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Elio Petri – Il Bello e il Cattivo Tempo

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Rimane sempre al centro della sua scena il cantautore-musicista Emiliano Angelilli in arte Elio Petri, ma ora questo moniker è comprensivo di una vera band di contorno, e “Il bello e il cattivo tempo” è la nuova formulazione sonora che l’artista mette sul banco degli ascolti, poi andando a scandagliare la profondità delle sette percezioni che costituiscono la scaletta,  quello che si va ad imprimere al primo giro è la sensazione di un disco che “si apre agli orecchi”, che si rende abbastanza abbordabile rispetto il precedente, con quella misurazione idonea che accorcia distanze e favorisce approcci pressoché “amichevoli”.
Licenziato per l’etichetta perugina Cura Domestica, il disco – che vede due rispettabilissime guests quali Marco Parente nella metafisica di “Capra strale” e Theo Teardo in ben quattro tracce tra cui spicca, per una stupenda costruzione psichedelica, l’aria girovaga di “Ti farò soffrire”, è una di quelle mutazioni artistiche che si palesano come performance assemblate, dove valore e gusto si contrappongono ad attivazioni sensazionalistiche di scarso pregio, qui parola e concetto autobiografico sono un tutt’uno con un ascolto fine e a tratti diabolicamente criptato ma con le chiavi sulla toppa, tracce autoptiche sulla loro stessa personalità, il respiro di un senso di rinascita e il climax malato dell’io, ma che, calcolato nel vortice totale degli Elio Petri,  diventa una miscela da standing.

Se le condense Kafkiane di “Bruco” o “Vipera” vi stordiscono a dovere, potete sempre rifarvi l’animo con il rock isoscele che fulmina in “Blues” o decorarvi l’anima con la filigrana stampata negli equilibri svergolanti di “Il disprezzo”,  ed il gioco è fatto, tutto quello che rimane da fare è catturare le interessanti intuizioni sonore “Mascella”, accurate, intense e nello stesso tempo libere come foglie al vento “Alga”, poi tirando le somme vi troverete a considerarlo non un lavoro di velata sofferenza interiore, ma un pacco di musica dove costruirci sopra infiniti binari interpretativi e, perché no, arricchirvi di personalità multiple.
Bello.

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Giuradei – Giuradei

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Un buon disco dopo aver smaltito la sbornia da ri-fagocitazione di estenuanti anni Ottanta ant-post-futur, è proprio quello che ci vuole per fare pace con l’ansia e  con le corse da prestazione sonora cui siamo sotto tiro ogni dì. E manco a farlo apposta arriva il nuovo dei Giuradei brothers che porta solo il cognome dei due musicisti “Giuradei” a ritiraci su, a rimpinguare quelle falle mnemoniche che avanzano imperiose dopo tanto stress.
Ettore non è più solo, interviene nella stesura della tracklist anche il fratello Marco, ed il prodigo cantautorale di questi “esseri alieni” raddoppia e si rafforza nelle loro storie, verità, bazzecole e originalità con la forza astratta di quella poetica sghimbescia che è una indiavolata mutazione spalmata su dieci tracce; disco di incomprensioni, angoli di vita, curve di pensiero e il tratto distintivo e  “disilluso” come la filosofia “Giuradeica” comanda. Gli artisti lombardi sfornano un cantautorato agro, in bilico tra canzone d’autore intinta d’elettrico “Generale”, “Papalagi” o acustiche carrettere e vagamente tex-mex “La sconosciuta”, “Sta per arrivare il tempo”, “Dimenticarmi di te”  un inalterato stile musicale che li fa riconoscere all’istante e dal quale difficile sgamarne le continue inversioni ad U, dai repentini umori che passano sempre ad un livello “successivo” sensazionale, atmosferico.
Storie urbane e desideri di tutti i giorni, un continuo e buon “assorbire” la genuinità dello specchio della vita che i due Giuradei lucidano e rendono opaco a tempi alterni con quel piacevolissimo intorpidimento che spesso la noia e la reminiscenza di refoli d’ottimismo regala; con la bella chitarra spennata da Depedro dei Calexico in “Senza di noi” o il verbo di Giancarlo Onorato che echeggia in “Continuano a volare”, la rappresentazione sonora di stati d’animo e nuvole dai grigi incerti arrivano al loro binario morto senza mai cadere nei trabocchetti revivalistici di certi cantautorati, un disco che vi trascinerà a tentoni nel bagliore e nella meraviglia dell’esperienza estetica. Consigliatissimo!

