Max Sannella Tag Archive

Mudhoney – Vanishing Point

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In molti si credeva che fossero spariti inghiottiti con i panni addosso nel baratro finale del grunge, in quel di Seattle, magari divorati dalla stessa loro febbre tagliente, se non addirittura liofilizzati per voglie inespresse di roba scottante da tirar fuori nei momenti di nostalgia profonda, come quelle fami compulsive che prendono a notte fonda, invece, con un colpo di coda che arriva dopo un lungo silenzio, i Mudhoney si risvegliano e Vanishing Point è il loro nuovo e ritrovato ruggito, anche se un po’ dimesso.

Hanno resistito alle slavine – appunto – Seattleiane, e non sentono gli anni addosso – loro – ma li sentiamo noi all’ascolto, infatti la carica  della “differenza” appare leggermente moscia e glabra dei peli urticanti dei quali la band americana andava fiera, certo rimangono sempre una icona di muscoli, cuore e cervello “andato”,  il loro spunto isterico di rock’n’roll è brutto, sporco e cattivo – come nella pubblicità – ma ascoltando questo nuovo lavoro, di nuovo pare avere pochissimo, tutto risuona di risentito e di movimenti vicini all’anchilosaggine  che non ne fanno più eroi onnipotenti di potenza; dieci tracce che conservano sotto sotto il respiro elettrico e forsennato di Stooges e Black Flag “Slipping”, “I Like it Small”, “In This Rubber Tomb”, ad ogni modo sempre col passo dell’Iguana Iggy che si palesa vunque, a domicilio coatto in tutta la tracklist, ma la testardaggine della band è tanta e credono in quello che fanno e che hanno sempre fatto, forse un’autoindulgenza ma rimane la sensazione netta di un qualcosa che si sta esaurendo vertiginosamente.

Dopo il melanconico omaggio “Sing This Song of Joy” per la scomparsa di Andy Kotowicz (Sub Pop), il rimanente in circolazione è una componente sonora di riff compressi, cantati svenati e ritmiche convulse che riportano solo indietro, pressappoco un operazione nostalgia in offerta speciale che passa senza la minima apparenza di interesse, e ciò – con tutto il rispetto che si deve ad una formazione seminale come poche –  dispiace enormemente,  e sull’onda di una delusione si potrebbe salvare a bordo campo l’ondulamento beat che agita “The Final Course” o la forsennata turbolenza che avvelena “Douchebags On Parade”, ma giusto per salvare l’onore della causa.

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“Diamanti Vintage” The Replacements – Let it be

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I The Replacement sono il riassuntivo sonoro degli anni Ottanta indipendenti in quel di Minneapolis, da sempre indicati come la controproposta è meglio la controparte degli Husker Du per via di quella bizzosa movimentazione che caratterizza  le loro performances, un mix di nevrotico punk slegato dal genere madre che singulta e sfuma in intellettualismi garage colmi di esistenzialismo e scatti ossessivi sfocianti a volte nell’hardcore.

Giovanissimi al limiti della legalità, la band capitanata da Paul Westerberg, mette in conto di confinare all’angolo tutte quelle band del circondario e non solo che ancora si ostinano a forgiare suoni e terremoti elettrici di vecchia fattura, e dopo due album e un pugno di project slim arrivano a questo stupendo lavoro Let it be autentico inno dell’angst ribelle giovanile che dal loro Mid West diffonderà una onda d’urto che durerà per molto ancora; undici tracce effervescenti, un compendio musicale che sembrano riverberi trascinanti di urgenze e storie da raccontare subito, traguardi che la giovane band immette nell’ascolto sottoforma di ritmi e liriche da angry young man, quelle sensazioni che non si nascondono dietro – e solo  – la potenza delle chitarre, ma anche nella poesia immedesimata, nella tenerezza sverginata di tanti pensieri prepotentemente venuti a galla all’improvviso.

