Max Sannella Tag Archive

Ben Harper – Get Up!

Written by Recensioni

Dopo album da brividi, album senza piega e concretezza, il mito di Ben Harper torna a splendere nell’assoluto, torna a confabulare mistiche indiavolate e anime vendute ai tanti Balzebù che infestano da secoli (forse da sempre) le acque e le lagune del Mississippi, e lo fa con un compagno sensazionale, il sessantacinquenne armonicista Charlie Musselwhite, dio del blues bianco e dell’armonica sbavata al massimo, tanto che “Get Up!”  – questo lo strepitoso album- già scala tutte le charts possibili dentro e fuori quell’America dei folli compromessi.

Dieci tracce immacolate di traditional, blues, rock-blues e soul degli avi che si perpetuano in un giro formidabile di lussuria sonora e oasi di spettacolarità, un Harper al meglio di sé ed un Musselwhite che non si risparmia a coronare ed impreziosire ogni singola nota, bridge o quant’altro, una tracklist di gran culto, un attimo professionale che – onestamente – da un Ben Harper non si sentiva da tempo, e quanto è dato sentire lo spirito si è “rialzato a testa alta” e con lui tutto il pandemonio divino della grande musica del Delta e dintorni; la mitica Weissenborn che l’artista americano strapazza a suo piacimento, strugge, gioisce, copula ed eiacula suoni, stridori, melodie e tutto quanto possa far incantare qualsiasi ascolto, un disco fortissimo che ti strappa i capelli e ti imbarca nei suoi infiniti viatici come e quando vuole.

Licenziato per l’ancor più mitica Stax, l’album è senza dubbio il migliore della discografia Harperiana, il più vivo e crudo tra le emozioni che ci ha da sempre regalato, e questa bell’accoppiata artistica premia il sound del Southern Spirit al meglio che si possa premiare; disco a due livelli, la parte dei cardiopalma sonori “Blood Side Out”o “Don’t Believe a Word You Say”, e quella passionale da genuflessione  – tra le tante – “You Found Another Lover”, “Don’t Look Twice” o “All That Matters Now”, parti che una volta unite e strette al massimo della loro ricerca d’anima esplodono per regalarvi un delle cose più belle uscite  in questa prima tranche d’anno.

Fatevi attraversare tranquillamente l’anima, ne vale la pena davvero.

Read More

David Bowie – The Next Day

Written by Recensioni

Dopo dieci anni, il Duca Bianco è tornato a farsi sentire con un disco nostalgico e dolente, “The next day”, quattordici tracce che rompono un silenzio – molti indicano per scarsa creatività – in cui sono sorte idee, malelingue e istintività represse circa una fine non annunciata dell’arte di Bowie, col senno di poi degli ultimi flop discografici; invece è qui con i suoi occhi glaciali e  sessantasei anni sulle spalle a togliere dubbi e a rimettere in circolo la sua stupenda immagine deluxe in continua trasformazione.

Ma se la fisicità oramai risente di lente demolizioni, la musica e l’alchimia affatto, certo un disco che stringe immagini e proiezioni di un uomo artista che comincia a fare i conti con sé stesso, con le sue debolezze, fragilità, tanto che la tracklist ci riporta indietro, in quella Berlino del 1997 in cui l’artista ridava fuoco alle vampe electro del suo rinascere, di quell’essere eroe anche per un solo giorno ma intero e compiaciuto “Where are we now?”. Quindi un Bowie preoccupato per il futuro e per il presente, preferisce voltarsi indietro e lo fa con tonalità sobrie, eleganti, minimali, con una poesia che pare odiare gli spazi aperti preferendo rifugiarsi negli anfratti dell’anima, e se questo potrebbe sembrare una specie di annullamento o smarrimento interiore, ebbene si, lo è fino in fondo e bestialmente bello.

Prodotto dal fido Tony Visconti, The Nex Day è un riscrivere il passato interiore ed artistico, ed è pure un ritirare fuori con garbo certe magnetizzazioni che strappano ovazioni interiori quando “ripassano” la memoria i lustrini e gli strass argentei di Ziggy “Valentine’s Day”,  le ombre notturne di “Love is Lost”, la lisergia”Seventies” che trema nella titletrack o il lipstik che ancora emana fluorescenze glammy tra le bracciate divistiche di “How Does The Grass Grow?”; si,  tutto prende la cornice ed il suo immancabile passe partout di un impressionismo vivo, di un eroismo oltre il tempo che Il Duca Bianco non se la sente più di nascondere,  e ce lo manda a dire con una opera d’arte. un disco stupendo, di “rinascimento” delicato, tutto sommato, come una candida tela di ragno.

