Max Sannella Tag Archive

Primal Scream – More Light

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Certo, le folgorazioni e le stimmate che Screamadelica ha fatto portare sullo spirito e sulle corporalità di una generazione sonica erano ben altro, ma  – col senno di poi e trasfigurando i Primal Scream in questi primi tredici anni degli anni 00 – quello che si può dire e giurare con mano alzata e che sono la prova vivente di un simbolismo Rock coi contro cazzi, una particolarità importante nella scenografia sterminata del Rock che seguita a bruciare storia e sound al pari di una fiaccola perenne che illumina ancora strade e fisse da percorrere.

Bobby Gillespie e Soci tornano a sonorizzare i nostri giorni con “More Light” sulla distanza quinquennale che lo separa dal precedente (insoddisfacente per molti agguerriti fan) Beautiful Future, e guardando la “gente che affolla” questo album – Kevin Shields, Mark Stewart, David Holmes e, udite udite, Mr. Robert Plant, già viene l’acquolina in bocca circa quello che ci aspetta, ed è una rigenerazione di alto livello, una variazione sul tema che la band si fa carico e ne fa una sequenza di sentimento, lampi e gioia intime che tengono sotto controllo, saldamente, una audizione privilegiata e piena di regali suspance.

Con gli Stones e carature Welleriane in ogni parte del corredo sonoro, i Primal Scream rilanciano sonorità e raffiche di felicitazioni radiofoniche che sono strettamente emozionali, tolgono di molto quell’acido con cui li abbiamo conosciuti e prendono in prestito atmosfere mid-armoniose, con fiati e spruzzi di sandalo orientale che insieme alla psichedelica di base e strani concetti (rispettabilissimi) di una Manchester ancora (virtualmente) in fibrillazione, formano un sound totale fecondo e in certi casi minimale “Elimination Blues”, “Relativity”; ma è la consistenza, la roboanza e l’uso Rock dello spazio intorno che sobbalza al Funk sincopato che sbrana “Culturecide”, il giro noise “Sideman”, la valutazione di un area franca dai ritmi spaccati “Turn Each Other Inside Out” o la stravagante ballata corale e folkly che esce da “It’’s Alright , It’s Ok” a fare di questo disco un bel rientro per questa formazione cha – sfidiamo chiunque a dire il contrario- ancora  è “massa critica e massa distorta”, giovane con i muscoli tonici.

Chi ha arte, la fabbrica e la diffonde non muore mai, Gillespie e Soci sopravviveranno ad Armageddon e crisi di stile, e (meno male) che noi non ci possiamo fare niente!

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“Diamanti Vintage” Christian Death – Only Theatre Of Pain

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Capolavoro del Gotich Rock statunitense e fonte di apprensione per benpensanti parrucconi, il debutto sulle scene dei Christian Death capeggiati dalla figura destabilizzante del diciannovenne  Rozz Williams è una stilettata tra le costole a quanti pensavano che fosse solo un innocuo passatempo di ragazzi squinternati con la mania per le messe nere. Only Theatre Of  Pain è una asfissia sonora che condensa rabbia, ribellione alla religione imposta, al vivere alla luce del sole e tutto il kit modern-wampiresco che si poteva racimolare in quei contesti, ma più di tutto era la forma scenica e teatrale che i CD allestivano nei live, quelle architetture darky e ossesse che disegnavano decadenze, disillusioni e una forte fetta di masochismo fisico/mentale.

Spoken-word e dolore, albe sfatte e poesie sanguinanti, punk di risulta e fantasia contorta sempre e comunque versata nelle tenebre, fanno la cifra stilistica di questa formazione, una confezione pesante, epica da atmosfere raggelanti quanto isolazionisti, una continua costernazione contro la società e l’individuo visto come pedina del potere, e allora è meglio annullarsi nel buio e urlare la propria “merda” in faccia a tutti, con i veli della commiserazione; dieci tracce che graffiano la cute come un ferro infuocato, visioni distorte e occultismi plumbei spaccano cuori e fegati, l’orientaleggiante “Figurative Theatre”, la funerea escalationi chitarristica “Mysterium Inquitatis” e la lacerante rincorsa di “Dream Of Mother”sono le chiavi d’entrata in questo eccellente incubo registrato, di questo pezzo di storia gotica.