Ottimo concentrato di stili e forze impulsive, piccola enciclopedia nella quale gira di tutto, e come tutto si imprime nel gusto primario delle belle cose in un battibaleno, e anche un album che risente delle esperienze e delle ventate cha arrivano dalla lontana Inghilterra, quelle vertigo coloratissime della swinging town che allungano i tentacoli verso una grigia Europa di sotto, già traballante di suo; ed in quel 1984 questa tracklist fece un successo sonoro oltre ogni limite, i rigurgiti Hardcore che sbranano in “We’re Coming Out” che vanno a contrastare la stesura pianistica di “Androgynous”, lo scazzo strumentale che urla in “Seen Your Video” che puntella il Power-Pop scalmanato di “Black Diamond” o l’ottimo gioco elettrico di Fender in “Answering Machine” che da un pugno nell’occhio alla stradaiola e Springsteeniana poetica di “Sixteen Blue” forse l’unica traccia dell’intero lotto a dare di stanca.

E’ una giovane band che durò poco, ma il loro testamento – insieme al futuro album Tim – rimane in circolazione nella storia di poco fa, una mercuriale postura che li farà ricordare tra l’Olimpo delle comete, di quelle che passano una sola volta ma graffiano il cielo ad aeternun.  Seminale!

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Koinè – Come Pietre

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Diciamo subito un disco che avrebbe potuto dare molto di più, tuttavia il merito di provare a dare qualche scossa all’ascolto alzando di tanto in tanto il loud dei toni. Come Pietre, il nuovo album dei ferraresi Koinè,  si percepisce e riesce nell’intento di farci dimenticare per un po’, le abbondanti suggestioni negative che ultimamente girano nei territori dell’underground di casa nostra. Il loro è un Pop-Rock classico, scorrevole e nella norma caratteriale, bei refrain, ottimi arrangiamenti, qualche hook da palinsesto radio e quei flirt ispiranti alle tranquillità figurate di un Nek e le accorate epiche dei Modà, un canovaccio di melodie dolciastre che si imprimono nelle inconsapevoli (ri)fischiettate che fanno compagnia lungo una qualsiasi giornata.

Nove brani rassicuranti dai contorni rockeggianti, una forte linea di credito con le atmosfere festivaliere che però non scadono nella banalità innaffiata, bensì si innalzano nel focus di una centralità emozionale che piace e piace ancora, una spinta ed una opportunità per l’ascolto a cimentarsi con “il bel canto indipendente”, virtù che la band mette in mostra senza camuffare di un millimetro la grazia in esso custodita; pacati, riflessivi, a volte incazzati, i brani si presentano uno dietro l’altro con la passione del raccontato, dello sfogato con cuore gonfio e aperto, amori e pensieri si accavallano tra riff di chitarra spasmodici “Come Pietre”, si nascondono in nenie ondulate “Freddo Fuori” fino ad esplodere nel running di pedaliere accolto nella stesura di “La Ballata Dei Panni Sporchi”, inno elettrico di verve ed ironia contro chi “sta sopra e detta leggi fasulle”.
Pop dalle mille sfumature, un piccolo spostamento d’aria che senza andare a cercare chissà quali innovazioni stilistiche, rimane dritto nel suo bel affabulare, un Pop che senza snaturare la sua attitudine con esaltazioni roboanti, si ascolta e tiene per mano l’anima specie nei sussulti pieni di echi della ballata “Segui la Notte” o nei carati senza prezzo della rivisitazione di “E se Telefonando”, il diamante del sessantasei portato al successo da Mina e scritto da Maurizio Costanzo.

È solo un buon disco e i Koinè sono solamente grandi tanto da prenderli ancora e veramente sul serio

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Over The Edge – Held Breath

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I campani Over The Edge sono una delle realtà più interessanti della scena alternative per quanto concerne il metal condiviso con l’urgenza espressiva dell’hc melodico, una proficua congiunzione di cromaticità alla Guano Apes con le ansie spiazzanti delle L7, che in questo bollente Hedl Breath rispondono con potenti suggestioni acide e distorte che chiudono il respiro.
Quattro esasperazioni soniche che hanno nella voce di Jen Blossom l’illustrazione ossessiva della poetica malinconica e super elettrificata della loro garanzia di assorbimento, un viaggio sgolato e stonerizzato che ha nella sua densissima spirale una gelida potenza che infetta di maledizioni e oscurità una tracklist al fulmicotone, una serie di percorsi minati, emotivi e subdoli; sembrano appena usciti dal di sotto di un martello pneumatico, disegnano una strada senza ritorno verso le articolazioni a cingolo di un rock che scartavetra i timpani e lacera l’epidermide, eppure la brutalità abita da altre parti, ma il sentore di un qualcosa che alberga sotto sotto destabilizza l’ascolto, lo manipola in un bellissimo stato di grazia che ti fa rimettere su il disco all’infinito, te lo fa respirare fin dentro le sue fumigazioni sulfuree.

