Ministri Tag Archive
Ministri, prosegue il “Fidatevi Tour” | guarda il Photo Report della data milanese
Dopo il sold out della data di lunedì 9 aprile scorso, che ha visto i Ministri protagonisti dell’Alcatraz di Milano, continua il Fidatevi Tour con cui la band sta presentando Fidatevi, il nuovo album di inediti uscito il 2 marzo per Woodworm/Artist First.
[CONTEST] Questo venerdì Linoleum con i Revo Fever | vinci una copia di “Vivere il Buio”
Continuano gli appuntamenti targati Linoleum, questo venerdì 7 aprile con Revo Fever, Bruuno e Malkovic al Rock’n’Roll di Milano.
Pixies @ Flowers Festival, Parco della Certosa Reale, Collegno (TO) 21/07/2016
Ed eccoci giunti ad un altro appuntamento di grande rilevanza offertoci dal Flowers Festival dopo la data unica italiana di Anohni. Questa sera incastonati nella cornice del Parco della Certosa Reale di Collegno saranno presenti, anch’essi per la loro unica tappa italiana, i leggendari Pixies, una delle band più importanti ed influenti che l’Alternative Rock ricordi. Una band che nel suo periodo d’oro ha sfornato dischi che sono entrati nella storia della musica e che due anni fa, a 23 anni dall’ultimo lavoro in studio, è tornata a pubblicare materiale inedito ed oggi si appresta a dare alle stampe il suo settimo disco, Head Carrier, la cui uscita è prevista per il prossimo 30 Settembre. I Pixies si sono sempre contraddistinti per la loro grande varietà di linguaggio, per quegli arrangiamenti, molto spesso caotici, spigolosi, sfaccettati e contrastanti, fondati sulle grandi e folli doti vocali di Black Francis (unite alle ritmiche della sua chitarra), sull’ecletticità del cofondatore Joey Santiago alla chitarra solista, sulle sediziose ritmiche del batterista David Lovering, sulle splendide armonizzazioni vocali e sul basso robusto e letale di Kim Deal, che come tutti saprete dopo aver preso parte alla reunion nel 2004 ha lasciato la band nove anni più tardi, sostituita per brevissimo tempo da Kim Shattuck alla quale è a sua volta subentrata Paz Lenchantin che vedremo stasera sul palco. Una band che ha imparato e fatto sue le lezioni di David Thomas e dei suoi Pere Ubu (tra l’altro tra i due leader non manca anche una certa somiglianza) e che tra le sue fonti d’ispirazione annovera anche artisti dal calibro dei Violent Femmes e dei sempiterni Lou Reed e David Bowie e che ha a sua volta ispirato band come i Nirvana, i Pavement e tanto altro ancora di quello che sono stati buona parte degli ascolti di molti di noi dagli anni 90 ad oggi.
Insomma questa sera l’attesa è sicuramente bella alta ed insieme ad un gruppetto di amici, tra i quali un’altra penna di questa webzine, la smorziamo con un paio di buone birre ed un piatto di gustosi agnolotti al ragù, certamente non esaltanti per quantità ma che comunque ci aiuteranno a non svenire durante il concerto. L’onore di aprire per la band di Boston spetterà ai Ministri che vedo dal vivo per la prima volta e (consideratemi pure un marziano) di cui non conosco nulla nonostante il loro nome abbia ormai un certo peso all’interno della scena musicale del nostro paese. I ragazzi offrono uno spettacolo di Rock dallo spirito Punk che si dimostra piuttosto godibile con musiche dal buon impatto (per quanto non arrivi mai niente di sorprendente) nelle quali la parte del leone è assegnata alle chitarre. La voce di Davide Autelitano per i miei gusti è sicuramente più piacevole quando urla o si fa bassa e cupa che durante il cantato classico e melodico che fortunatamente prende il sopravvento raramente, i testi sono destinati ad un pubblico decisamente più giovane del sottoscritto, pubblico che comunque non manca (sarà infatti facile vedere ventenni come ultracinquantenni) e che se li gode cantando a memoria ed a gran voce ogni singola parola. No, non è nato nessun amore, ma devo comunque dire che i ragazzi sono capaci di tenere il palco alla grande e che la scelta di far loro aprire il concerto dei folletti mi è sembrata meno assurda di tante altre, considerando che spesso i gruppi posti in apertura di serata sembrano selezionati da qualcuno che come unico suo scopo abbia la mia, tua, nostra (in)sofferenza.
