Max Sannella Tag Archive

Lilies On Mars – Dot to Dot

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Terzo disco per il duo delle Lilies on Mars, e di nuovo un appuntamento imperdibile per chi ama galleggiare sue  giù nei percorsi non obbligati dell’assenza di gravità, magari con meno corrente elettrica del passato, ma con un nutrito sollievo minimalista che da la spinta accogliente e visionaria di un parabolico onirico, vuoto di pesi e carico di sensazioni impalpabili e gassose.

Dot to Dot contiene tredici brani che denotano una crescita corposa delle strutture sonore alle quali Marina Cristofalo e Lisia Masia danno una cura spasmodica, levigano, arrotondano e si abbandonano ad uno spleen delizioso, ben ricco di nuove pulsioni e perfettamente in linea con un ascolto rilassato e “marziano” come si conviene, lussuosi soundscape che innalzano i presupposti fascinosi di lontani Slowdive con quel senso tridimensionale Barrettiano ed una partecipazione di livello, quella di Franco Battiato voce in “Oceanic Landscape”, un piccolo gioiello tra i tanti.

Droni e vibration, danze incorporee, istigazioni leggiadre a  volare nell’ambient thing o tuffarsi nei flussi magmatici della tenerezza, tutte cose che vengono immediate pensare nel momento in cui ci si trova immersi in questa scaletta fino al collo, tredici formule “chimiche” che elaborano altrettanti ed efficaci lisergie profumate di vetiver  intriso di acidità, accordi e suoni che entrano in circolo mentre propagano sensazioni lontane nel tempo; il migliore spettacolo che questo nuovo disco diffonde lo si prende ascoltando le arcadie sofisticate della tripletta “Dream of Bees”, “Entre-Temps”, “Interval 1-2”, nella giostrina solitaria che brilla opaca in “Impossible Child” oppure nel lasciarsi intorpidire dalle movenze sinuose e aliene che “For The First 3 Years” e “Martians” adagiano dentro una ionosfera tutta personale.

Prima o poi arriva sempre un momento micidiale per staccare un po’ dal consueto marasma uditivo, e questo momento prezioso è finalmente arrivato.

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Iron & Wine – Ghost On Ghost

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L’ex stazzonato raccounteurs della Columbia, Sam Beam, al secolo Iron & Wine, si è ripulito dalla polvere mid-freakkettona degli esordi, e al culmine di una oramai maturità stilistica centrata si “costituisce” ad un suono molto più ricercato, ad una raffinatezza meticciata  e a suo modo colta rappresentazione di se stesso e della sua arte musicale; Ghost On Ghost è il disco della svolta piena, un concentrato easy dalle tinte agre e briose nell’insieme che – distribuite in dodici tracce – vanno a scovare e riscoprire timbriche inusuali nell’arte dell’americano.
Quella  tempra acustica che nelle precedenti edizioni discografiche  ricamava tutto, ora è solo un utensile usato saltuariamente, l’artista colora l’ascolto con vibrazioni sofisticate, corali, orchestrali, prende l’armonicizzazione e la circonda di una climaticità etera, tocchi chic – tanto per usare un termine più che idoneo – che I&W giostra e filtra con l’agilità tenera di un nuovo modo di vedere il mondo;  quello che si va ad ascoltare è tutta un’altra latitudine, e per rendersi conto della nuova rassegna stilistica bisogna ascoltare questo disco con il dovuto distaccamento spirituale per non incappare in un giudizio frettoloso e dettato dalla superficialità, tracce che abbisognano di decantazione, proprio come un buon vino d’annata.