Frutto della passione per tutto quello che è destrutturazione e nichilismo, i CD furono immediatamente odiati e boicottati per le liriche dichiaratamente sataniste, occulte, malefiche con tanto di manifestazioni da parte di cattolici integralisti davanti ai luoghi dove la band si esibiva, ma loro – i stupendi blasfemi – andavano avanti con le loro invettive ed i loro tormenti interiori, e brani come la corrosiva strigliata punkyes “Spiritual Cramp”, il caos luciferino che echeggia sadico in “Prayer” e la convulsiva attestazione di odio “Romeo’s Distress” ancora disturbano menti e spiriti di chi li ha amati fino in fondo; ora loro non ci sono più ma prima di andarsene hanno strappato tanti di quei cuori da sotto la gabbia toracica che i nazisti in confronto hanno fatto meno danni. Un Mito Nero!

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Warm Soda – Someone For You

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Un raptus di nostalgia ragionata (o meno) che si slurpa in un fulmine del corpo e della mente? No assolutamente. Magari un schiaffeggiamento  sonoro che esalta memorie nei contesti degli anni zero? Acqua! A sentire Matthew Melton – capo indiscusso degli americani Warm Soda – band del Tennessee e adepta delle scalmane garage-pop d’ultima cotta stile Bay Area Californiana, sono tutte frenesie da sfogare, e , con la classica triangolazione chitarra-basso e batteria, la cricca arriva trafelata con un album molto vivace, Someone For You, un aerobico ed impacchettato disco che richiama ad un primo e irrisoluto ascolto sudori in bilanciamento StrokesBuzzcocks, ma che con l’andare del tempo di ascolto, porta a galla un ottimo mondo proprio che ha egregiamente un buon inizio e una altrettanta ottima fine.

Dodici tracce da spiaggia, solari e ombrose come un pomeriggio di fine agosto, danzerecce quanto vogliamo e che si lasciano contaminare – fragorosamente – da hook da Juke-box e filodiffusione da bar della Costa, ballate, schizofrenie slackers e spumeggianti riff che stanno e fanno stare in perpetuo movimento, con quella simpatia “godereccia” da leoni di un giovedi qualunque e viziosi passeggiatori in cerca di bionde scollate e di facile rimorchio; nelle ultime uscite dell’underground americano c’è un grande ritorno a queste sonorità, a queste “elargizioni” elettrificate che fanno battere i denti a ritmo di una spacciata libertà tutta americanoide e di essere “ad un passo dalla conquista del mondo sotto i piedi”, attecchiscono i refrain adolescenziali e storielle di amori sfigati che si apparentano voluttuosamente ad un Pop-College brufoloso, e non sempre la situazione è sotto controllo.

Per quanto riguarda il versante dalla parte dei nostri Warm Soda, si possono scoprire e intercettare anche piccole chicche tutte Garage che hanno forte espressione nelle isterie punkyes a tripletta “Violent Blue”, “Jeanie Loves Pop”, “Spell Bound”, il vizio Stoogesiano dello sputo Rock “Star Gazer”, “Diamond Ring” e lontane appariscenze glammy con un Marc Bolan che pare rinvenire a fare gli occhi dolci in “Busy Lizzy”; deve arrivare l’aria tronfia di “Lola” a chiudere il tutto, ma non solo, anche a farci decretare che questo disco riesce a creare un’atmosfera magnifica e di sollazzo, con tanti momenti tristi che al suo passaggio scappano mentre delle sopracitate biondone da acchiappo nemmeno l’ombra.

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Pivirama – Fantasy Lane

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Pivirama è il moto sognante della cantautrice siciliana Raffaela Daino è e rimane un personaggio/band ermetico, perennemente incline alla soglia di un mistero quasi ancestrale, eppure piccolo prodigio di peregrinazioni, viatici ed incursioni verso un qualcosa di tattilmente e atmosferico rivolto verso un futuro, comunque un futuro con più diramazioni, che partono da un unico punto focale, la bella fusione di parola e musica.