Durante i venti minuti conclusivi di un cambio palco durato l’esagerazione di tre quarti d’ora, probabilmente anche per prendere qualche precauzione a causa della leggera pioggia caduta a metà del set dei Ministri, il pubblico delle prime file sul lato sinistro del palco viene intrattenuto da un ragazzone che pare disegnato da Matt Groening e che cerca disperatamente il suo amico Giancarlo uralandone il nome a gran voce e più passa il tempo più si irrita anche con i Pixies e con Black Francis, ma è un’irritazione giocosa e piena d’amore (o forse mi sbaglio, forse prevede il futuro) il giovane sa di alleggerirci la sfiancante attesa, dona abbracci a destra e a manca e quando la band entra sul palco si catapulta più vicino che può, il suo spettacolo è finito, adesso tocca a loro, adesso tocca ai Pixies. La band di Boston parte subito con l’incendiaria cavalcata di “Velvety” seguita da “Rock Music” che precede la sensualità dannatamente coinvolgente della splendida “Hey” con la chitarra di Santiago che brilla per eleganza. Tre brani che bastano per farci capire che passeremo quasi un’ora e mezza in compagnia di una band ancora in grandissima forma, l’energia che si respira è veramente tanta e salirà ancora.
Oltre ad un paio di ripescaggi da quell’Indie Cindy che due anni fa segnò il loro ritorno (se vogliamo evitabili, per quanto live risultino nettamente più piacevoli) Francis e soci ci proporranno tutti e 4 i pezzi già ascoltabili del disco in arrivo, il Power Pop surfato di “Classic Masher”, “Baal’s Back”, potentissimo Hard Rock in pieno stile AC/DC, la power ballad “Head Carrier” ed il Garage “Um Chagga Lagga”, primo singolo estratto dal disco in arrivo, brani capaci di mostrarci come se la cava ai cori la Lenchantin su pezzi dove non possiamo paragonarla alla Deal, e si può dire che la ragazza ci sa fare e che supera l’esame anche sui pezzi dove il paragone è inevitabile, a voler trovare qualcosa che non va si potrebbe dire che forse in alcune occasioni il suo basso risulti meno potente e spigoloso di quello originale, ma mi sorge il dubbio che lo si potrebbe dire più per il dispiacere di non vedere sul palco la storica bassista della band che per come effettivamente lo strumento suoni. I nuovi brani dei Pixies live sono veramente trascinanti (ed immagino il nuovo disco piacerà più del precedente) ma ormai il loro segno distintivo non c’è più, mancano quella fantasia, quelle dissonanze, quella facilità complicata che avevano contraddistinto i loro giorni migliori, per quanto la title-track e “Um Chagga Lagga” due passi indietro nel tempo nel loro piccolo provino a regalarceli. Ma quei giorni stasera li ritroveremo ed alla fine andremo a casa felici di esserci stati, felici e bagnati (ma anche un po’ incazzati, scoprirete come mai più avanti) perché, come ad ogni concerto Rock all’aperto che si rispetti non mancherà, per una buona ventina di minuti, una pioggia torrenziale, portata, guarda caso, dal supereroe Tony (He’s got the oil on his chain, for a ride in the rain) non prima che la robusta e straziante violenza di “Dead” si sia occupata di oscurare il cielo.
I Pixies andranno a pescare molti dei loro pezzi storici, in particolar modo dai due album che li hanno elevati a band culto: Surfer Rosa e Doolittle. Avremo così modo di godere di brani come l’ossessiva e nevrotica “Bone Machine” con l’ottimo lavoro della sezione ritmica, i riffoni di Santiago e la voce di Francis che volerà ovunque possibile, come della prorompenza sgraziata, tossica e liberartoria di “Gouge Away” e della demenziale “River Euphrates” con i suoi graffi Punk Rock (brani che manderanno il pubblico in delirio sotto il diluvio).