http://www.youtube.com/watch?v=sOMYHl_3fCY

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Bad Religion – True North

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Alla faccia dell’età e di tutta l’avanguardia che la musica “rumoristica” del punk-melodico ha portato in avanti come le lancette di un orologio assurdo, i Losangelini Bad Religion sono ancora qui a dare lezione e alfabeto sonoro a tanti e ancora tanti, le loro produzioni, oltre ad aver superato abbondantemente la metrica, danno ancora biada ad un mondo refrattario e si stagliano focosi come sempre, magari con qualche accento smussato, all’arrembaggio di nuovi terreni d’ascolto da colonizzare.
Una band che tra amplificazioni al limite, vette raggiunte e magari qualche inciampo di carriera (The New America), vive una seconda giovinezza senza scadere nel ridicolo di un “revival” anacronistico, ma con la forza garante di una formazione che ancora può confrontarsi con gruppi della stesse specie e uscirne per l’alto, e “True North” arriva proprio nel momento in cui questo confronto è vivo e teso tra i grandi punkers ancora in circolazione; sedici tracce che bollono come dentro una grande marmitta, punk’n’roll di classe e hooks a presa rapida, riff e anthems dispettosi che si danno appuntamento in una tracklist veloce e pirica, ovviamente con il calcolo dei tempi che passano inteso come stilema, ma che ancora schizza potenza e “gioventù bruciata”.
La band di  Greg Graffin da vita ad una baldanza che ha tanta personalità ancora da vendere, un omaggio implicito a non arrendersi mai nonostante le mode e il trust che trancia storie e modelli a proprio piacimento e misura, e loro – questi impenitenti giovanottoni – non se lo fanno dire due volte e perpetuano “la razza” con gli scatti elettrici di “True north”, “Past is dead”, “Lands of endless greed”, facendosi un po riflessivi “Hello cruel world”, ma tanto è l’istinto primordiale del punk a riemergere dal profondo e i Bad Religion tornano a ringhiare – amorevolmente – in “Crisis time”, “Popular consensus” fino a rimangiarsi la tavoletta dell’acceleratore di “Changing tide” traccia speed che saluta senza inchino e scappa con tutto il disco dietro.
Si una vera garanzia e se vogliamo un vecchio incantesimo a 200 orari che si rinnova ogni volta che loro ritornano tra di noi e che- sebbene tutto – non imbrogliano mai sulla loro reale base anagrafica.

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Eels – Wonderful, Glorious

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Dopo la scorpacciata dovuta alla trilogia che li ha impegnati nel 2009/10, Mister E, ovvero il pazzoide Mark Oliver Everett e i suoi sodali Eels, non se la sentono di essere ancora collegati a quell’urgenza iniziale in cui li abbiamo tutti conosciuti, non ci stanno a rimarcare quelle strutture – meglio sovrastrutture – che li lanciavano tra il teorema del delirio e i grandi puzzle dell’universo alt-tutto, ma decidono di occupare una macchina del tempo, la denominano “Wonderful, Glorious” e ne fanno un transfert accalorato verso gli anni Settanta dove, sulle righe alcaloidi di certi Fleetwood Mac e le ottiche sonanti di chi altrettanti stravizi pop-rock non li vuole dimenticare, continuano in una sorprendente presa  discografica con il ruolo primario di entusiasmare a rotta di collo.
Tredici direttrici che possono scuotere l’immaginazione per via del multistrato stilistico del quale la tracklist si permea e deborda, spazio dove la libertà creativa è più che idonea nel farsi complice di una conquista istantanea; disco di una scrittura fondamentale, scostata dalle precedenti produzioni, ma anche dove una parola e magari uno, due, o al massimo tre accordi, stabiliscono il punto giusto di fusione tra innamoramento e intimità immaginaria “Accident prone”, “On the ropes”, “The turnaround”, tanto a scomodare un qualcosa di più cui Everett non se lo farà dire mai due volte.
Dicevamo gli anni Settanta in cui gli Eels tornano a pescare prodigi e virtù instancabili, e se le chitarre e le tastiere di “pelle nera” disegnano giri funk in “Kinda fuzzy”, il rock-blues tinge nuvole distratte in “New alphabet”, l’atmosfera modificata di una robotica in luna di miele a Beverly HillsPeach blossom” o l’eccentricità Waitsiana in “Bombs away” oppure i Cream con la frangetta beatnik che fanno shake convulso dentro “Stick together” possono sembrare una manna dal cielo che solo gli Eels sanno concertare e impastare, con l’arrivo all’orecchio del beat edulcorato e molto “summer of  love” che la titletrack offre, le gradazioni della goduria intesa come sintonia perfetta con il registrato fibrillano a go-go.
Come sempre sono i primi nella loro disarmante sincerità, mai secondi nella docile psichedelica e ancora primi a ridisegnare le coordinate del rock e delle sue armonie; che dire, Eels la stupenda fantasia in cui non  sai mai cosa vai ad ascoltare!

