Chi se lo sarebbe aspettato? Chi avrebbe predetto che un gruppo (come tanti?) di ragazzotti zozzi arrivati dalla campagna americana sarebbe passato dal folgorante quanto grezzo esordio di dieci anni fa ad essere un combo di super rockstar mondiali? Da eccitare poche liceali nerd ad eccitarne migliaia ad Hyde Park? E soprattutto chi non ha pensato che all’incredibile successo di “Sex On Fire” sarebbero seguiti soltanto dei goffi tentativi di rincorsa? Beh, in effetti il successo avrà pure deviato le teste dei Kings of Leon ma, a sentire cosa producono in questo 2013, l’ha deviato in una strada che risulta essere incantevole da percorrere.
Dopo “Sex on Fire” (che era solo il biglietto da visita di un disco mastodontico e mainstream come Only by the Night) è arrivato un disco buono ma un po’ troppo sicuro come Come Around Sundown e soprattutto sono arrivate le liti, gli atteggiamenti sfrontati e una vita a New York City che di certo non ha aiutato i quattro ragazzi della radura. Questo Mechanical Bull era la prova del nove, o dentro o fuori dall’Olimpo del Rock’n’Roll. Già pronto ad essere etichettato una copia della copia, comodo rifugio per potersi permettere una vita sopra le righe. E invece arriva come un lampo a ciel sereno la maturità, la consapevolezza di una band che sul filo dei trent’anni dimostra di essere in splendida forma. Il patto di sangue ora (i quattro in questione sono tre fratelli e un cugino) va oltre la semplice intesa musicale, scava nelle vene e trova un sound sempre più personale, moderno e aperto a miriadi di influenze.
L’attacco del singolo “Supersoaker” mette in chiaro le cose, questo è un disco di Rock’n’Roll compiuto ma che non perde lo smalto in vestiti alla moda o dentro gli iPod dei runners che fanno jogging a Central Park. Non c’è spazio per pezzi spacca classifica, ma solo per grandi canzoni, suonate da una band che esce dalle casse come una sola entità. Niente “Sex on Fire” o “Radioactive” dunque, ma brani ragionati, costruiti e plasmati insieme. Tirati e mollati con dinamica magistrale, senza tendere o rilassare troppo la corda. Una giostra con salite e discese, onde altissime ma mai troppo veloci. Eppure tutto questo racchiude la frenesia degli esordi e l’aspetto più fashion degli ultimi dischi, nulla si scarta ma tutto muta e le parti si complementano meravigliosamente. Si, perché forse la potenza gigantesca dei Kings of Leon è proprio quella di essere evoluti senza stravolgimenti, tutti gli accostamenti ci risultano così naturali. “Don’t Matter” ruba la grinta e la sporcizia di “Molly’s Chambers” mentre subito dopo la linea di basso di “Beautiful War” ci accarezza la pelle. La voce di Caleb manda il pezzo in vetta, il ragazzo ha sempre più carisma e tecnica. Gratta via lo strato roccioso dalle corde vocali per trovare un cuore morbido. “Temple” è una vera bomba che ti esplode nelle orecchie, la miccia prende fuoco facilmente in un ritornello pronto ad incendiare gli stadi. In “Comeback Sory” arrivano le maggiori influenza Southern Rock, dove l’ipnotica chitarra di Matthew dona all’aria il rustico sapore della campagna. Il rullante di Nathan e le pennate di Jared ci introducono “Wait for me” e “Tonight”, due ballate groovose e dinamiche, che ti aspetti da questi Kings of Leon così completi. La loro sezione ritmica rimane senza dubbio una delle migliori in circolazione.
In buona sostanza questo album è grandioso, mette nel piatto tutto quello che sono stati e sono i King of Leon. E ci restituisce una band in grado di descrivere alla perfezione l’albero che ha tirato su in questi dieci anni (è un caso che una traccia si chiami “Family Tree”?). Albero curato dalla dura radice ai suoi frutti più freschi.