Fantasy Lane è il numero tre di una immaginazione artistica che sale vertiginosamente per espandersi e stimolare un ascolto “con la testa tra le nuvole ed il cuore zavorrato dentro”, tracce (in italiano e inglese) che integrano alla perfezione quella materia delicata ma anche oscura che è la summa stilistica di cambiamenti e rivoluzioni interiori, voli pindarici ed atterraggi intimi che si travestono da sogni e sensibilità decadente, lo sguardo ed il broncio di una artista che privilegia stare  sopra ai sintetizzatori, sopra un pop screziato, sopra a chitarre e tasti di piano per vedere dall’alto in basso la volontà sospesa della sua melodia trasversale, della sua pigra grazia; con un aura sparuta, ma proprio sparuta semi-cosmica alla Cristina Donà, Pivirama rende esaltanti i suoi stati d’animo, li manipola e colora prevalentemente di colori autunnali, quel senso decelerato di poesia personalissima che scompone e ricompone tra reale ed immaginazione, radenti in cui sguazza e abbina alla scelta sua di farli comunque punti di riferimento stupendi lontani dalla ipercinetica dei tempi che corrono.

Straordinariamente culturale e  – meraviglia – fuori sincrono dalle piste battute dell’indienulla, il disco regge confronti e ascolti plurimi, disco che vede la collaborazione di svariati musicisti incastonati qua e la nella scaletta e anche disco di “attracco” per ulteriori sviluppi creativi e di sostanza; l’offuscato brivido elettrico di “Sick”, la nebbia altolocata che si spande nell’eterea atmosfera francoise “Sonicamente”, il giro rock alla Courtney Love “I am Mine” o le parole di Madre Teresa di Calcutta che stringono il cuore in “Mom Theresa” sono le campionature rapprese di questo effetto sonoro che è Fantasy Lane, arrivo, ripartenza, approdo e di nuovo volo di una bruciante sorpresa che spalanca l’ascolto, sottomettendolo.

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Pills שבוע עשרים ואחת (consigli per gli ascolti)

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“Amo le Pills sopra tutte le arti. Esse cominciano dove la parola finisce: è la lingua universale di tutti i cuori che amano.”

Silvio Don Pizzica
Merchandise – Total Nite   (Usa 2013)   Post-Punk, Shoegaze     3,5/5
Con lo sguardo al passato, i Merchandise confezionano cinque perle piene di ottime idee. Forse troppe. Resta un disco che tra Post-Punk, Shoegaze, Dream Pop, Ambient, Noise e attitudine Pop suona un po’ troppo confusionario
Big Black – Atomizer    (Usa 1986)   Noise Rock, Post-Hardcore   4,5/5
Non me ne vogliano i fan degli Shellac ma questa è la prima e la meglio riuscita creatura partirita dal genio di Steve Albini. Uno dei dischi più potenti e cattivi per sonorità, più deviati e malefici che la storia del Rock ricordi.

Max Sannella
The Sisters Of  Mercy – Floodland    (Uk 1987)   Dark   4/5
Velvet , Stooges e Bauhaus concentrati in un sottopelle da brivido, anche se per poco, ma da brivido.
Small Faces – From The Beginning   (Uk 1967)   Beat Progressive  4/5
La rabbia e la grinta nei live ed il beat in studio, formazione e disco seminali per il rockerama a venire
Social Distortion – Prison Bound   (Usa 1988)    Punk-Rock   4/5
Un grande esempio di punk energy al servizio di un brusco rock’n’roll.

Giulia Di Simone
Spiritual Front – Armageddon Gigolo’    (Ita 2006)   Neo Folk    3,5/5
Gesù è morto a Las Vegas bevendo whisky, mutilando corpi e assaggiando il frutto del peccato bestemmiando, e questo disco è il suono della sua marcia funebre.
CCCP Fedeli Alla Linea – Affinità – Divergenze Fra il Compagno Togliatti e Noi   (Ita 1986)   Punk   5/5
Capolavoro indiscusso partorito dalla mente malata di Giovanni Lindo Ferretti, paranoia allo stato puro.

Marialuisa Ferraro
Turin Brakes – Outbursts   (Uk 2010)   Alternative    4/5
Nel disco si esalta la linea melodica vocale, sorretta per lo più da sonorità in equilibrio fra elettrico ed acustico, in atmosfere placide, cantautorali a tratti e particolarmente suggestive, come nella title track.