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“Diamanti Vintage” Inti Illimani – Viva Chile!

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O bene o male tra i solchi di questo disco, una parte della nostra giovinezza strapiena d’inni, eroi, miti, credo e tutto quello che poteva fare “essere di sinistra”  ci ha lasciato cuore e fegato; gli Inti Illimani facevano parte della nostra vita quotidiana, non si poteva fare una riunione militante, avere un pensiero pesante o ritrovarsi con gli amici dentro uno scantinato a bere vino, fumare canne e adulare il Sol dell’Avvenir senza che questo Viva Chile! non strombazzasse a tutto volume il suo animo focoso, ribelle, e pure romantico, con quel candore  Guevariano intriso dentro.
Esiliati in Italia dopo il golpe di Pinochet in Cile nel 73, il gruppo – cileno anch’esso – si stabilì come sede ideologica da parte di tanta sinistra organizzata su barricate, fuochi accesi e manifestazioni parada da guerriglia urbana, ma le loro canzoni erano di tutto altro tipo, erano canzoni della loro tradizione andina, popolare e contadina; ritmi bellissimi che facevano ballare al soffio di flauti di pan, bombi, chitarrone a battente, e ai mille colori che la loro stupenda terra, in quel momento insanguinata dalla dittatura, proiettava come arcobaleni verso il mondo intero.
Presi come vessillo sonante della lotta per la libertà, gli Inti Illimani di Horacio Salinas, vanno a godere di una popolarità straordinaria, si ritrovano a suonare ovunque – dalle feste dell’Unita alle balere di provincia – e alcuni dei loro pezzi, come “Alturas”, va a siglare centinaia e centinaia di programmi televisivi; canzoni che quasi tutti imparammo a memoria, come lo slogan che si urlava ad ogni corteo “El pueblo unido jamas serà vencido” o il romanticismo battagliero di “Venceremos”, che andava a riempire i cuori tremebondi di quelli che allora si definivano “compagni”.
In questo disco ci sono alcune delle più belle canzoni che il combo cileno abbia mai scritto, basta citare “Hacia la libertad”, “Cantos a los caidos”, la già citata “Alturas”, “Simon Bolivar”, “Fiesta de San Benito” e “Cancion del Poder Popular”, e tutto questo accadeva tra il 73 e il 75 dello scorso secolo, in quel frangente di tempo dove ancora credere ad un socialismo reale era possibile. Ora ascoltare questi dischi, e precisamente questo, da un senso di gioia e smarrimento, tristezza e commozione per un  tempo che non tornerà più, ma anche un coraggio che ci stringe il cuore per essere tra i fortunati ad averlo percorso e poterlo raccontare.

