dei Katatonia e alle accelerazioni di puro stampo Celtic Frost. Si resta sempre nell’ambito del Doom Metal, fedeli a un registro prestampato. Senza infamia né lode.

Marco Spiezia – Life in Flip-Flops (Cantautorato, Swing 2015) 5/10

Semplicità ed immediatezza sono le caratteristiche principali di questo disco che non fa ascoltare nulla di nuovo ma che diverte. Canzoni (quasi) sempre veloci ma dai ritmi abbastanza simili. Forse il cantautore sorrentino Marco Spiezia dovrebbe (e potrebbe) osare di più.

The Junction – Hardcore Summer Hits (Indie, Pop Punk) 5/10

Per i tre padovani, il secondo album è una nuova prova con pretese ridotte al minimo sindacale. Pezzi tirati quando basta per provare a non annoiare, qualche buona melodia, un inglese che si tradisce spesso e tantissime banalità, in una miscela di cliché Indie Rock e qualche incursione nei territori del Punk Rock (Pop meglio) da bermuda, occhiali da sole e infradito.

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Lorø – Lorø

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Esordio col botto per i Lorø, trio strumentale del padovano che ha studiato la materia e propone un ottimo disco privo di titolo in cui si miscela con potenza, gusto e inventiva tutto un insieme di stilemi rumorosi e psichedelici (in senso lato): batterie pestatissime, Elettronica Minimale, droni gonfi e chitarre granulose. Nove brani che spaziano dal sapore metallo di “Clown’s Love Ritual” ai sapori vagamente Jazz di “High Five”, fino alle alture di vuoto Post Rock spaziale e rumorista della chiusura di “A Trick Named God” o della sperimentale “ø”. Con un mix più organico dei vari elementi e con magari un immaginario più approfondito e definito si sarebbe potuto gridare al capolavoro. Rimane un disco che vale tutti i 48 minuti e rotti dell’ascolto: diverte, sorprende, appaga. Da provare, soprattutto se vi entusiasma il genere.

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Ruggine – Iceberg

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Suonano incazzati e spigolosi i piemontesi Ruggine nel loro nuovo full lenght Iceberg, nove brani di distorsioni e declamazioni dai titoli esotici e affascinanti (“Ashur”, “Raijin”, “Daphnia”, “Pangea”…) che riesumano uno spirito Hardcore d’altri tempi miscelandolo ad una cupezza sonora costruita ad arte, complice il processo compositivo con due bassi e la registrazione analogica che rende la pasta scura e densa, profonda e tagliente. Il disco è un concentrato oscuro di prove muscolari e tensive che si stemperano a tratti in curve fumose e misteriche (con il picco nell’intro della conclusiva “CDS”, che dal vivo deve proprio assomigliare ad un rituale pagano). Il mix di riff spezzati e batterie sanguinanti sostiene testi interrogativi e lineari, diretti, scanditi da una voce graffiante, che ci sputa in faccia molti dubbi e poche, pochissime certezze (o forse solo una, come nella title track). Potrà mai questa tormenta essermi d’aiuto?, gridano in “Ashur”, mentre la batteria spinge ossessiva su chitarre a spirale; Quali sarebbero state le parole giuste? Quelle che avrei dovuto pronunciare allora?, si chiedono tra i colpi violenti di “Siioma”; L’incognita più grande: è questo odio o amore?, continuano sul Post-Metal plumbeo di “Caio”.

I Ruggine rappresentano più il loro moniker che il titolo del disco in questo Iceberg che di freddo ha ben poco: nella ruvidezza del suono, nell’odore di ferro ossidato di batterie scalene e nell’angoscia intensa e arteriosa del flusso distorto di chitarre e voci si scopre il metallo – proprio in senso chimico – come nella splendida copertina: rotaie divelte che curvano nella desolazione di una natura che appare fredda, immobile, distante. Dell’Iceberg c’è forse il nascondersi sotto il pelo dell’acqua, un ribollire di forme immense che stanno nelle profondità e che poco alla volta si liberano oltre la superficie. Un disco fatto con stile, con coerenza, focalizzato e compatto, che lascia la forte curiosità di poterli godere dal vivo.

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