E’ vero, i Grandi non tradiscono mai.
http://youtu.be/md5zxN20-2s

Read More

Il Sindaco – S/t

Written by Recensioni

Il vocalist degli Annie Hall, Fabio Dondelli si fa eroe solitario, scende dal batuffolo del gruppo per dar forma alla sua scrittura personale, interpreta se stesso e si fa chiamare Il Sindaco, reinventando eleganza e fiocchi di intimità calda come pochi sanno fare, una nuova creatura cantautorale che danza, concupisce, ammalia e da un senso estetico a dieci canzoni sospese, da fine artigianato della musica.Un disco che non porta nome, anonimo come un marcato qualunque, un insieme di canzoni che fanno metafora di gruppo nella circonferenza di un pop d’autore  leggiadro, insaporito di fragranze e spezie quasi familiari, casalinghe, una scrittura che si accovaccia nell’orecchio e fa quasi le fusa  a chi l’ ascolta trasformata in suono e poesia; un piccolo manifesto di brani dalle tinte lunari, a tratti uggiose a tratti in tralice, tracce con l’andatura di chi pensa fitto e di chi guarda in alto per cercare risposte alle sue domande, e che tra ricordi e domani interrogativi vive il presente con la sagacia delicata della serenità possibile.Accompagnato da un quartetto di musicisti di prim’ordine della scena underground, Il Sindaco “stabilisce e delibera” le sue linee estatiche e languide che corrispondono ad un gusto e ad una modalità sonora piacevolissima, un qualcosa che si affiata e consolida in emozioni “da porta accanto”, senza spocchia, senza volontà di spaccare, un sincero pathos raccounteur  quasi disarmante che gira nell’aria al pari di una osservazione disincantata; leggo “canzoni autentiche scritte per la figlia che nasce” e tutto allora è ancor più bello, il plus-valore che avanza nei sentori anni Sessanta della ballata da “rotonda” “La vigilia di Santa Lucia”, va a ficcarsi nelle tramature pop ondulanti “Cose di Casa” o nei fraseggi soffusi “L’Abitudine”.

E poi ci sono loro,  le “provocazioni” urban-folk di “La Canzone Del Sindaco” e il pianoforte melanconico che accompagna “Adieu”, tratteggi che arrivano laddove la qualità ha la meglio sulla quantità, tratteggi eliocentrici “Italian Tour” che portano questo Sindaco allo scranno delle buone probabilità che la sua “legislazione poetica” duri l’infinità di più mandati. Al bando i panegirici, approvato con piacere!

Read More

Airportman – Modern Modern Modern

Written by Recensioni

Parole e musica, concetti e polvere di palcoscenico, visioni e rimorso, bellezza e decadenza degli imprevisti; e l’aeroporto preso a dimensione di un non luogo dove tutto avviene e niente si coagula, un tentativo di esplorare una umanità che va e viene ma che non si fissa nel dentro di una vita che, tra pezzi, snodi e fratture, non trova mai il suo punto fermo, la sua postazione eretta.
Stupendo progetto questo messo in piedi dai cuneesi Airportman, qui anche con la forza magica di Giacomo Oro e Stefano Giaccone (fondatore dei mitici Franti ed ex Kina), una alchimia da vedere oltre che ascoltare (bellissimo il dvd incluso nel packaging) e che trasforma l’ascolto in un qualcosa di irraggiungibile se non attraverso la fusione mentale con l’ipnotismo delle parole che circolano profonde come trivelle indolori, un circuito espressivo multimediale che custodisce segreti e verità. “Modern Modern Modern” è un delirio vigile che migra e trasmigra dentro una personalità inafferrabile, suoni e circuizioni benevoli, un andirivieni di lampi e flash in cui sensorialità Ferrettiane “No Future”, l’agro pensiero che si fa strano dub psicologico “Il Taccuino” o la magnificenza mex-mantrica che la rotondità fissa di “Acqua di Luna” incanta spudoratamente,  aprono – se non addirittura imbevono – ogni millimetro di incertezza di chi sta al di qua dei woofer stereo.
Una forma cantautorale di pregio, alla larga da certi commercialismi  e aderente ad una scena sognante nel senso di scandaglio, note e frasi che vivono nel pathos buio di una notte immacolata, che odia rischiararsi a soli malati, una estetica dai toni pesti e chiari, il pianoforte che sottolinea “L’Uomo Sul Balcone di Beckett” o i landscapes di arrendevolezza che “Una Lettera Per Te” spande come nebbia sono le cifre stilistiche che la formazione musico-teatrale piemontese offre come quando si incardina l’idea greca del “fato”, l’apoteosi della poesia “off” che incombe e fa intravedere nitidamente un’ottica artistica che lascia la dolcezza dell’amaro in gola e la bellezza integra di chi l’arte la sa anche partorire, all’infuori della mera “pratica”.