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Cesare Basile – S/T

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Scaricato in free streaming dal sito del Teatro Coppola, Teatro dei Cittadini di Catania e tutt’ora occupato, ecco il nuovo diamante grezzo del cantautore Cesare Basile, diamante grezzo che non porta nessun nome, ma che rovescia addosso a chi mette orecchio un climax ruvido, gravido di quelle melodie al quarzo che scintillano luce, riverberi scarni,  sapore di sale e ferite aperte che sono oggetto e verifica di quella passione graduata che l’artista siculo ci ha sempre plasmato dentro lo stomaco e dintorni.
Quello che colpisce della poetica di cartavetro di Basile è che non alberga mai voli liberi, abbandoni o albe da trascendere, ma una costante elegia alla celebrazione della sofferenza e nello stesso tempo alla riflessione nuda e cruda intesa non come esistenzialità piuttosto come perfezione “dal basso”, di quella rabbia costipata messa in circolo sottoforma di intimismo agro e cupo che fa titillare all’inverosimile le meccaniche di collegamento delle emozioni vere; dieci tracce – alcune cantate anche in siciliano – che se fossero colore sarebbero color seppia, un istinto la giustizia, uno sguardo il profondo e una movenza un volo di farfalla triste, dieci tracce che quantizzano l’enfasi e i ricordi di un autore schivo  quanto vero, sincero, arte fatta con gambe, parole, pensiero e lingua per poi andare a zonzo in una esistenza che non lievita le masse ma le prende in considerazione, le fa contare non come numeri ma come un insieme di fratellanza da scuotere forte e ancora forte.
Cantautorato spesso, che odora, profuma e puzza di vita e voglia di libertà, storie amare come cicuta e raccontate fuori dai denti, senza abbellimenti e pinnacoli, la Sicilia parlata dalla parte delle sue ingiustizie, dai fondi dei  suoi negazionismi libertari e pregna di quelle frecce popolari che alimentano corpi e intelligenze sottomesse e  da infilzare, un disco che con “Parangelia”, “Nunzio e la libertà” ti apre disegni metafisici e contorni mediterranei, ti attraversa l’animo con la scardinata prosa popolare e i suoni  acustici del tempo “L’orvu” e “Caminanti” fino a quell’arcobaleno sbiadito ed intermittente che s’ inchina alle rime della stupenda  – tra le stupende – “Lettera di Woody Guthrie” ballata nera bagnata da un folkly tratteggiato e larsen messi a contrasto tra spiriti indomiti e un America bastarda.
Cesare Basile è tornato per farci tremare, e lo fa attraverso il nostro ascolto che prende quota al di là della forma visibile.

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Yo La Tengo – Fade

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Dopo anni passati ad ascoltare il rumore degli amplificatori e portarne – poi dopo – i segni indelebili in ogni dove, le nuvolette indie pop dei statunitensi Yo La Tengo sono un beneficio quasi “biologico” che arriva a lenire stress e logorii “della vita moderna” e che va a rivoluzionare pressappoco quel bisogno di intimità e solitudine che ogni tanto fa bene e rigenera il plesso solare.
Fade” è il nuovo della band del New Jersey, ed è difficile includerlo tra quei lavori che sanno troppo di terra e di cavalcate quotidiane in calcomania con giornate avulse e frenetiche, piuttosto uno di quei dischi che pare calare dall’alto, che cade appunto “dalle nuvole” per coccolarci, viziarci e farci prendere tutto il tempo per pensare, sentire, in somma riappropriarci della nostra “deliziosa parentesi oziosissima” nell’emisfero di sogni e affini; dieci “piani di delicatezza” che si ascoltano come un balsamo tenerissimo, dieci brani che escono come da uno scrigno custodito chissà dove e che si apre, accorto, come una medicina di bellezza per le nostre – di tutti – necessità di bellezza.
Tutto è sussurrato e confidato, un pop altolocato che gira armoniosamente al pari di una pastorale, di una semplicità esecutiva che innalza e fa sognare ad occhi spalancati e che non può fare assolutamente a meno di dilatarsi e viaggiare ai bordi smussati dell’immaginazione; con quell’afflato evanescente, quasi incipriato d’aria fine, che sa di Galaxie 500 e tattiche ispirate alla Sebadoh, gli Yo La Tengo si possono permettere tutto, andare controvento “Is that enough”, “Paddle forward”, lasciarsi sprofondare in un ancient bucolico di gemme e resine profumate di AppalachiI’ll be round”, o perdersi tra le sensazioni ovattate di GarfunkelCornelia and Jane”, “The point of it”, ma è con la stupenda architettura di “Ohm”, un ciocco schitarrato di fumo andato in circolo (che tra l’atro avvia il disco alla sua funzione di giro) che il cuore ai aggiorna e la mente emigra in un altro sistema  più su del nostro.
Maneggiare con cura, indie-pop fragilissimo e innocente.