Undici mine innescate che forgiano un’alchimia a fusione, undici tracce che rimangono in circolo anche dopo ore dal loro turbolento passaggio, ma non solo lacerazione, anche quella dolcezza stordita alla Sandra Nasic che in “A Deep Breath” fa credere che la femminilità si riporti in angolazioni congrue e passionevoli,  ma è un feroce abbaglio, un’illusione da pagare cara quando si intercettano le armi a taglio sonoro di “Full Of Emptiness”, “Restless” o “7×7 Theory”, mentre la finale e falsa civettuola verve che gira indisturbata in “I’m Searching Myself Under my Bed” graffia in una autenticità avvincente che distacca quasi tutto il resto.
Al primo ascolto questa maestà infusa di pedaliere ti mozza il fiato, poi ti ferisce con la bellezza mostruosa del suo ghigno e ti dona la certezza assoluta di avere nelle orecchie un disco che brucia…e non c’è più nulla da dire! Da avere come l’aria che si respira.

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Youth Lagoon – Wondrous Bughouse

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Uno stratificatissimo “bedroom psich-pop” si sta avvicinando ai nostri lettori con la delicatezza di un soffio alterato. Non stiamo parlando di uno stereo-invaders come ce ne sono a migliaia nello spazio aereo indipendente, ma di un bel disco impalpabile che si fa trip legale per farci toccare con mano ed orecchio un cosmo a parte, il cosmo di Youth Lagoon, aka del musicista “non allineato” Trevor Powers, un folletto geniale dell’Idaho che si aggira nel village della vecchia Frisco per abbandonarsi, creare e divulgare “Wondrous Bughouse” un profumato sensore psichedelico di dieci tracce che tra le ali di Perfume Genius e un Julian Linch prende linfa vitale e coraggio per andare avanti dopo il buon esordio di The Years Of  Hybernation del 2011.

E senza mezze parole, questo disco è una riconferma della poetica stralunata di questo giovane artista, osannato nell’America “alcaloide” e in un certo qual modo weirdness, dove avere a che fare con le nebuloidi che circumnavigano l’alternative o l’underground è un vezzo più che un vizio, e queste tracce sono la parte integrante ed in movimento di quel modo di vivere, pensare e rivivere “le parti nascoste” dei riverberi a gravità zero. Ed il risultato è un disco all’opposto degli opposti, una scaletta inafferrabile che sale e ancora sale sulle rampe e sui vapori infinitesimali sfumati all’inverosimile; sintetico e umano si avvolgono come pollini in fregola, come nelle evoluzioni celesti di “Raspberry Cane” e “Dropla”, nella melodica avvenenza che rilascia “Mute”, nel mezzo degli anni Sessanta dei voli radenti “Pelican Man” o con il barocco luminescente che brilla in “Daisyphobia”, in poche parole un groviglio ammaliante di inebrianti e libere atmosfere che prendono quota per non riscendere mai più.

Paragonabile ad un’esperienza di un sogno ad occhi aperti.

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“Diamanti Vintage” Franco Battiato – Pollution

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La spallata avvenne quando il siciliano Franco Battiato – già riconosciuto aviatore pazzoide delle sperimentazioni off e avantgard oltre il consentito – prese la decisione di alzare il tiro della sua creatività, il perno centrale di una qualitativa vena aurifera che vedeva nelle elucubrazioni messe in musica e nei “disturbi” effettati di nuovissime macchine soniche come il VC7, Mellotron, Squize ed una infinità di ammennicoli esorbitanti, la nuova frontiera della musica, il nuovo cosmo rock da interpretare, e senza  lasciarsi suggerire nulla il capelluto catanese dette anima e fiato al nuovo capolavoro “Pollution” che darà razza al suo predecessore, quel Fetus algebrico e smagliante che aveva già ammaliato, stordito e diviso gran parte della platea alternativa degli anni Settanta.