E’ un piccolo eden di Soul “The Desert Babbler”, “Grass Widows” un funky Motown a bassa voce “Low Light  Buddy of Mine”, il vapore jazzly che stria la bellissima “Singers And The Endless Song”, un’occhiata field mattutina “Sundown (Back In The Briars”, tracce atmosferiche che prendono vita nel momento giusto in cui il suono prende coscienza della vitalità “New Mexico’s no Breeze” o nell’impressione Dubstep che il vibrato di tromba stampa nelle ombre urbane di “Lover’s Revolution”. Si, effettivamente siamo lontani dalle prime mosse, ma è una bella sorpresa ritrovare questo musicista in una magia deep listening estremamente comunicativa e con quel senso confidenziale, da amico.
E’ un bel cambiamento, una buona aria e un grande artista, Iron & Wine un’altra persona. Abbandonatevi tra il tramonto e la notte fonda di “Baby Center Stage”, copritevi del suo tepore  e poi venite a raccontarcelo.

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Divanofobia – I Fantasmi Baciali

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Certi dischi ci inquietano per la loro stranezza che in fondo si assume anche tutti i paramenti d’una intrigante – a modo suo –  bellezza, e l’esordio dei bolognesi Divanofobia, I Fantasmi Baciali, rientra in quella massa di dettagli espressivi con una voglia di imprimersi per passione sincera e per  un piano sonoro necessario a chi in un disco cerca il lato riflessivo di una giornata particolare, ibrida.

Un Rock Cantautorale, viscerale e amaro che ha una sostenuta velleità per abbandonarsi nella notte, nelle notti di una poetica stilistica che sfiora pure il Pop delle altitudini, fuori dai giri commerciali e valorizzato negli spessori emozionali che amorevolmente fasciano in un battibaleno ascolti e percezioni inaspettate; nove tracce che respirano e danno il senso di un diario intimo, una sensibilità musicale che pretende una doverosa attenzione per essere assorbita come un unguento riflessivo. Arrangiamenti generosi e tristezze semplici al servizio del più  complicato dei fini: arrivare dritti in testa, in pancia e nel cuore, tutte cose che assolvono al loro dovere come una perfetta meccanica estrosa.
Con la tracotanza accorata di certi Modà “Campo di Nervi, la focosità di lontani Afterhours “L’Eremoe la leggerezza sofisticata di taluni Negroamaro “Ci-viltà”, i Divanofobia esordiscono nel migliore dei modi, si affidano alla mera melodia laddove altri lasciano il rumore molesto della rabbia, ricamano liriche profonde nei luoghi in cui molti sperperano personalità nulle, ed intendiamoci non è il classico disco di rodaggio, la prima “volta brufolosa” di un’emulazione dei grandi, ma un compendio di maturità sorprendente che costituisce un già sdoganamento nei gironi superiori dell’underground, in alto verso le mete main che ora come ora sono vuote strade in cerca di nomi e cognomi nuovi di zecca. Il macramè aggrovigliato di corde acustiche e tensione accumulata sullo stile Marlene Kuntz “Non Farti Corrompere” e la traccia opposta della tracklist “Fidia”, poesia solitaria di purezza innocente sulle corde  di uno splendido Mussida, fanno da punti cardinali per un disco in cui la paura di perdercisi dentro è  molta, ma come disse qualcun altro “ è il naufragar m’è dolce in questo mare”.

Da ascoltare in un pomeriggio uggioso col sole dentro.

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“Diamanti Vintage” Killing Joke – S/t

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Il  loro è stato – sin dall’inizio – un gioco al massacro, una delinquenziale proposta elettrica ogni oltre limite che andò a “disturbare” in maniera oltraggiosa i malcostumi e le svenature tardo romantiche della new wave, la loro proposta – mai studiata a tavolino come si potrebbe assurgere – non era altro che frutto copioso di una schizofrenia sociale che batteva i pugni della rabbia ovunque. I Killing Joke di Jaz Coleman, in questo loro omonimo debutto infiammabile, stilano rasoiate che sanguinano un concentrato tossico di decadenza punk, Garage dei bassifondi ed un funky trasversale che abbraccia in un sol giro Pere Ubu, Siouxsie And The Banshees e quant’altro, nove tracce, nove tribalità che andarono a graffiare le pelli delicate di tantissimi gruppi refrattari al cambiamento.