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NaNa Bang! – S/T

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Tira aria buona, aria sincera e oculatamente hipe; non sono elucubrazioni metereopatiche, ma considerazioni positive che vengono a galla dopo l’ascolto di questo ottimo esordio dei bresciani NaNa Bang!, formazione “rimodulata” in cui militano Andrea Fusari e Giuseppe Mondini (ex Gurubanana), otto tracce che grondano un indie con la consapevolezza del lo-fi, un calembour di hit a portata di tutti e che con la rapidità lenta delle cose buone si presentano all’ascolto con una sorta di sincera parata che non sconta nessun peccato, piuttosto un qualcosa di “sfacciatamente” (ri)trendy.
Dolciastre scorribande silenziate dal rombo dell’elettricità forzata, ballate e sensazioni temporali di anni Sessanta e di una Frisco agli esordi della beat generation, profumi ed essenze di Naked Pray, lontanissimi Nuggets, Three O’ClockBoomers” come pure un allampanato Country Joe and The FishPossibly bright”, “While I’m here”,“Thinkerbelly” quel suono Paisley che tanto ha fatto sognare, nebbioso e riverberato in una psichedelica che si taglia col coltello; “beach songs” a tutti gli effetti, brani dell’ingenuità perduta e della serenità conquistata che scorrazzano in questo disco come una sintesi di sole e “ieri” che non tramonta mai, e anche un’ulteriore conferma di un suono – rimodulato da questa straordinaria formazione in duo – che è sempre avanguardia senza anagrafe e droga legale per cultori accaniti.
Anche disco di flash e ricordi, in cui affiora una buona voce conduttrice che si muove tra i quadrangolari di una melodia stropicciata, picaresca, con la l’inerzia di un dopo sbronza, mentre il contorno è un allucinante teatro di sirene, echi e stridori di gamma che riportano alle cadenze dreamly di Steve WynnRefried beans”, mentre la florescenza DylanianaStroll” e la rivisitazione del brano di Daniel JohnstonTrue love will find you in the end” vanno a rendere omaggio all’impero dei sensi valvolari del piacere assoluto.
I NaNa Bang! mettono in scena un piccolo capolavoro di sabbia e luce, che non è testimonianza di uno stile passato, ma una nuova orma da seguire per restare al tempo, capace di emozionare e aprire teste ristrette e colpire tutta quella “futuristica” sonante che  sparge nulla.
Fatevi possedere da queste stupende tracce, non opponete resistenza al loro principio attivo, fregatevene dell’oggi!

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“Diamanti Vintage” Fluxus – Vita In Un Pacifico Mondo Nuovo

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Gli anni pirotecnici dei Novanta tricolori, senza dubbio alcuno non erano di meno delle nuove avvisaglie guerrigliere che in buona parte del mondo sparavano watt e urlavano contro; la nostra scena era un pullulare di nuove formazioni e altrettante esigenze espressive che quasi non si sapeva più dove metterle o ascoltarle.
Piccole storie e nuove band scoppiavano ogni minuto, delusioni e grandi approssimazioni fluivano incessantemente,  ma ci sono state delle eccezioni ferree, come l’esordio di una band poco considerata ma di immenso pathos, parliamo dei Fluxus che, dalle chimere dei Negazione, riprendono in mano il loro mondo oscuro fatto di metal, noise e staffilate hardcore punk e “Vita in un pacifico mondo nuovo”  – nove siluri sonori – è il loro debutto, la loro opera prima che tra testi e concetti muriatrici, li porta immediatamente – nel collettivo immaginario – ad essere paragonati alla versione italiana dei RATM o addirittura dei Dead Kennedys.
Franz Goria alla voce, Adriano  Cresto e Simone Cinotto alle chitarre, Luca Pastore al basso e Roberto Rabellino alle pelli, favorivano un suono arrembante, aggressivo e credibilmente “anti”, un tornado di giugulari infiammate e riff canaglia che scossero il pensiero alternativo di casa nostra al pari di un terremoto inaspettato, diabolicamente “main”. Un album questo dei torinesi che purtroppo è rimasto per sempre incastonato – come del resto la formazione – in un limbo seminascosto per nulla rassicurante – dietro quelle facciate chiamate “nicchie” in cui non si poteva andare più in la del semplice ascolto “carbonaro”, praticamente la discografia “altra” era più rivolta a certe schizofrenie commerciali che a questi immensi patrimoni elettrici di vera cultura underground.
Suono spesso, angolare e buio, cantato rigorosamente in italiano, violenza amplificata a mille, queste le attitudini della band, virtù senza difetti che rimbalzano nella tracklist come schegge funeste e understatemen, tra le tante a caso l’heavy metal coi cambi tempo incontrollati di “Vedo”, “Sabbia”, il basso che , in mid-tempo, istiga alla corsa la stupenda “Pelle”, il noise truculento e metallurgico contro la politica padronale della Fiat “7/8” o l’inciso iniziale di “O.C.” che prevede un cantilenare di una vecchietta prima della deflagrazione hardcore  che scombussola coni, woofer e trombe di Eustachio.
Seguiranno altri due album basilare per la storia dei Fluxus, Non Esistere del 1996 e lo straordinario Pura Lana Vergine del 1998, ma siamo sempre lì, tra il lusco ed il brusco senza mai – da parte del pubblico – elevare la band come invece si sarebbe dovuta elevare.
Immensa energia alternativa buttata alle ortiche.