Una stupenda commistione metafisica di rock, delirio, classica, campionature, sangue e fegato, e tutta la psichedelica che si può raccogliere da letture di miti e gloriose evoluzioni che riempiono tutto un immaginario, ancora un tutto di eleganti retrogusti e azzardi riusciti che Battiato giostra e impiastra con un modus operandi mai sentito – se non in certe stralunate gassosità Floydiane – , un sensazionalismo alterato alla pari di un viaggio sotto peyote; il misticismo impera, la convulsione ed il pathos sbranano l’ascolto e la dolcezza taglia a meraviglia, ma è anche la consapevole “rottura” con una certa visione della musica che si acclamata e dove  da li a poco più in la il progressive di stampo italiano prenderà il suo volo personale, la sua apertura alare si amplierà fino alla fine della decade.

Sette episodi passati alla storia della storia, il walzer di Strauss spaccato a metà dal rumore esplosivo di un tuono lacerante ed il rock che spunta aggressivo da dietro l’epilettismo di una eco riverberata e di organo prog “Il Silenzio Del Rumore”, “31 Dicembre 1999 – Ore 9”, il mantra di “Areknames”, il potere di un Mellotron pomposo in “Beta”; un disco disegnato alla perfezione, un trip culturale diabolico che il musicista siculo rilascia come un testamento ai posteri, al centro di una epoca che fa vittime ed eroi in una violenza inaudita “Plancton” e poi ancora quel walzer di Strauss che ritorna, inesausto con la conseguente esplosione d’effetto, quel senso puro, nudo e di svuotamento che in due scenari non contrapposti, la titletrack e “ Ti Sei Mai Chiesto Quale Funzione Hai?”, chiude un lavoro discografico, un grande capitolo di ieri che ancora oggi insegna e fa sognare, magari da ascoltare più di una volta, ma che una volta “agganciato nella mente” vi alzerà di due metri da terra. Garantito!
http://www.youtube.com/watch?v=kOunIHp31Jc

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Depeche Mode – Delta Machine

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Delta Machine”, tredicesimo appuntamento sonoro degli inglesi Depeche Mode, non è come gli altri della prosopopeica della formazione capitanata da  David Gahan, ma si allontana dai contenuti seminali della loro storia per abbracciare un blues elettronico mantenendone sempre quelle tonalità scure e di pece, travalicando i territori della loro istintività, ratificando una vena fosca e ossessiva che è – o pare – parimenti attitudine o specchio dei tempi; Gahan, Gore e Fletch con l’avvicinarsi al blues non come sperimentazione ma come nuovo pads da colonizzare, si introducono in una differenza sostanziale che nelle ballad murder e nei suoni profondi, condensati, ritirano fuori quella nozione geografica sonora che ridona respiro e vitalità alle loro genesi per ritornare quei cavalli di razza a rimordere il freno delle grandi e buone cose.

Con i precedenti Playing The Angel e Sounds Of The Universe già si aveva in tasca l’incorruttibilità di una band che col passare degli anni dava ancora gioielli neri, ma ora con questo nuovo lavoro la colorazione si tramuta in un rosso rubino maledetto, una proclamazione di bellezza che tra beat, sintetizzatori, bave sliddate e quel trascinamento lussurioso black come la notte, vive una seconda, terza e quarta vita, bellezza tutta miscelata nella “figurazione e nell’estetica”; con la produzione di Ben Hiller, Delta Machine è una vera macchina sonora, entusiasmi sfumati e una innegabile perizia strumentale, una dimensione in cui i singoloni “Angel” e”Heaven”, il Mississippi che score venoso tra le parole di “Slow”, la dance robotica che graffia il marchio sacrosanto DM “Soft Touch/Raw nerve”, la foschia vasta che annebbia “Alone” o la memoria incancellabile di una Personal Jesus che pare resuscitare dall’hook radiofonico “Goodbye”, sono l’alchimia superiore di una profonda svolta che premia questo disco tra le migliori cose uscite in questi primi mesi del 2013, e non è una esagerazione!