Ovunque senso di ossessione, destabilizzazione, mal di vivere e disagio, una matrice elettrica quadrata di ritmi, scatti nervosi e la fredda intemperanza delle zone periferiche di una Londra sempre più in rivolta, sempre più coinvolta in cambiamenti rutilanti; le distorsioni si sprecano, la marzialità impera e lontani appannaggi percussivi africani si fanno audaci e battenti, come a rivendicare una sceneggiatura messianica, woodoo, ma sono sensazioni che schiaffeggiano e poi vanno via, ma la carnalità è tanta come pure le accelerazioni che la band inglese cerca di inserire anche in un abbozzo di una dance robotica “Bloodsport”. Coleman, Ferguson, Geordie e Glover – questi gli eroi dannati – partoriscono questa struttura primitiva di rock contaminato che è una esplosione di interesse e di critica, un disco negativo che attira positività da ogni parte, e tutto ciò da la spinta vitale a una falange di band che si vogliono –  e lo faranno –   appropriare dello stile e relativi dettagli.
Una parabola – appunto –  che farà anche scuola per marchingegni sonici come futuri Ministry, NIN, Deftones e similari, una sequenza industriale di chitarre  a machete, ritmi epilettici e voce sguagliatamente cool che crea atmosfere quasi luciferine, il battuto di “Tomorrow’s World”, “The Wait”, la wave saltellante “Complications” e il rock militante di “Primitive”, per arrivare al delirio finale di “Change”, brano in cui tutto si fa ancor più scuro, asciutto e pronto per un uso spasmodico delle pedaliere.

La loro musica diventa un must e che ancora fa cattedra, una formazione ed un disco che ha definito nuovi confini dove riferirsi una volta ingaggiata la lotta con la modernità.

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Spiral69 – Ghost in my Eyes

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E’ il tocco raffinatamente bluastro della wave targata duemila quella che fluidifica la tracklist del nuovo disco degli Spiral69, Ghost in my Eyes, il contenitore delle melodie travolgenti alle quali questa straordinaria formazione  ci ha abituato sin dal primo album,  un sound reiterato e approfondito dalle suggestioni e sonorità che si tingono di ossessione e Gothic-Folk per sedurre moderni flàneur tra un sorso di Assenzio e un morso di lussuria notturna.

Riccardo Sabetti, focus, fulcro e attore sonico principale del logos Spiral69, qui con la produzione artistica di Steven Hewitt (drummer e co-autore dei Placebo) e la consolle di Paul Corkett (The Cure, Cave, Radiohead, ecc), introduce un clima suadente ed epico che padroneggia la materia dell’atmosferizzazione, lontano dai geli cattedratici della primarietà di genere e assai vicino all’hook radiofonico, quella melodia catchy che lentamente entra sottopelle e freme di uscire dai pori, l’epidermidità assoluta di un sound generale nato per far vibrare e contrastare le sovrapposizioni modaiole last minute; tracce come istantanee, brani come Kodak tornate fuori da cassetti insospettabili, sogni e ombre che si contengono lo spazio vitale di una emozione da vivere per una manciata di minuti, per quella sacrificalità presente nelle ascensionalità epiche di “Waves”, al dettaglio netto del romanticismo riflessivo “No Heart” oppure nei davanzali della solitudine che sbottano nel mid-.fragore Rock di stampo Depeche Mode “Dirty” e Cure “Please”.

Piano, sinth, archi, effusioni e strizzate di cuore fanno parte dell’architettura generale, l’originale equilibrio tra riferimenti storici e avanguardia contemporanea, il complemento ideale per chi fosse esclusivamente alla ricerca di forti emozioni e parentesi fumè, oppure alla cerca di un fuoco suggestivo di amalgame senza fondo.

Disco di riferimento,  consigliato.