Diana Marinelli
Atoms For Pease – Amok   (Uk 2013)  Rock Sperimentale, Elettronica    4/5
Un super gruppo nato probabilmente dalla voglia di suonare e di mescolare se stessi. Qualcuno in giro per il web si chiede quando finirà questa moda ma intanto il risultato e la miscela di Rock Sperimentale ed Elettronica potrebbe essere interessante.

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Alice in Chains – The Devil Put Dinosaurs Here

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Quattro anni fa – diciamocelo con chiarezza – Black Gives Way To Blue ci aveva lasciato più che con un amaro in bocca, troppo forte il dislivello creativo e di sollazzo maledetto del dopo Stayley, e ancor più forte lo stordimento mai rappreso della perdita di quest’ultimo, ma ora come per azzittire le numerose illazioni su di loro, gli Alice in Chains al comando di Cantrell ci riprovano con The Devil Put Dinosaurs Here, il disco che – più o meno – ribadisce il lugubre fascino malato delle altre produzioni, anzi con più affondi funerei e malinconici che spaziano come amebe impazzite nelle riappropriazioni delle colorazioni dark del marchio AINC.

Molti – appunto – sono immobili nelle convinzioni e  fanno ancora il paragone estetico e vocale Stayley/William DuVal, ma sono solo quegli attaccamenti umorali di chi non si convince ancora alla sostituzione “forzata”, ma quello che conta è che la formazione rinasca dalle castranti modalità di confronto e seguiti a forgiare una nuova stagione d’oro e di una rinnovata coscienza e questo disco – incastonandolo tra estasi e rinascita – torna ad esprime in grandeur quella esperienza mistico-animistica  del sulfureo, quelle meravigliose e prodighe ombre profonde che sacralizzano l’insacrabile; dodici tracce che hanno lo spirito della notte, psiche ed entusiasmi maestosamente sostanziali sono l’ossatura di un album che porta la band americana ai punti caldi della loro storia, dei loro demoni nascosti e i fantasmi cordofoni della loro arte mefistofelica.
Disco a due mandate, da una parte la discesa negli inferi fumiganti della dissolutezza atmosferica “Pretty Done”, la titletrack, “Phantom Limb”, alcune appartenenze doom Sabbathiane “Stone”, “Hollow”, dall’altra gli strati benevoli dell’appunto “rinascita, quel forte respiro di apertura immacolato come a redimersi verso un paradiso slabbrato “Voices”, “Lab Monkey”, la bellissima ballad “ Scalpel” o l’abbraccio di un sole d’inverno “Choke”; grande armonia e altrettanta voglia di essere presenti, gli AINC sono di nuovo sui sentieri della padronanza sonora, e ancora sulle orme di quel loro insaziabile viaggio ai confini dell’assurdo reale che dell’angoscia,  dell’ossessione e della estenuante necessità di ripetersi nella immaginifica di un non raziocinio, ne scarica il fasto e l’irreversibile cianotica bellezza.

Un marchio che non avrà mai fine!

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Ubba + Riccio – Desmond

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Pezzi di storie personali, scazzi, melodie, albe vissute e una cantina intima su cui riempire sogni ad occhi aperti e occhi da sognatori, è quello che il duo Ubba + Riccio, musicisti in quel di Bologna mettono in questo rubino grossolano di canzoni che racchidono in Desmond, un raffazzonato quanto stupendo squarcio di poesia e canzoni tra bicchieri scolati e anime in preda di libertà che girano sullo stereo come una forza “contraria”, una competizione con l’inerzia che emoziona, che puzza di bello.

Sei tracce che rimangono impresse addosso, non solo per la celebrazione di un lavoro semplice e racchiuso dentro, quanto per l’impeccabilità e la sfrontatezza umana che trasmette, la poetica trasversale che si fa umido prodotto di bassifondi per salire  dritta nello stomaco e darti quella stranissima sensazione di tutt’uno col suono e la parola, e anche se questo lavoro in miniatura non potrà mai stabilire delle nuove regole nell’underground, di certo può regalarti un inno buio di dolcezza e di espressione più che alternativa; Ubba voce/chitarre elettriche e acustiche/dobro e feedback, Riccio batteria/armonica e rumori sono gli eroi di questo notes di suoni che – dopo due stupende rivisitazioni strascicate di “800” e “La Ballata Del Michè” di De Andrè – mettono in atto tutte le tribulations e i punti di riferimento della loro luna creativa, chicche di inquietudini e pensieri ritornati in testa che danno a questo registrato il sentore di un qualcosa che già conta molto.