I Depeche Mode non tradiscono mai, hanno nel sangue – oltre che la maledizione del bello – anche tutte le sfumature del nero infinito che altri non hanno e non avranno mai.
http://youtu.be/bxi5MlJFyvE

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Loveless Whizzkid – We Were Only Trying To Sleep

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Eccellente esordio per i catanesi Loveless Whizzkind, bel frastuono ed intimidatorio indie-rock in nove tracce “We were only trying to sleep” che suggerisce essenze elettriche diafane, a tratti spalmato da psichedeliche Beckiane “Jassie’s Disappeared”, “Cousin Lizard” con i Pavement come portafortuna e il broncio scazzato di una certa wave, un piccolo brivido lungo la schiena che si conficca nella spina dorsale a mò di spillo alternative.

Un lavoro che vive tutto sulla spontaneità dell’ispirazione dei tre musicisti coinvolti, la glabra e nuda bellezza di melodie storte e di suggestione che, al di fuori di una spigolosità espressiva, sanno modulare una estetica slegata da tante “strizzatine d’occhio”, una fulminante e corrosiva list che fa battere le mani per tanta baldanza fresca e stilosissima; se vogliamo usare parole che più vanno a catturare l’immaginazione di questa band potremmo dire “una grezza e devastante maturità sonante” che solo in un esordio brucia tutto, è già grande e pronta per palchi d’ascolto allargati e per creare una personale linea guida nell’affollatissimo circuito indipendente italiano. E non si può non essere sottoposti brillantemente alla compiutezza di questi brani, scorrevoli e diretti che non disattendono nemmeno la più audace espansione in certi ambiti brit “Lovely Ball Of Snot” come nelle slabbrate sensazioni garage di “Hail To The “Lil” Gorilla”, praticamente tutto il minimo indispensabile per un ascolto a tutto gas e con l’argento vivo sotto i piedi.

Cinquanta minuti di vero talento che, spalleggiati da chitarre multiformi, un cantato densamente “out” e dal rombo di motori rigeneranti dell’irriducibilità indigena al 100% “Blue Butted Baboons”, costituiscono una piccola opera imponente per qualità e quantità, e se poi ci mettiamo dentro la “pazzia” incontrollata di “The Golden Cockroach’s Pinball Song”, la matrice sonica che questo trio vuole imprimere a pelle è inestimabile come un tattoo di un vecchio amore onnipresente.

L’ascolto di questo debutto è una dichiarazione all’estro armonico della sconnessione, una squisita naturalezza che è già realtà fondamentale se si vuole ancora considerare persuasiva la scena “trasversale” cosiddetta indie di testa e dal corpo dinamico.

Strafico!

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Wonder Vincent – The amazing story of Roller Kostner

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Atto primo per gli umbri Wonder Vincent, The Amazing Story Of Roller Kostner, musica hot per orecchie “americanizzate” a tutta dritta,  ottimo rock’n’roll dentato di blues, funk e solletichi slabbrati di rockabilly punky e stoner che fanno tempi gloriosi lungo la tracklist, sul dorso di otto tracce impazzite, un disco che cucina a fuoco vertiginoso un ascolto pieno e mai allineato come le pieghe di lunghe notti su ballrooms alla corte di vizi inconfessabili.

Tutto gira intorno alla figura allucinata di un Roller Kostner, eroe ed antieroe di tutto ma che da modo e moto proprio a questa formazione di trattare una creatività sonica non indifferente, aggiungeteci un pizzico di volume alle stelle e tutta la sfrenata disinibizione dei debutti che fanno subito centro, e sarete protagonisti assoluti di una sensazione da mainstream, a confine tra un’opera laida di rock a sangue e una benedizione densa di immaginazioni e strade sterrate da cavalcare con l’anima e cuore; otto ingranaggi sonici da frontiera voraci di libertà in grado di far dialogare gli strumenti con i suoi raid stilistici, e non è un semplice contentino per amanti o aficionados di settore, è un carboidratico sound generale che mette soggezione per la parte tecnica e spacca il plesso solare per la forza meravigliosa che percuote ogni millimetro della list.

Andrea Tocci alla voce, Luca Luciani guitars/harp, Marco Zitoli bass/voce e Andrea Spigarelli batteria e percussioni, gestiscono una pressione musicale d’alto bordo, circola nelle venosità do ogni singolo componente il sangue dolce-amaro del rosso yankee, imprevedibile e corale, masticano  e sbavano chitarrismi imperanti, urlano e addolciscono melodie e anthems come dentro immaginette sacrificali in equilibrio tra deserto e Delta, una sequenza di brani di grinta e ficaggine assoluta; irresistibilmente  adorabili gli ondulamenti wah wah –funky “Funk’o’Saur”, feroce l’epilettismo sliddato alla Alvin Lee “My Little Bunny”,  sfiziosa la spennata slogata che si traveste da garage “Piss & love”  ed il Dylan virtuale che da continuità ad un country baldanzoso e da hi hip urrà “Venus in Darfur”.