Cento e lode!

Read More

Giuliano Clerico – La Diva Del Cinemino

Written by Recensioni

Il cantautore pescarese Giuliano Clerico, prova a dettare le regole del proprio gioco sonoro, e il risultato è piacevolissimo, romanticamente storto, cromatico e urbano, il prodotto si chiama La Diva Del Cinemino, terza prova discografica per un teller-maker di rispetto, un’equazione di dieci tracce che sono spirito fresco per anima e mente, un eccellente “cantato e suonato” col gusto del particolare, blues, rock, calligrafia dolce/graffio e storie on the road, nonché struttura di suoni che ogni volta che vengono rimessi in circolazione, riaprono il senso acuto anche di una certa rimodulazione folk.
Disco appariscente e amarognolo di fondo e che emana musica che non annoia, anzi sorprende – nella sua semplicità caratteriale – nell’inserirsi tra centinaia di arrivi indie e quant’altro, elettrico, riflettente e pensieroso regala una fantastica economia d’ascolto tra refoli di Rino Gaetano, Dente, MuschitielloZona industriale e ondate di anni Sessanta esaltati da stupendi  “sbavoni” di schitarrate e organi con Lesli che innalzano le quotazioni  della tracklist a picchi astronomici; dicevamo dieci tracce a denominatore disparato, brani che offrono storie da ascoltare in momenti in cui il bisogno di una complice dolcezza è forte, e questo artista sembra fatto apposta per lenire e intaccare la carica di emotività a seconda della sua percezione del momento.
Il classico registrato dove non si butta via nulla, tutto è  decisamente figo e “da viaggio”, la ballatona da ronzino “Alla Bonnie e Clyde”, la spennata beatnik “La Strada”, “Il Prodotto”, l’ironia di una non erezione in salsa folk-western “La Valeriana”, o il Tarantiniano mex-mood che si insinua nella bella “Via Col Diavolo”, un impatto attualissimo che cesella pagine di un cantautorato inaspettato quanto valido.

Il talento di Clerico si riconferma, ed il suo essere nell’oggi con i sintomi creativi dello ieri lo premia sopra ogni aspetto, sotto ogni forma.

Read More

La Musa – Italiano

Written by Recensioni

Nell’arena megagalattica dell’underground in cui arrivano, stazionano e partono migliaia di nuove formazioni musicali, c’è chi riesce, chi scompare e chi addirittura muore senza mai conoscere una via d’uscita, e quando capita di trovarne una che pare dire qualcosa, un singolo talento isolato appare come un’onda travolgente.

Dalla Puglia il passo inquieto dei La Musa, quartetto che spinge forte sulle pedaliere come sulle parole/denuncia che caratterizzano la loro poesia amplificata e Italiano è l’ufficialità sonora con cui si presentano al pubblico largo e, senza troppi panegirici, è una presentazione di tutto rispetto, l’impeto dell’hard rock emulsionato con spruzzi pop riesce a dare una forte soluzione continuativa all’ascolto mentre una fresca energia elettrica riporta a certi anni novanta tricolori, specialmodo a certi Malfunk di primigenia e taluni Settore Out dispersi con l’avvento di nuove esigenze; le sette tracce della tracklist si concedono senza mai sbracarsi, scorrono di loro e lasciano dietro una scia, una sonorità tecnicamente carica e metodica, merce rara di questi tempi.
Dicevamo scariche hard di base e melodia pop che si incontrano trasformandosi in hook radiofonici trascinanti come la titletrack, “Lei”, gli ariosi open chord che lievitano la stupenda “Aria” o le distorsioni shuffle che fanno tremare la conclusiva “Lacrime dal mondo”, il resto e forza d’insieme, una buona capacità di iniettare scintille e regalare momenti veri di musica.