Il trasporto distorto e noiseizzato “Da Quando mi Stringevi Forte”, i refoli chitarristici della immaginifica “E Venne la Pioggia”, il Folk da saloon, pepite e western di provincia “Old West” e la tenerissima intelaiatura intima della ballata “Nella Sera”, parole, amore strozzato e tutte le dolci e abrasive coordinate di Giorgio Canali, sono il contenuto di uno scrigno impareggiabile di stupore che Ubba+Riccio compensano con una cifra artigianale di livello, un “perfetto armonico” che se non si sta attenti fa bibenda con i tuoi sentimenti per  non restituirteli +.

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“Diamanti Vintage” Nine Inch Nails – The Downward Spiral

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E’ sicuramente il parto più incazzato e deviante che l’eccelsa mente ossessa di Trent Reznor dei Nine Inch Nails abbia mai esternato e ancor più sicuramente il suo più grande successo di carriera; The Downward Spiral è la più forte espressione psichica di follia urbana, rabbia e nevrosi che specchiano fortemente gli anni Novanta delle visceralità e queste quattordici tracce sono il sacrario fobico di un’arte a matassa, dove Screamo, Industrial e mille direttrici impazzite scavano a morte l’ascolto, anche il più intransigente.

Un capolavoro che abbandona ogni indugio di riappacificazione con un certo Rock, un monolite attraversato anche da momenti sparuti di dolcezza velenosa che non ammette regole o limiti, tutto è uno sconquasso devastante di chitarre, elettronica, ritmi sulfurei e ombre buie che si ammassano senza mai dileguarsi: dicevamo un lavoro che si identifica perfettamente con le illusioni claustrofobiche e malsane della società targata 90, di quelle brutalità espressive e fenomeniche di strade fosche che si abbattono ripetutamente e con vigore sull’orecchio, nonché una strabiliante metafora industrial sulle fonti maligne della non rigenerazione umana, del peggio che arriva a incrementare il peggio. Con alle manipolazioni del suono tipi come Alan e Flood Moulder e guest di prim’ordine quali Adrian Belew (King Crimson) e Stephen Perkins (Jane’s Addiction), il disco è un atto pratico di violenza e poesia maledetta, una sinistra evocazione che prevede e consta climi di instabilità e algide incursioni in pads ipnotici “Piggy”, “Closer” che occhieggia alla Minneapolis di Prince, si trasforma in voli screziati e illimitati “A Warm Place” o nelle ansie al rallenty “Hurt”, il resto è pura ed iconoclasta follia schizofrenica “Heresy”, “Ruiner”, “Eraser” per citarne alcune.

E’ una forza rituale di simbolismi e scarnificazioni di suono, una consacrazione estetica di dinamitarda bellezza che esplode, implode e riesplode in ogni istante della tracklist, una disperazione imbastita che si diffonderà come un herpes di cui non si conosce ancora di come guarirsi.

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Beatrice Antolini – Vivid

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Saranno i tempi non più conformi, le deviazioni meteo o chissà la profonda alienazione dell’underground o i prezzi delle albicocche alle stelle, fatto sta che quel prodigio che fu  Beatrice Antolini si è liquefatto per sempre, lontani i tempi di A Due e stratosferici gli allontanamenti dalle conferme che per un lasso di tempo l’avevano seguita qua e la per lo Stivale. Ed ora? Tutto finito, Vivid, l’ultimo lavoro della nostra marchigiana è un buco nell’acqua colossale, un sequel di quel orrido escamotage chiamato BioY che già era presagio sincero di una fine annunciata, di una pagina underground strappata e data in pasto al nulla.

Dischi simili funzionano nel senso opposto del piacere, tracce queste su livelli “metaqualcosa” spudoratamente declinate all’effetto immediato che purtroppo per la Antolini non arriva nemmeno se lo si affitta a buon soldo, un continuo riciclo di elementi ispirativi e di mosse già  pre-esistenti per giocarli poi in  manipolazioni estenuanti e di scarsissimo valore uditivo; dieci confusioni patinate che soggiacciono e guastano il ricordo di questa giovane promessa che era, e che confondono ulteriormente il già tanto confuso circuito emergente. Quello che emerge – o sarebbe meglio dire “viene a galla” – è un contorno musicale senza capo ne coda, molto radiofonico quello si ma di quei “zompettoni imbarazzanti” che farebbero la fortuna di qualche club sulla costa sud del lago di Garda nei fine settimana.