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C.F.F. e il Nomade Venerabile – Attraverso

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Attraverso il fresco ultimo lavoro discografico dei pugliesi C.F.F. e il Nomade Venerabile, non è un semplice prodotto da ascoltare, ma un bisogno di dolcezza che si trasforma in un sorriso a metà ad occhi socchiusi sotto un cielo nudo, una scarica di emotività che sprigiona dalle sue tracce tremori spleen, ipnotica mestizia mista a quel meraviglioso senso di colpa che centra tutti coloro che hanno abbandonato la via del facile ascolto ma che, in silenzio, cedono al fascino di spessore.
Pop, wave, minimalismo, il tardo romanticismo dei Porcelain Sea, le convulsioni bluastre del rock incontrollato, l’aura di Antonella Ruggiero avvolta nella sua poetica progressiva e tutta quella masnada di vestali del suono, si rincorrono, gestiscono, equilibriano la struttura portante di questo immenso ed introspettivo album, suoni e parole che – meno male – non diverranno mai familiari come lo fanno tutte le cose di poco conto, ma che rimangono nella lunga onda che arriva ed indietreggia ad infinitum come nei migliori miti onirici, visionari: il tempo, credere, la scadenza di un io, lo scandaglio delle ore, lo ieri e l’oggi, sabbie di clessidre opache e tic tac di una intimità senza giri fissi su cui attaccarsi sono i must irrinunciabili di una tracklist di tredici brani che dialoga e delira, si piega e stupisce nelle connotazioni di cariche e vuoti d’anima a ripetizione, di una bellezza senza ritegno.

A quattro anni dal predecessore Lucidinervi, la band – con la stupenda vocalità e seduzione della danza teatrale di Anna Maria Stasi nonché  pure con la collaborazione di Anna Moscatelli – tornano con pagine sonore e acts immaginari che senza nascondere nulla all’onestà intellettuale sono  perle di inestimabile valore che usano tirare fuori a palmi pieni da quella forma d’arte che oramai è in disuso e che si chiamava “delicatezza della grazia”; tensione e amore in un incesto continuo, le passioni elettriche “Parto Domani”, “Bambina Che Correva a Spegnere la Luce”, il battito Shoegaze che si piega in “Che l’Alba Esploda”, la liquida correlazione tra Wave e il sussurro di una chitarra sliddata “La Frana” o la meraviglia Pop-Rock di “Nostra Signora della Neve”, traccia da usare con dovizia alla stregua di un talismano cesellato; un sonoro lussuoso di musica che si ascolta e che da performance diottriche, ampi respiri che tra il cerchio prog-mantrico di”…Ventures Est” e le sulfuree nebbie abbandonate da fole e credi “Your Time Will Come” gioca come fosse l’ultimo amante in cerca di minimalismi e ferite da leccare.

Senza parole in più.

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Billy Bragg – Tooth & Nail

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Non gli sono andate tutte per il verso giusto, molte le fuoriuscite stilistiche, abbastanza gli scazzi col mainstream da sempre tenuto ai bordi della sua esistenza e qualche tirata populista che lo ha messo alle corde per averci troppo creduto, ma come tutti i grandi, quando ritornano sui propri passi non c’è altro che inchinarsi e restare all’ascolto in deferente silenzio.
Col passo Folk di certe origini, il musicista inglese Billy Bragg è in giro con il nuovo album Tooth & Nail, album che pur conservando all’interno le prese coscienziali dell’anti-fascismo e di un socialismo immortale, vira verso i campi fragranti del Folk-Country, il vecchio amore dell’artista del Sussex, ed è un suonare dolce/malinconico, depurato dalle asprezze e dalla scorza dura per assecondare ricordi e profondità d’animo vere e straordinarie, nuova vita ispirata da una sua permanenza nello studio di registrazione di Joe Henry in quel di Pasadena, e anche un nuovo ascolto di un capolavoro che si elegge da sé.