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Baustelle – Fantasma

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Tra inferno e paradiso di solito in mezzo ci sono i fantasmi, e anche una cosa che non si può calcolare ne tantomeno imprigionare, ovvero il tempo, quello scadenzario invisibile che plasma, inghiotte senza mai digerisce niente. E appunto questi ectoplasmi giocano forte e danno il titolo “Fantasma” al sesto album dei toscani Baustelle, un lavoro strano e stupendo che abita fuori dal mondo con la complicità di sofismi sinfonici imbastiti dai sessanta elementi della Film Harmony di Wroclaw (Polonia), diciannove tracce (sei strumentali) che si nutrono di sostanze cinematiche, sfumature horror, pianoforti spogli e tratti cinematici da rincorrere tutto d’un fiato, un concept che ama la vita come gode con la morte.
Un ascolto per niente tranquillo, da centellinare per il disincanto e per il nutrito visionario che la band mette sul piatto, un approccio che non ha leggerezza come nega l’ottimismo esagerando nella degenerazione, colori scuri e arie da pianoforte, voce e orchestra che non lasciano scampo all’incanto,  pronto ad assalirvi come a gelarvi, ma che comunque vela di etereo ogni angolo di pelle e d’ascolto; Francesco Bianconi, Claudio Brasini e Rachele Bastrenghi vivono il passato e presente come un inceppamento per il futuro, citano Mahler, De Andrè, Messiaen e Stravinskij, realizzando una voglia di respirare significati e non regole prefissate.
Non hanno peli sulla lingua e mai un filo di timidezza sfiora le loro canzoni, i loro “lieder”  a fissare le architetture evolutive di gruppo, una costante e fortissima volontà a non apparire uguali, bensì fuori da tutto senza mai censurarsi né ritagliarsi fughe secondarie; con Enrico Gabrielli dei Calibro 35 come presenza costante negli arrangiamenti, Fantasmi si snoda tra le cupole e le volte di tocchi lirici  “Finale” dal Quatur, composizione di Messiaen scritta nel campo di concentramento, l’adagio della quinta sinfonia di Mahler citato né “La natura”, la ballata in romanesco stretto che bisboccia dentro “Contà l’inverni” o l’organo della Cattedrale di Montepulciano che cromatizza il senso ateo e agnostico del pensiero nella stupenda “Nessuno”.
Disco di coscienza incosciente questo nuovo lavoro della formazione toscana, ma anche di coraggio e  – suo modo – d’avanguardia, certo non d’immediato trasporto se non fatto girare alcune volte, ma quasi un radiogramma che brucia ed immola genio e sregolatezza, alla ricerca fissa di una redenzione umana e non “L’estinzione della razza umana”. Uno di quei dischi che all’inizio ti guarda in cagnesco, poi ti strangola tra le spire della sua subdola bellezza.