Sculettate alla B52’s, la Furtado che anela amore tra un trucco e l’altro “Open”,. “Trasmutation”, più in basso la tecnologia vibrante dell’Acid Jazz che avvampa senza prendere fuoco “Now”, la stupidità ritmata in mid-techno “Cobra” e un pochino più in disparte (menomale) la nullità corale di “Happy Europa”, anello di congiunzione tra il niente e sperpero di energia elettrica, quello che rimane dopo l’ascolto è solamente il ricordo vago di “ My Name Is An Invention”, sciarada volatile ben congegnata ma che purtroppo non può soddisfare da sola quello che un intero disco nega all’ascolto.

Beatrice Antolini devia sulla strada di un mediocre Soul-Pop, forse un ripiego o forse una ricerca di un qualcosa da cantare pur di cantare, ma quello che si prospetta agli orecchi è solo autolesionismo senza nessun significato. Peccato gli inizi erano buoni…….

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Wire – Change Becomes Us

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Gli anni passano inesorabili per tutti, anche nella musica non si transige, tutto ingiallisce meno i capolavori di patina doc, artisti e idiomi musicali che sopravvivono all’usura e che – tra cadute e calici alzati – sono riusciti sempre a raccogliersi e rialzarsi, tanto è che ancora oggi sono cattedre incontestabili della sconfinata cosmogonica Rock.

Non a caso i Wire, la formazione inglese che dopo la liquefazione del punk, meglio di altre ha saputo traghettare tutta quella dolorante trasgressione nelle lattiginose coordinate della New-Wave appunto Post-Punk , seguita a sfornare crediti ragguardevoli e non, ma che comunque hanno segnato la scena di allora e questa di oggi, e Change Becomes Us, tredici tracce recuperate nel tempo della loro carriera e mai registrate prima d’ora, riporta la band di Colin Newman a certi splendori ovattati, li fa oscillare tra movenze deep e ondivaganti trilli nerofumo.

Via le grattate e le retoriche di larsen che smerigliavano il passato, ora vive una specie di “aggiornamento”, un calarsi nei tempi moderni con maturità e riflessione senza tuttavia fare a meno (ma in maniera meno eclatante) di scariche e lampi distorti, ma usati con dovizia e senza più quell’urgenza straripante, un riqualificare le potenzialità di gruppo dove l’intensità di scrittura e gli affondi dolciastri del mood trovano un equilibrio – all’ascolto –  perfettamente in bolla; tolta la ridicolaggine pop di “Re-Invent Your Second Wheel”, la tracklist è una genialità anomala che se da una parte  becca effluvi spacey di stampo smaccatamente Floydiani, dall’altra si trasforma in mantra ipnotico “Time Lock Fog”, trascina nelle armonie sottocutanee di “Keep Exhaling”, e anela il ritorno al primo amore punk “Stealth Of A Stork” per poi immergersi completamente tra nebbie e foschie wave fino a sparirci dentro “B/W Silence”.

Ovvio che siamo sulle strade della buona musica ma niente di cui urlare  al miracolo, semplicemente una scheggia di classe musicale che mantiene una eccezionale seconda vita, i Wire – con un incedere deciso e inarrendevole – ancora ipnotizzano fino alla malinconia, quella in positivo chiaro.

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Tomahawk – Oddfellows

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Faith No More, Mr. Bungle, Fantomas, Peeping Tom, manca solo la Sacra Sindone e poi le ha fatte tutte. Mike Patton non saturo, meglio sazio, di percorrere tutte le sacre strade del rock sotto moniker altisonanti, con i fidi Tomahawk in cui coabitano ex Jesus Lizard, Melvins, Helmet ecc, torna a scarnificare pagine di energia con Oddfellows, quarta fatica discografica in dodici anni di fondazione di questo supergruppo elettrico,  una ottima combinazione di “tutto” su cui prevalgono contrappunti, bizzarrie stranezze – appunto – Pattoniane non solo non scontate, ma pure col vizio di brillare come strobo/things customer.

