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Arcade Fire – Reflektor

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Skippando a piè pari i 10 minuti della hidden track iniziale, sono andato subito alla traccia numero uno “Reflecktor”, canzone che da il nome al nuovo e quarto album in studio degli Arcade Fire. Spinto dalle prime note caratterizzate da un groove danzeresco (audio doverosamente a palla) mi sono alzato e incamminato lungo il corridoio di casa con un’andatura lenta ma ritmata e sicura. Con una giravolta alla Derek Zoolander (chiaro, verso destra) mi sono diretto in cucina e tra un movimento pelvico  e l’altro mi sono fatto un caffè, in scioltezza e sempre danzando sentendomi figo che manco George Clooney. “Prende questo sound!” ho pensato. Non avendo ancora capito assolutamente niente della canzone perché troppo intento a sentirne le vibrazioni, ho messo la tazzina nel lavandino e mi sono ridiretto zompettando verso la camera per ascoltare più attentamente l’album e scrivere due righe per Rockambula. Ebbene, a fine ascolto (un paio di ascolti per la verità) il mio pensiero è stato questo: ”Dopo aver spaccato le palle per mesi con una campagna pubblicitaria continua (aggiungo ora: prassi, che non amo molto, ma che sta oramai diventando sempre più comune nel mondo della musica mainstream dai Daft Punk, per esempio, ai Pearl Jam), è questo il tanto ostentato ed atteso lavoro degli Arcade Fire? Beh, allora ben vengano tutte le strategie di marketing invasive possibili, se portano a lavori del genere, perché l’album non spacca le palle, spacca e basta”.

Un’opera molto più elettronica e corposa, un misto di Funk Rock, elementi Reggae, Dance- Hall con influenze tribali nate dalle percussioni di stampo Haitiano, paese d’origine di Regine Chassagne e dai frequenti viaggi in Giamaica, luogo dove la band ha registrato tra l’altro, l’album. Un disco doppio piaciuto ai molti e criticato dai pochi che ne hanno visto un lavoro troppo laborioso, caratterizzato da eccessive percussioni e dall’inutile aggiunta di strumenti nuovi quali, per esempio, il sax. Uno stato confusionale, insomma,  che porta a mischiare percussioni e strofe in lingua francese al classico sound disco anni 80.  I soliti che non riescono mai a concepire evoluzioni, cambiamenti e voglia di sperimentare di una band ma che si aspettano sempre la copia dei primi album. Noiosi. La bellezza di Reflektor sta proprio nella sua diversità e novità. È un album ricco dove il gruppo canadese si inerpica per selciati sperimentali un po’ più lontani dal loro standard, mettendosi alla prova, sbattendosene e regalando qualcosa di diverso. Il prodotto è energico, ridondante, piacevole e dove lo zampino di James Murphy (LCD Soundsystem), specialmente in pezzi come “Reflektor” e “Here Comes the Night Time”, si fa sentire eccome.

Una band seria che risulta divertente, senza però mai abbandonare il lato oscuro della loro musica, quel dark che li ha sempre caratterizzati; a partire dalla copertina: il dramma di Orfeo di Rodin che cede alla tentazione di voltarsi e guardare Euridice destinandola all’Ade. Per non dimenticare poi le menate, che tanto piacciono a Win Butler, Kierkegaardiane e che ci permettono, citando appunto il filosofo danese, di descrivere al meglio l’opera della band: ”Fin dall’infanzia sono preda della forza di un’orribile malinconia la cui profondità trova la sua vera espressione nella corrispondente capacità di nasconderla sotto apparente serenità e voglia di vivere.” L’album narra di mali esistenziali, di amore, delle difficoltà nello stare insieme, delle moderne crisi di relazione e della ribellione contro l’affermazione di se stessi, il tutto con un linguaggio molto accessibile. Lungo? Onestamente un po’ si, soprattutto alcuni pezzi, come l’intro, “Awful Sound” oppure “Supersymmetry” che tendono ad appesantirlo leggermente, anche seò mettono ancora di più in risalto le tracce più brevi ma belle cariche come “Normal Person” o “Flashbulb Eyes”.  Noioso? Proprio no, sempre ricco di suoni interessanti, pieni, sensati nella loro mescola e coinvolgenti lungo tutto il percorso dell’album.

La classica opera da ascoltare donandogli le giuste attenzioni, ma al tempo stesso possibile colonna sonora delle nostre faccende quotidiane da stoppare, riprendere e magari skippare su qualche pezzo. Il risultato sarà sempre e comunque ottimo. Ascoltatelo e basta. Se potete, fatelo senza l’utilizzo di cuffie o auricolari ma lasciate che il sound invada i vostri timpani e la vostra casa globalmente. Ciò che vi rimarrà sarà sicuramente la sensazione di aver ascoltato uno dei migliori album del 2013, e se non avete idee per i regali di Natale e conoscete qualche sciagurato che non ha ancora comprato o ascolta questo disco, eccom fategli il giusto presente. Pure Gesù bambino sarà contento. E così sia.

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The Killers – Battle Born

Written by Recensioni

Dopo la partenza scalpitante con Hot Fuss,  dopo le sconclusionate avventure di Sam’s Town e Day & Age, i The Killers ci riprovano con “Battle Born” il disco che li dovrebbe riportare all’adulazione a cui erano stati abituati in precedenza e che potrebbe ancora giustificare la presenza della band di Las Vegas tra i cornicioni di quello che è rimasto dell’alternative americano; e con uno sforzo considerevole, l’ascolto delle dodici tracce si rivela come una riga tirata su di una resa dei conti virtuale, come a dire che la band abbia sentito il bisogno di “valutarsi” prima di andare avanti nella musica e quello che ne viene fuori – senza troppe manfrine – è un disco che fa fatica a prendere la strada maestra, ma che comunque rimane sulle traiettorie normali di un ascolto  che passa e va, senza fermate intermedie.

E prima di decretare il classico “nulla di nuovo all’orizzonte” c’è da evidenziare che la passione castrante per lo Springsteen sverniciato e lustrato per l’occasione, “Runaways” su tutte, non fa altro che aumentare il distacco tra opera e ascolto in quanto la formazione pare non fare nulla per incentivare la mancanza di creatività che li affossa inesorabilmente tra il nulla ed il niente; c’è solo da ascoltare senza godere, una tracklist che suona senza gioire, Prefab Sprout e U2 che si contengono lontani anni Ottanta “Deadlines and commitments”, epici attacchi di immensità limitata “The way it was”, “Here with me”, il vuoto a non rendere che incastra la trama sonora di “Be still” o di quella che la titletrack sventola in un cielo senza vento e senza colore.

Prova fallita per la formazione del Nevada, non tutte le ciambelle possono riuscire col buco, ad ogni modo i The Killers possono ancora sterzare su terreni propizi, basta trovare un nuovo sentiero che non li faccia smarrire di nuovo, e lasciare in pace una volta tanto il Boss tra i suoi spasimi e le sue avventure morbose.

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