E’ solo un inizio questo dei Wonder Vincent, un quartetto che fa grandi numeri ed è già un preciso indicatore di quello che verrà. Consigliatissimo!!

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Il Parto Delle Nuvole Pesanti – Che Aria Tira

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Quello che tira fuori certamente non è buona aria, ma quella che gira nel nuovo disco del Parto delle Nuvole Pesanti è una ventata di speranza e di nuove sonorità, un nuovo lavoro che la band calabro/emiliana licenzia dopo una infinità di successi, tra i tanti la nomination al David di Donatello con Onda Calabra (colonna sonora del film Qualunquemente di Albanese), e che porta senz’altro ad un ascolto fresco e sostanzialmente “anti”, proprio come ci vuole in queste quotidianità.

Una profonda occhiata musicale sui tempi che si corrono, la crisi, l’instabilità, le arroganze e il marasma delle malefatte che si attaccano alla propria pelle, in poche parole tutte le ossessioni che si respirano come fumi venefici, e loro, se la cantano e gliela suonano in maniera esemplare, con quella riconoscibilissima sponda etno-folk del loro istinto, ma questa volta sfondando anche in territori rock, elettronici ed acustici, proprio come un’onda che deborda oltre la battigia; dieci brani che loro definiscono “Musica Sociale”, un insieme di “sceneggiature” sonore che colpiscono in pieno la mira che si vuole colpire, ritornelli e testi laceranti che caricano e vanno a muovere i nervi tesi della poesia e della rabbia intrisa insieme. Ed è una realizzazione discografica che non annulla le aspettative degli ascolti, un continuo dialogo con la forza dolce della lotta sociale.

Oltre agli storici Mimmo Crudo, Salvatore De Siena, Amerigo Sirianni e la collaborazione preziosa di Manuel Franco e Antonio Rimedio, c’è un parterre di ospiti rilevanti come Fabrizio Moro, Carlo Lucarelli, la vocalist turca Canceli Basak e il Coro Mikrokosmos Multietnico di Bologna diretto dal Maestro Michele Napolitano, dunque già uno spettacolo a sé, tutti gioielli che vanno ad incastonarsi in una tracklist di quelle che spaccano e fanno circolare il sangue come in un  circuito d’Indianapolis; un abbraccio accusante dal Sud che tesse e prende il largo con “La Nave dei Veleni” tratta dal libro di Lucarelli Navi a Perdere, poi il macramè di mandolino contro l’ecomafia “Crotone”, la stupenda ballata di “Vita Detenuta” sui suicidi in galera o lo scatto sanguigno di “Alì Ochali”, la verve antagonista al potere dei poteri “La Poltrona” o quella bellissima “Qualcuno Mi Ha Detto” tratta da una poesia del grande Nazim Hikmet, tutta alta poesia contro con tanti altri riferimenti all’ingiusto mondo di oggi, da Monti, Balotelli, pedofilia, razzismo ecc ecc, e che fanno un disco di genealogia non allineata.

Il Parto delle Nuvole Pesanti amano remare controcorrente, e lo fanno talmente bene e con dovizia, che chissà perché (ma lo sappiamo bene) ad ogni giro di stereo lo stimolo di spaccare il culo a tanti e a tutto è forte e primario. E’ la forza della ragione degli ultimi.

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“Diamanti Vintage” Stone Roses – Stone Roses

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Un bel disco di transizione questo primo omonimo degli inglesi Stone Roses, una vitalità che prende spunti interessanti dalla scena della Manchester che lascia – negli anni Ottanta – le pazzie autodistruttive della wave per imbarcarsi nel jangle pop di marca Echo And The Bunnymen, Primal Sceam cosi da fare in modo che una nuova moda musicale si imponga sia in Terra d’Albione come nel resto d’Europa. E quindi disco di speranza e scuola per band a venire come Blur, Oasis, Verve, antesignano nel frequentare un proto-brit che darà in futuro moltissime soddisfazioni modaiole.