Esistenzialismo e suoni splendidamente “americani” per un disco stupendo e ammaliante, esplicito nella stesura e amarognolo nel gusto, amori e dissolvenze che vanno e vengono a ripetizione, il tutto imbastito con i fili field della campagna come essenza atmosferica o fedeltà delle origini, un salto a ritroso dei tempi per fare il passo in avanti nel domani, e dove Bragg ritira fuori la vena poetica spesso sacrificata per i nervi politicians; in questo disco anche grandi firme delle strumentazioni yankee come David Piltch basso e contrabbasso, Greg Leisz chitarre, Patrick Warren tastiere e Jay Bellerose alla batteria e percussioni, tutti insieme per ripercorrere un piccolo e fedele culto country e tenere viva sempre la figura, la parola e la parabola di Woody Guthrie come padre spirituale.
Disco senza fretta d’esecuzione, ballate e passeggiate in solitaria col senso della vita che scorre “No One Knows Nothing Anymore”, gocce di Mississippi sliddato “Handyman Blues”, profumi del Mid-West in fiore “Chasing Rainbows”, il jack innestato per una sola volta nella politica sottocutaneamente incazzata “There Will be a Reckoning” o il passo leggero dei pensieri che si incolonnano per una notte fitta fitta di visioni “Home”, e una piccola meraviglia è servita, una trama che con le nebulose di Wilco e tenui passaggi alla Hiatt, crea quello stato giusto e speciale per l’ascolto in tutta tranquillità. Un altro passo importante nel quasi impeccabile percorso di Bragg, un artista sanguigno capace di aprirsi a nuovi scenari senza mai svendere la propria integrità.

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Phoenix – Bankrupt!

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Ci si aspettava dal nuovo disco dei francesi Phoenix, “Bankrupt!” – come del resto aveva accennato Thomas Mars in un rotocalco inglese – uno sfolgorante gioco di prestigio programmatico, grandi rivelazioni sperimentali se non addirittura tecnicismi d’alta ingegneria sonora, quando poi, una volta scartato dalla confezione, è sì un bel disco ma della consueta cotta, leggermente votato su territori sintetici e con la smorfia gentile della wave e delle sensibilità kraut, ma nessuna trascendentale svolta da annotare sull’almanacco degli immensi capogiri.

Sostanzialmente un pop-tune dalle infinite possibilità di scavare palinsesti radio, ma se ci vogliamo proprio attenere al mero brivido d’ascolto, il nuovo disco è lineare alle loro produzioni che lo hanno preceduto, composizioni aerobiche che passano come brume autunnali, qualche seduzione ad arrembare atmosfere clubbing e delicatezze dal sapore decisamente europeo, e se vogliamo lanciarsi in azzardati commenti, pure somigliante al predecessore Wolfgang Amadeus Phoenix quasi in maniera imbarazzante, ma che comunque – potremmo parlare per ore e ore – funziona benissimo specialmodo quando si associa la musica dei Phoenix con i groove pubblicitari  urbani; membri della compagine francese che ha portato nel mondo le convulsioni di Daft Punk, Air, Justice, la formazione di Versailles ha sempre saputo giocare la carta del velluto sonoro, quella felice derivazione a metà strada tra equilibrio e ristagno, l’additivo preciso per non cadere mai nel pop terragnolo, quello attaccato alle facilonerie da classifica, ma si è sempre mantenuto candido e alto sulla media, poi non sempre ci si è riusciti, ma senza dubbio una band che- per quanto riguarda il passato prossimo ha irretito abbastanza – poi da qui al dopo chissà.

Disco di contrasti e confronti, come nelle circonferenze oriental oriented “Entertainment”, nei radenti ventilati “S.O.S. in Bel Air”, al centro dello strumentale nordico della titletrack, l’R’N’B che tinge la bella “Chloroform” o – se ci si vuole sentire leggeri come una piuma – aggrappati alla sintonia poppyes di “Oblique City”, poi tutto quello che può alimentare le suggestioni di un ascolto tutto sommato piacevole – ripeto senza nessuna rivoluzione interna – lo si trova nel resto della list, che se anche aggiunge poco valore alla storia della band, perlomeno la mantiene.