Se è vero che il rock ama e adula l’imperfezione grezza del suo verbo, i La Musa si completano già alla loro prima turnazione.

http://www.youtube.com/watch?v=ZHBpHh_-3yE

Read More

Libera Velo – Rizoma contro Albero

Written by Recensioni

Talento atipico quello dell’artista campana Libera Velo, un equilibrio frizzante ed una formula sospesa che torna dopo tre anni di assenza dalle scene con un bellissimo album “Rizoma contro Albero” e già dalla copertina è un preludio all’imbattersi in uno dei dischi più intelligenti dell’ultimo cantautorato in circolazione.
Disco da salopette, ed è proprio così, una tracklist intrisa di frizzante e giochi sonici diretti da una voce limpida ed inusuale, un argentino tecnicamente fonogenico che si rotola nelle preziosità blues, cantautorali folkly e tutto il pindarismo di una artista che profuma di classe e che si concede al pop con la giusta misura che hanno gli sprazzi, i cambi di passo veloci e le folate di vento tranquillo; con un accostamento virtuale alla Ani DiFranco per via della spigliatezza esecutiva “Puca”, “Memo bizzarra”,  Libera è una artista che vive dentro e fuori dal tempo, spazia equilibrismi e atmosfere che modulano e mettono in agio assoluto l’ascolto, sia quello legato alle parole, come quello della tessitura sonora, un compendio generale di goduria e profondità che solo i piccoli gioielli posseggono.
Già da tempo – ma qui confermata – l’idea di avere a che fare con una nuova eroina della scena cantautorale “femmina” si è concretizzata, la quadratura del cerchio si è chiusa aprendo una splendida “alatura” che piroetta, si posa, svincola e torna a posarsi con un fare poetico libero e anarcoide di suo; disco anche di grandi collaborazioni, partecipano membri dei 99 Posse, Foja, 24 Grana, Slivovitz e Gnut, e un tornare in pista alla melodia fluttuante, alla caratterizzazione limpida di chi sa essere figlia naturale della grazia. Plateali gli odori di limo e alligatori del Mississippi “Jimmy’s Blues”, “Il Punctum”, l’intimità riflessiva “Questo mio essere brillante”, il battito field che scorrazza in “Mi piace il suo vestito” fino a chiudersi nel mood jazzly che “Zenzero” sigla e da “essenza” coccolona a questo ottimo registrato.
E si, Libera Velo torna a ripopolare le formule e le alchimie di un cantautorato che raschia il barile, e lo fa con una produzione che cattura perdutamente, che ti fa perdere momentaneamente la noia di ascolti vuoti con le sue vibranti “innocenti” fantasie vissute. Welcome!

Read More

“Diamanti Vintage” 24 Grana – Loop

Written by Articoli

La Napoli delle grandi sorprese, serbatoio inesauribile di vecchie e nuovissime esigenze espressive, in questo caso un pezzo della Bristol muffin e caliginosa che viene fuori dai vicoli partenopei che aprono gli occhi su se stessi e su nuove direttrici soniche; i 24 Grana sono una delle più straordinarie nuove proposte underground che questa città geniale conia tra umori rarefatti, denuncia, ritmi trasognanti e tutta quella psichedelica urbana, anni novanta in cerca di altro e che trovano in questa formazione una certa risposta alle nuove ondate che arrivano dall’Inghilterra e da altre prospettive.
Loop”, l’album d’esordio, è lo sfogo libero di una quartetto che ama la posse e il dub, vive al centro focale di un fermento culturale – quello degli anni novanta – ed innesta nella sua musica istinti tribali e sonorità Giamaicane, un frullato lento ed inesorabile che ipnotizza e suggestiona al pari di un giro mantrico che se ne frega della staticità; Francesco Di Bella chitarra e voce, Renato Minale batteria, Armando Cotugno basso e Giuseppe Fontanella chitarra, mettono in circolo un suono a spirale, tradizione e sperimentazione viaggiano fondendosi e vanno ad implementare una sonorizzazione “drogata”, una moltitudine di “stati galleggianti” decisamente mirabolanti, genuini nella loro carica psicotropa ad oltranza. Cantato in napoletano, l’album è un piccolo capolavoro di nervi, tensioni e dolcezze fumiganti, un’elettronica che infilza emozioni ed un crescente pathos che spinge chiunque a dondolare il proprio corpo con esso.
Un movimento continuo, il reggae saltallimpo “Introdub”, le sintomatologie indo-balcaniche “Pixel”, le nebbie stratificate “Patrie galera” e le scandagliate in levare che portano “Lu cardillo” a chiudere l’ascolto dell’album, ma poi ti ricordi della magia a cerchio della titletrack e ricominci daccapo questo gioco inviolabile dei 24 Grana rimanendoci sotto, impossibilitato a riprenderti da li a poco.
Capolavoro  oltre le usure del tempo