Non il, classico gioco a rimando anche se si sentono nel sottofondo – le cariche ispiranti di Northside e The Charlatans  – ma una nuova spinta che Ian Brown e John Squire, insieme a Gary “Mani” Mounfield e Alan “Reni” Wren, imprimono, oltre che nell’aria,  nelle loro liriche, nuove forze delicate che allargano i colori del pop e fanno ritirare in un certo qual modo le freddure nere e torbide monopolistiche della wave più ortodossa, più intransigente che fino a poco prima si addensavano ovunque. Undici brani in scaletta che possono sembrare sbarazzini o leggeri, invece suoni di rinascita ed estremamente caldi, una tracklist che tra basi ritmiche efficaci, chitarre educate e non imperanti e una voce molto “californiana dei bei tempi Summer”,  fa un disco immediato e ricanticchiabile in ogni suo lato, regno di controcanti e melodie d’atmosfera nonché d’apertura ad una nuova svolta che però – per questa band – non continuerà a lungo e che poco più in la si inoltrerà nel pressapochismo sonoro e di memoria.

Tutto è dolciastro e che fa compagnia, brani da spiaggia, l’allora specchio dei tempi che non avevano bisogno di prosceni per affermarsi o interpretare caratteri mascherati per farsi ascoltare, le ricchezze ritmiche “She Bangs The Drums”, “Mad Of Stone”, le tenute corali “Waterfall”, la chicca nostalgica “Elizabeth My Dear” ed il beat frizzante e Radio Thing di “I Am The Resurrection” sono tra i brani che rimangono sospesi nella storia Stone Roses, il raggio di sole che – con rischio zero – si affacciava su molteplici chiavi di lettura pop.
http://youtu.be/E4d2syk0SZ4

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Il Fratello – Il Fratello

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Tutto nasce da un viaggio negli States da parte di Andrea Romano, già Albanopower ed una infinità di altri progetti sonanti, un viaggio in California per girare una clip e dove una amica, Livia Rao, gli mostra una foto – quella che è poi nella copertina – e da li parte questo progetto, questo disco “Il Fratello”, otto tracce di cantautorato fine, bisbigliato, tenero e malinconico, in cui intervengono una miriade di collaboratori tra i quali nomi conosciuti nell’ambiente come Carlo Barbagallo, Mauro Ermanno Giovanardi, Colapesce e Cesare Basile, un progetto corale nel quale l’ascolto si immerge e vive un’apnea melodica e atmosferica non indifferente, leggera come la piuma di Forrest Gump.

Disco in punta di piedi e con un prorompente “recupero” emozionale che trascina dolcemente tutto, l’ascolto, i battiti e le solvenze tenui di una lunga notte, e che gira e gira all’infinito tra anima e cuore fino a restituire all’orecchio le melanconie elaborate lasciate a macerare nella grazia; nell’eterna ciclicità della musica tutto va e tutto viene, poesia, pathos, fato ed essenziale si gestiscono le partiture della magnificenza con poche cose, frasi, dettagli, e questo lavoro impalpabile ne è la cartina tornasole, una magnetismo tremulo che si fa suono e poesia all’istante. Dicevamo un lavoro corale, condiviso da strumentisti che hanno fatto parte delle esperienze musicali di Romano, una scaletta che conquista per l’ispirazione docile di cui è composta, tra i tanti brani il dondolio agro di un pensiero interrogativo “Cos’ha Che Il Mio Mondo Non Ha” con Colapesce, il macramè acustico da brivido che abbellisce “E’ Vero Che Per Te” che vede un Cesare Basile da incanto alla chitarra o il “bailamme metafisico” di “Nei Ricordi Di Mio Padre (demo 2004)” traccia finale con Mauro Ermanno Giovanardi a tirarne fuori la voce.

Ma non solo piccoli brividi, pure stimolazioni anni sessanta, flebili come fili d’erba “Per Chi Ne Avrà” come ricordi stoppati tra le corde di una chitarra e pulviscoli di ieri, retroguardie fumè “Tra i Lacrimogeni” che,  con accordi aperti fanno di questo ascolto una esperienza estetica senza prezzo, divinamente senza prezzo.

Al diavolo le mode, qui c’è tutto l’occorrente per svanire nel bello senza tempo.

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