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Miavagadilania – Fuochi EP

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Scoperti circa tre anni orsono, i milanesi Miavagadilania ritornano sulla lunga distanza con l’Ep Fuochi a reiterare quella formulazione nero torba che è la loro essenza musicale, un repertorio che rimane quasi intatto e che si rivolta dentro arrangiamenti post del post, una solennità che stringe con le sue spire lattiginose di shoegaze, fumigazioni sperimentali, tutta la patina noir dark che si possa racimolare, e che in cinque tracce diventano ossessioni cinematiche e malattia poetica nitida per tutta la durata della sua corsa d’ascolto.
Elena Capolongo e Claudio Papa – questo il nucleo dei Miavagadilania – sono al centro di un progetto psichedelico concettuale che miscela attitudini alla Born For Bliss con le “trasmissioni” sinottiche dei Bionic, pulsazioni a freddo e riverberi cosmici che si fanno largo in una forma canzone che ogni tanto riemerge dalle “disturbanze” e dagli anagramma sonori “Muoversi Muovere Muovermi” che immancabilmente accentuano i passaggi del registrato, un disco insomma che si fa approcciare dopo vari giri di prova ascolto, ma che poco dopo scioglie il muro gassoso che si trova tra l’ascolto nitido e “loro”.

È’ un design sonico che si prodiga a compattare suoni, effluvi e matrici distorte per poi coinvolgerle e convergerle in pads amniotici e senza peso specifico “Trascinami”, li raffina in velluti melodici “Fuochi” e li aspira nelle suggestioni cromatiche di stampo prog Canterburyane “Hvalur”, una materializzazione ombrosa che non faticherà molto per circuire il lato “sano” dell’ascoltatore ispirato; forti di un seguito conquistato sul campo, i Miavagadilania hanno uno spazio poetico inimmaginabile, un languore impregnato e stratificato che si eleva e romanticizza – a modo suo – un controaltare immaginario, come un viaggio moderno di Verne, su e giù verso i confini non confini di qualcosa che si muove ma non si avverte, poi se si ci si avventura nelle nebbie sciamaniche di “Il Sogno” il non ritorno è assicurato.
Amate in non eccessi e i viaggi amniotici in qualche dimensione in D? Benvenuti a bordo!

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Teho Teardo & Blixa Bargeld – Still Smiling

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Non è un  ritorno o una intensa saga sonora, ma una capacità di combinare parole e formule cinematiche per trasformare in frammenti di poesia manciate di splendidi brani, alto artigianato sperimentale che poi non è altro che surplus di bellezza e ascolto plagiante; “Still Smiling” più che un giro discografico è un insieme di piece sonore che co-producono armonia a largo spettro, ed è il lavoro a due mani e di due anni del musicista Teho Teardo e Blix Bargeld (leader dei Einsturdenze Neubauten), un disco che oltre a guadagnare al primo ascolto giudizi a otto stelle, mette a disposizione un benessere interiore straniante al quale non ci si abitua sfacciatamente al raggio d’azione come fosse un disco di routine.

Due modi, espressioni, originalità e arricchimenti che si scambiano e interagiscono, suoni, timbri, volumi e attese che si fondono e si distanziano come a guardarsi dirimpetto per poi tornare a rifondersi in un gioco eterno o delimitato fino a farsi proposta e appeal altamente contagioso, dieci inediti, la rivisitazione di Alone With The Moon dei Tiger Lillies e una nuova interpretazione di “A Quiet Life” tratta dalla colonna sonora del film con Toni ServilloUna Vita Tranquilla”, questo il bel corredo sonoro che i due artisti (qui con la collaborazione di Martina Bertoni al violoncello e il Balanescu 4et),  applicano per un ascolto prestigioso, insolito.