Read More

PornoVarsavia – [O]

Written by Recensioni

Di traverso o negli angoli meglio celati dell’underground patriottico, i novaresi PornoVarsavia  meritano un posto di eccellenza alla voce ”AmplificatIndomitIndie”, perché attraverso il complesso groviglio di ispirazioni elettriche di cui si dotano, tracimano esplosioni e dilatazioni psicotiche che nel loro – per il momento – piccolo around fanno avvertire gli spostamenti d’aria di chi è oggetto destinato a piccolo culto per iniziati.
Con Cristiano Santini (Disciplinatha) alla produzione, [O], questo il monogramma del disco, è un intenso pathos rabbuiato in dieci tracce che drizzano il pelo, catturano e movimentano una scena uditiva che va dall’indie venato di wave “Bla bla NYC”, “Luz Mala”  al rock con inflessioni grunge “Odilia”, “Fango e polvere” senza schifarsi per nulla di colorare qua e la citazioni psichedeliche “Il fronte è lontano” ma giusto un accenno per restare sopra ogni sospetto; il quintetto si carica liricamente di un social-poetry che penetra molto nell’ascolto, un’espressione che apre veemenza e criticità, lasciandosi accostare nella sua imprevedibilità, nella sua stesura elettrica con volontà e attenzione.
Non mancano percorsi da sviluppare ulteriormente, da “raddrizzare” dalle loro pendenze anonime e fuori riga come l’indigenza strutturale che caratterizza la pretenziosità Ferrettiana di “Sei gradi di libertà” o il barocchismo prog epico che annienta “Il giorno che fugge”, ma sono solo piccoli nei che nella trama generale del disco passano via senza demonizzare, poi al passaggio della spiritualità Disciplinathesca che rimbomba in “Carogiulio” il valore di questi pezzi è messo al sicuro ed il senso “tirato” del pathos generale altrettanto. I PornoVarsavia devono ancora mettere a nudo quel 5% che gli rimane per mostrarsi in tutta la loro opalescenza grigia, per tutto il resto già una formazione spigolosa e cerebrale pronta per arrancare qualche gradino più in su dei gironi calienti dell’underground.

Read More

New Order – Lost Sirens

Written by Recensioni

Pur  nell’evidenza clamorosa di molteplici riferimenti caratteriali, nell’indolenza nevrotico/lunatica che li ha sempre contraddistinti, i “nuovi” New Order di “Lost Sirens”, al di fuori delle contorte code giudiziarie, rimangono sempre sulla linea della sicurezza, ripercorrendo quasi per intero le gittate sonore di ieri, magari con un po’ meno di sgambettamenti dancers, ma da quel versante non ci si muove.
Il casinista e adorabile bassista  Hooky se ne è andato sbattendo le porte ma in questo Ep comprensivo di otto brani per un circa quaranta minuti di musica nebbiosa, Ottantiana con tutti i crismi, il suo basso risuona e fa tonfo ancora in maniera impareggiabile, con intatta la fascinazione wave che ha segnato una generazione al completo; tracce estrapolate da sessioni discografiche del 2005, tirate fuori da quel bel “Waiting for the sirens” messo a congelare per vicissitudini e relazioni increspate e che solo ora vengono messe all’aria per la goduria di massa. Dunque una band riformulata nel fisico ma identica nella memoria, un sound totale che ritrova l’equilibrio e l’ostinazione intatta per piacere ancora.
Alcune tracce già sono note, rivisitate con noise “Hellbent”, con l’impronta noir dei Velvet Underground “I Told You So”, un ottimo sculettamento dance “Sugarcane” e qualche lascivia sdolcinata che tra “Californian Glass” e “Recoil” stende una bava amara di nostalgia appassionata, e le atmosfere di contorno? Tecnicismi soffici di elettronica e belle fiammate di chitarra (spesso anche computerizzata) che già sono patrimonio insostituibile per memorabili bridge radio-friendly.
E la storia va, prosegue il suo viatico sommersa da distorsori  e foto ingiallite di Joy Division verso un futuro al contrario.