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FFD – Antifa Riot

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Con un carnet di mille e più live in ogni dove Italiano ed estero e quasi vent’anni di “sonica anarchica professione”, i parmensi FFD non danno il minimo sentore di fermarsi a godere delle loro “incursioni” scatenate tra spiriti bollenti e coscienze da ripulire, e come in una sempre rinnovata energia da spendere senza risparmio spingono il loro nuovo disco “Antifa Riot”, quindici tracce più un bonus scritte in pochi giorni e con la consueta diabolica strafottente  urgenza di dire quello che hanno fisso nel cuore, ovvero l’Antifascismo, la ribellione e, in questo caso, anche poetiche urbane omaggianti le loro passioni per le Vespe e le Lambrette.
E la ribellione è la vera loro caratteristica, il loro ineccepibile orgoglio di andare contro tutto quello che è compreso e compresso nei dogmi sociali, negli ordini costituiti dell’arroganza del potere e delle angherie dall’alto verso il basso sempre più remissivo e soggiogato; tracce al fulmicotone, pogo liberatorio e stage diving da angeli maledetti, queste le “apparecchiature baldanzose” che la band diffonde tra sangue sociale e fun punk-Oi!, senza nemmeno un minuto di tregua, di calma, dritti nelle sensazioni e nelle euforie di un “Sol dell’Avvenir” sognato da tanti.
Compagni di stile e “compagni” di lotta che li porta ad essere affiancati stilosamente a Derozer, No Relax, 2Minutos ecc., il combo FFD scardina l’ascolto con una sequenza di brani fibrillanti e pieni fino all’inverosimile di linguaggi trascinanti di aggancio se si crede a certi ideali, inni e visioni che non tramontano mai (menomale)  e che riportano il calore del riaprire gli occhi e urlare a tutti quello che non va bene per un cazzo e che è da combattere con tutte le forze possibili. “Noi siamo per l’anarchia”, “We steel fight again”, “We are the soul”, “Saturday night”, due belle registrazioni corali live “Riot squad” e “ Freedom”, una ottima comparsata speed-core “Parma antifascista”, il twist sbicentrato “Lambret twist” ed il boato esaltante di “Grazie a voi” sono i gioielli rossi che vagano, tra gli altri,  in questo “salutare” disco di amore e lotta per la giustizia di tutti, poi è la sua musica epilettica che fa saltare il cuore oltre e ancora più in la delle ipocrisie organizzate.
Avanti o Popolo alla riscossa, è il nervo teso di un disco che brucia di gioia & rivoluzione.

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“Diamanti Vintage” Alberto Camerini – Rita & Rudy

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Mentre nel resto d’Europa e del mondo imperversava la magra melodia, il cantos dell’ossessione e della perdita di ogni dettaglio di “Futuro” intrapreso dalla wave più inconsolabile e fredda che si possa immaginare (vedi Pere Ubu, Suicide, Joy Division per citarne alcuni) in Italia sull’onda della filosofique du Baudrillard, del prendersi in giro e sminuire le composizioni nefaste della società, Albero Camerini, il cyber-punk della scena nostrana, l’Arlecchino elettronico mascherato da clown da alle stampe il suo sesto album “Rudy & Rita”, il primo per casa CBS dopo aver lasciato la Cramps l’anno prima, quattordici tracce che – specialmente con l’apripista “Rock’N’Roll Robot” –  porterà l’artista italo/brasiliano al top delle charts per settimane intere.
Un artista apparentemente strampalato, invece fine e acuto sulla società avulsa che gli gira attorno, attento osservatore di mode da innalzare o affondare e autore di melodie angolari che seducono e attirano ascolti da ogni angolazione, brani che si piazzano in testa e non scendono più, forti di quella bella commistione di rock metropolitano frammezzato a punteggiature brasile ire che fanno dei suoi dischi delle bombe radiofoniche estremamente azzeccate; definito dalla critica di allora “automatic clown”, Camerini esprimeva il suo essere uomo/artista come una seconda pelle Bowieana, truccato con un make-up alla Ziggy Stardust nostrana ed un groovy sonoro ora  epilettico ora con interstizi classic romantic, praticamente un ambasciatore definito e tonico delle esigenze rivoluzionarie che nel resto dell’Europa già stavano per invadere il mondo intero, gobale.
Lui provò a cambiare l’Italia della consuetudini musicali, canta e provoca con la grazia di un birichino Gianburrasca vestito di colori e ritmi nevrotici, anticipa e vive la “gioia al potere” delle nuove scene alternative, ma non sempre viene capito – anzi a pensarci bene – pochissimo o quasi per niente,  ma i suoi sberleffi e le sue belle cose rimango in piedi tutt’ora; visionario e avanti di cento anni sulla cultur(ina) tricolore, Camerini ci regala un disco effervescente e aggraziato, le sguaiate mosse di un Presley pelvico ruggente “Rock rap”, i voli d’amore a  lungo raggio “Astronauta”, le aspirazioni da rock star “Johnny”, un pizzico di barocco veneziano “Miele” e uno dal sapor latineggiante “Il ristorante di Ricciolina”, ma è con l’arrivo del madrigale “Quando è carnevale” che il disco prende ancor più punti di valore sulle onde dolci di un Brasile rimembrato e rimpianto.
Svezzò e bilanciò una generazione a metà tra inconsapevolezza e sfiducia, regalò i suoi gloss, matite, fard e ombretti al buio della vita e a quella debolezza pop-patriottica già in “odore” di putrescenza.

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