Dunque sperimentazione e metafisica a tutti i livelli, tracce essenzialmente straordinarie stralunate divagazioni che uniscono accenti e vorticosi stupori, brani che mettono in bolla deliri teneri e trasformazioni oniriche, un qualcosa girato in seppia che srotola immaginificazioni e progressioni dada, dove l’aria vibra e diventa una bella ossessione da ascoltare tutta d’un fiato; per offrire un assaggio di quello che il disco dirama occorre postare l’orecchio nei snodi principali della tracklist, praticamente avvicinarsi al passo felpato della confessione di “Mi Scusi”, affogare nel liquido tattile di “Axoloti”, stordirsi delicatamente coi nervi tesi delle corde di violoncello che scandiscono la vitalità in down della titletrack, se si vuole volare nei tramonti ancient folkly  che tuonano in “Konjunktov II” e perché no,  abbindolarsi nello slow spazzolato regalato da “Defenestrazioni”, e la cosa che più  sorprende durante l’ascolto è che si è presi da un effetto illusorio di nuotare in qualcosa di non ben definito, ma di nuotare all’insù alla faccia della gravità.

Cantato in italiano, tedesco e inglese, Still Smiling è un fusione psichedelica che domina il senso e la ragione, un disco che marca in non contorni della fantasia e che fa  girotondi di grazia tra te stesso ed il tuo Io. Capolavoro di dilatazioni.

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Questi Sconosciuti – S/T Ep

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Spesso – o sempre – mettere d’accordo vecchio e nuovo non è sempre sintomo “volpino” per tenere (a filo del proverbiale escamotage) il piede in due staffe, cioè non prendere una posizione fissa e strutturata su quello che si vuole fare, molte delle volte è una accorta ed onesta velleità a fare le cose bene e senza far finta di essere “migliori”, e l’onestà intellettuale è la base di tutto, poi nella musica è la prima cosa che si riscontra, tanto vale non provarci nemmeno per un secondo. La lezione pare essere stata assorbita bene da questa band pugliese, i Questi Sconosciuti che con l’esordio senza titolo, ma con altri bei titoli da ascoltare, arrivano a prefigurare un trespass di ieri e oggi maturo e rimbombante, un indie-pop che interpreta una eccellenza sonora della quale sentiremo parlare in futuro.

Dodici tracce che tra sferragliamenti chitarristici, malinconie euforiche di stampo Battistiano “Due di Due”, “Me Tapino”,  in azione di congiungimento con irruenze degli anni Novanta di tempra Pere Ubu e Violent Femmes “Ciao, “Tutto il giorno” stilano una tracklist fumigante e radicalmente tormentata, un cammino sonoro che – ci ripetiamo – è una gran bella scommessa e che sorprende se non altro per lo scatto atemporale che porta in dote: Alessandro Palazzo voce/chitarra, Giuseppe Bisignano chitarra/voce, Francesco Lenti basso e Marcello Semeraro alla batteria, sono l’espressione di una “emergenza” che è già matura, una di quelle band sconosciute che già pare conoscerle da sempre, il loro stimolo sonoro è nella densità dei suoni e degli arrangiamenti, un Ep che a suo modo rinfresca la scena indipendente attuale con la semplicità e l’atmosfera artistica che già si fa  respirare avidamente dalla copertina.

Un ascolto di immediata accessibilità per la rivelazione di una band dalla personalissima cifra stilistica, melodia e pedaliere scoppiettanti che disegnano una piacevolezza delle forme e una rilettura del pop in maniera innovatrice, dalla intimità grigia di “Carah” alla punta di penna di “Perdonami Niente”, allo scatto imprevedibile ed epico di “Tutto Il Giorno” fino allo shake puntato di “Prove di Rivoluzione”, ending scalpitante e radiofonico a mille, nonché sintomo di un Sud sonico più che mai pronto a cariche di suoni verso l’alto dello Stivale, la riscossa che tocca e raggiunge il cuore di chi ascolta Questi Sconosciuti e già mette paura a tanti!

 

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Pills Týden Patnáct (consigli per gli ascolti)

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“Le Pills non sono cattive. Le Pills sono musica. Il problema è quando quelli che ascoltano le nostre Pills le considerano una licenza per comportarsi come teste di cazzo.” Frank Zappa
Dalle novità extraconfine (su tutti il nuovo The Knife) proposte dal nostro Don, ad una mini carrellata storica targata Sannella. Dalla solita nuova scoperta della nostra Diana (stavolta svedese), sempre in crca di talenti nascosti, ad un classico tutto italiano proposto da Riccardo.