Il gioco di Patton e Soci, è la folgorazione ogni qualvolta di sfumature e calibrazioni amplificate, sperimentazioni e aperture che coinvolgono ogni forma stilistica da rielaborare e tirare a seconda delle caratterizzazioni volute, tutto senza risparmio di idee e tutto col pieno adrenalinico oltre  il livello, come il salto in alto del 2007 con quell’album strabiliante che è stato  Anonymus, farcito dalle litanie e magie dei nativi americani; tredici episodi morbide e taglienti, con il riavvicinamento ad un suono molto più ferrato, sludgering e smanettato con abbondanti scariche elettriche e rumoristiche, che a tratti spasima per il metal come la titletrack, “Stone Letter”, il Noise straniante “South Pow”, la cacofonia gutturale “The Quiet Few” o nei fantasmi desertici che esalano misteri in tribali in “I Can Almost See Them”, una summa di schegge deflagrazioni e  buchi neri che percuotono l’ascolto come l’immaginazione.
La timbrica di Patton e la chitarra di Duane Denison sono le linee guida e le sacralità assurde dentro questo registrato, lotto che gira a due velocità, la già citata tempesta di distorsori di cui sopra, e quella sperimentale che nel blues squinternato di “Choke Nek”, nei tempi alterni e hard luciferini di “Waratorium” e nella tensione diabolica delle spire malefiche di “Baby Let’s Play­­­____” approcciano tumulti sanguigni e sbalzi di pressione arteriosa da paura.

Come sempre un disco di un’artista inafferrabile,  un anfetaminico pensiero che rotola, costringe e si coagula in uno stato libertario assoluto che miete ascolti doppi e regala quella follia pura con cui ingrassare tutto.

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“Diamanti Vintage” Talking Heads – Remain In Light

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Stregoni acidi e invoglianti di un voodoo meticciato di Elettro-Rock, Tribal, Dance e chi più ne ha più ne metta, i Talking Heads di David Byrne (sempre con l’aura benefica di Lord Eno) approdano a questo album vivacissimo, Remain In Light, una congiura al mondo del rock abituale con un Jungle continuo di sincopatizzazioni ritmiche, tremori Afrikaneer e contraddistinguo World che emette una formula stilistica fuori dalle righe per gli ascolti classici, un disco che fa posto ad una fantasiosa fioritura di stimoli e funkadelic move-it che poi diviene storia a tutti gli effetti nonché scuola programmatica nel divenire.

Dicevamo una Jungla mai convenzionale, un fitto sottobosco di suoni, echi, idee, stranezze e cardiopalma che sono oramai il punto di forza di questa band  americana, band che in Byrne vede la lucida follia di un leader carismatico ed eternamente trendy, e la scala internazionale della loro musica è oramai diventata un hook irrinunciabile di mondi legati al clubbing, ai fool party newyorkesi e inno di una generazione etno-chic che lancia mode alternative e sound in cui riconoscersi come identità camp.
Tutto è un vibrare di sussulti, nevrosi urbane, epilettismi ipnotici, scatti surreali e orecchi pieni di tutto quello che possa far muovere, ballare e dare vita  ad un intenso percorso sensoriale world, brani terragnoli  che si intersecano con arie elettriche e che a loro volta ritornano nelle periferie per assumere sembianze di ectoplasmi multicolori e stregoneschi, mai malinconie ma un rutilante stato avanzato di sperimentalismi che lasciano stupefatti anche i detrattori più incorruttibili; un futuro Beck e altrettanti Talk Talk succhieranno da questa amalgama linfa per le loro modellazioni sonore, mentre brani funk come “Crosseyed And Painless”, “House In Motion” e la carica dance di “Once in a Lifetime” sono tutt’ora manifesti di lussuria musicale intoccabili, punti di riferimento come una fede religiosa.

La finale “ The Overload” è un omaggio nero e magmatico alla scena obscured inglese, a quei inconfessabili rapporti di pensiero che – insospettabili fino ad allora – Byrne teneva con i Joy Divison ed il loro cosmo notturno darkone, ed è l’unica rilassatezza che in questo disco si permette di staccare la spina all’argento vivo di cui si nutre in sovrabbondanza. Pietra miliare in eterno.

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