Read More

Local Natives – Hummingbird

Written by Recensioni

Mentre in altri ambienti musicali marcati indie è iniziato un evitabile declino asfaltato da chili di produzioni apatiche e vuote, dischi come questo “Hummingbird” dei Losangelesini Local Natives paiono – in controtendenza –  lievitare in una fragranza ottimale senza risentire minimamente fiacche e condizioni castranti, una quasi “sempre evoluzione” che comunque si capisce e capta senza usare tante vocali o aggettivi.
Arrivati al secondo giro discografico il quartetto capitanato da Kelcey Ayer recupera buon terreno e – nonostante il debutto con Gorilla Manor del 2009 faccia ancora  stragi di consensi in tutto il globo – questo nuovo registrato appare come un fiatone sul collo di quest’ultimo, una nuova dichiarata maestà onirica e indipendente che fa luce con i propri brillanti vaporosi, emozionanti; leggermente ombroso, vettorato su coloriture grigio topo come a differenziarsi dal precedente, l’album è di un morbido melanconico che culla, scompare e culla, un dondolante visionario che realizza momenti sospesi e orfani di gravità che non fanno fatica alcuna a costruirsi – in musica – un’alternativa più che credibile.
Folk terso e indie sparuto, uniti e legati in un vero e proprio mondo impalpabile, arie graduate e Aaron Dessner dei National che è “immischiato” nella tracklist per un mid-perfezionismo immaginario che lascia gocce di sogni qua e la; un disco a strati congiunti, anime liberate che svolazzano tra ombre di Grizzly Bear, Arcade Fire, tenerezze intricate col pop “Mt. Washington”, bolle di sapone eteree “Black ballons” , una dolce sbandata psichedelica “Ceilings” e tutte quelle ammiccanti assimilazioni di stampo Zulu Winter che fanno jogging sulla via lattea di “Bowery” e  che chiudono con una lancinante dolcezza intoccabile ogni tentativo di cambiare rotta.
Per intraprendere un trip d’essenze e note efficaci fatevi pure avanti, non manca nulla.

Read More

“Diamanti Vintage” Alice Cooper – Hey Stoopid

Written by Articoli

Non si sapeva quasi più che fine avesse fatto il suo circus en travesti e i suoi incubi in cellophane  eppure l’album Trash di appena due anni prima aveva riscosso un tremendo successo e lo aveva rimesso, ricollocato, sulle vette alte dell’Olimpo dei Grandguignol d’eccellenza, infatti, oramai a speranze zero, manco a dirlo Alice Cooper ricompare tronfio e con un bel disco, “Hey Stoopid” ennesimo capolavoro della sua arte “mostruosa” e trash che molto a dato nel rock d’ogni tempo.
Il suo è un mondo elettrico di paura, sangue, sesso e rock incandescente, hard-rock, metal e street-glam che si innestano e s’incrociano, chitarrismi impazziti e ballate da accendino acceso da sempre fanno parte della scena dell’artista di Detroit e che hanno scatenato nel tempo a venire la fantasia di tanti altri che ne hanno assimilato, se non copiato, mosse ed intenti (tra tutti Marylin Manson). Nel disco – molto più ammorbidito dei grandi successi passati – è un compendio di immediatezze, hook e giochi sonori, un venire incontro alle nuove esigenze che il pubblico rock vuole sentire, non più sussegui, stupri e violenze declamate, ma un Cooper più riflessivo, un artista che vive una seconda giovinezza e  che gode di una produzione altolocata. Con lui in questa avventura un parterre paradisiaco di chitarre, Slash, Stef  Burns, Vinnie Moore, Steve Vai, Joe Satriani e alle voci  Rob Halford, Dave Mustaine e Sebastian Bach, uno spettacolo nello spettacolo e che innalza il disco a livelli stratosferici se consideriamo che al basso troviamo anche un mitico Nikki Sixx dei Motley Crue.

Ballate, melodie amplificate, rock’n’roll schizzante e rinascita artistica per il mitico Vincent Damon Furnier, l’Alice Cooper mondiale, questo Hey Stoopid – che negli States è stato un flop clamoroso – nel resto del globo ha venduto milioni di copie, ma ogni profeta non è mai riconosciuto in terra propria cita un vecchio detto, e Cooper guarda dritto a trasmettere la sua goliardica energia, il suo show truculento e memorabile; tra i brani i più graffianti il fuoco incrociato di “Feed my Frankestein”, la dolce power ballad “Love’s  a loaded gun”, la tripletta scottante “Little by little”, “Snakebit” e “Dirty dream” e tutto un insieme di sensazioni notturne che se non ti fanno tremare, perlomeno ti fanno guardare costantemente alle spalle.
Spalancate i vostri orecchi a  questo album e a  questo “mostro”  leggenda vivente.

http://www.youtube.com/watch?v=6vBx-1r4xYY&feature=youtu.be

Read More