Silvio Don Pizzica
Mazes – Ores & Minearals   (Uk 2013)   Noise Rock     3/5
Come all’esordio, ancora psichedelia sporca in chiave Indie per la band britannica. Come all’esordio, il secondo lavoro dei Mazes non lascia intravedere niente di sensazionale, sotto ogni aspetto.
Dirk Serries – Microphonics XXI-XXV   (Bel 2013)   Ambient, Drone Music   3/5
L’artista belga riesce ad essere imprevedibile, qualunque cosa decida di fare. Questo lavoro ne è la riconferma. Tra atmosfere Ambient e droni elettrici e languidi, non potete perdervi l’ultimo capitolo della pseudo saga Microphonics. Sempre che non sia musica a voi indigesta.
The Knife – Shaking the Habitual    (Sve 2013)   Electronic, Experimental   3,5-4/5
Non per fare lo snob ma un po’ fa rabbia ascoltare tutto l’entusiasmo creato attorno a questa formazione considerando che da fine millennio a l’altro ieri la cagavano veramente in pochi. Oggi sembra la moda del momento ma in realtà, dietro a tutto questo, c’è un album fantastico che ha il merito di crescere ad ogni ascolto.

Max Sannella
Country Joe And The Fish – I Feel Like I’m Fixin’ To Die   (Can 1967)   Psichedelia    5/5
LSD e amori  incontrollati a cavallo di una psichedelica ottenebrante e a due passi dalla luna.
Culture Club  – Colour by Numbers  (UK 1983)   Pop Dance   3/5
Boy George e Soci strabiliano i dancefloor  internazionali con un mix di pop entravesti e calori jamaicani. Fanno centro!
The Cure – Wild Mood Swing    (UK 1996)   Dark Wave   4/5
Dalla “Generazione degli Sconfitti” i Cure di Smith si ricolorano di altre sfumature e promuovono un capitolo sonoro che cambia di non poco il loro status.

Diana Marinelli
Den Svenska Bjornstammen – Ett Fel Narmare Ratt   (Sve 2012)   Pop Techno   3/5
Cliccando a caso si può scoprire musica interessante come questa band svedese formatasi nel 2010 che miscela Pop, Techno e una puntina di Folk.

Riccardo Merolli
CSI – Linea Gotica    (Ita 1996)   Art Rock, New Wave    4,5/5
La migliore (post)rock band italiana di sempre incide un disco dalle tinte forti e sapori amari, l’inizio di una rivoluzione musicale che purtroppo in Italia non si può fare.

Marialuisa Ferraro
Smashing Pumpkins – Mellon Collie And The Infinite Sadness    (Usa 1995)   Rock    5/5
È semplicemente un must have, si presenta da solo, ma va assolutamente ripassato in cuffia di tanto in tanto, per sentire come la voce di Corgan si amalgami perfettamente con l’orchestrazione.
Half Japanese – Half Gentleman/Not Beasts    (Usa  1980 – Ristampa 2013)   Rock   3,5/5
Molto complesso etichettare con un genere questo lavoro: é un’esplorazione primitiva tra le matrici dei generi e le pulsioni ritmiche del reagire umano. Un disco cupo per molti aspetti, violento e crudo, che raramente cede il passo al puro godimento armonico-melodico.

Vincenzo Scillia
Iggy Pop & The Stooges – The Stooges    (Usa 1969)   Punk Rock    4,5/5
Il suono primitivo di un gruppo che è pura storia. “The Stooges” racchiude quel grandioso suono da garage che in tanti hanno seguito. Rispolverare questa perla è stato un vero privilegio.
Finntroll – Nattfodd    (Fin 2004)   Folk Metal    4/5
“Nattfodd” dei Fintroll è un simpatico disco che ha la capacità di farti immaginare di stare in mezzo agli abitanti del piccolo popolo. Tra fate, elfi, nani e troll vegliano più che mai i riff, le cornamuse ed il cantato in growl dei Finntroll. Una chicca di album.

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