A pioggia terminata arriveranno due delle canzoni più meravigliosamente appiccicose e melodicamente irresistibili che la mia mente ed il mio cuore ricordino: la splendida, intensa e criptica ballata “Monkey Gone to Heaven” e l’adorabile Surf Pop di “Here Comes Your Man” coi loro ritornelli killer (durante la seconda quello che avrò davanti ai miei occhi sarà uno dei pubblici più puramente felici che mi sia mai capitato di vivere ed osservare nel corso di un live). Arriveranno ancora la coinvolgente “Levitate Me”, furioso e distorto mostro Pop Rock estratto dal disco d’esordio Come On Pilgrim, ed ancora il loro pezzo più sigificativo, col suo inesorabile riff, l’abrasiva ed allucinogena “Where Is My Mind?”, momento di puro delirio collettivo. Sarà grazie alla tenera demenza di “La La Love You” che godremo di un paio di minuti un po’ più calmi prima dell’arrivo della strepitosa, eclettica e appassionata “Vamos” dopo la quale la band, fin qui col pubblico niente più che qualche occhiata, arriverà al momento dei saluti, che saranno calorisissimi, un paio di minuti per un grande e reciproco abbraccio e finalmente anche qualche sorriso da parte del leader del gruppo. Non ci sarà bisogno di richiamarli sul palco, i Pixies dopo questa calorosa stretta torneranno immediatamente ai loro strumenti per far partire “Debaser”, ma cosa accadrà? Che Black Francis deciderà di bloccarla dopo pochi secondi quando tutti ormai stavamo godendo all’idea di gustarci quell’immenso brano, uno scherzo da prete più che da folletto che non andrà giù a me come credo a molti altri. Al suo posto la band suonerà “Planet of Sound” da quel Trompe Le Monde, ultimo capitolo della loro prima fase, che segnava il decorso della loro schizofrenia più accesa e accecante, per quanto l’episodio raccontato sopra dia l’idea di un cammino ancora lungo per una completa guarigione.
L’amaro in bocca, sì. Che poi sarebbe semplicemente bastato non farla partire quella maledetta “Debaser” no? E chi si sarebbe lamentato in fin dei conti? Fin lì era stato tutto così bello, certo con lei sarebbe stato perfetto, sì sarebbe mancata “Gigantic” ma la sua è un’assenza evidentemente giustificabile, l’altra no, non dopo averla attaccata. Comunque, provando a mettere da parte la delusione per questo finale, quello che si può dire è che questa band dal vivo goda ancora di ottima salute. L’istrionica voce di Black Francis ha ceduto qualcosa di molto vicino allo zero, i musicisti sono ancora in un grande stato di forma con una Lenchantin inseritasi perfettamente nel’anima di questo storico gruppo. Questi folletti sono stati dei giganti e lo sono ancora per quanto incredibilmente attuali suonino le loro composizioni, veramente una ventata d’aria fresca, ancora oggi, stupefacenti. Però, mio caro signor Charles Michael Kittridge Thompson IV, questo non la giustifica minimamente per quanto combinato nel finale, dunque sappia che personalmente, almeno per qualche giorno, non potrò fare a meno di odiarla.
Roipnol Witch – Starlight
Non è sempre facile scrivere delle recensioni. A voi probabilmente sembra una figata sputare sentenze nel bene o nel male su un progetto per cui qualcuno ha speso soldi, tempo, energie e sul quale, soprattutto ha messo la faccia. A parlar bene di un disco che entusiasma si rischia che poi quell’album faccia in realtà parecchio cagare ai più e si venga tacciati per venduti, per amici di amici di amici e qualsiasi altra porcata sotterranea possa giustificare un errore di valutazione così grossolano. Se se ne parla male, di media, l'”apriti cielo” è istantaneo e parte dalla band, dagli amici-fan della band e si conclude poi quasi subito lì da dove era partito dopo due o tre giorni di battibecchi e insulti social. Con il risultato che molte più persone ascoltano il lavoro in questione, per capire dove stia la ragione. Ammesso che di ragione si tratti. Perché è impossibile essere oggettivi nello scrivere una recensione. O meglio, per chi legge, è difficile essere ritenuti oggettivi quando si recensisce un disco.
Questo preambolo mi serve per mettere le mani avanti. Sì, ormai lo sapete già, suono in una band di sole donne. No, noi non l’abbiamo fatto un tour di presentazione dell’album. Perché no, in effetti non ce l’abbiamo un album. Viene da sé che no, non abbiamo un’etichetta discografica neanche piccola piccola. E sì, sarà impossibile per me farvi capire che quello che scrivo non è frutto di rosicamento, perciò se volete leggere fate pure, altrimenti fermatevi qui.
Le Roipnol Witch vengono da Carpi, in provincia di Modena. Sono tre donne più un maschio in realtà, una roba più alle Hole che non alle Savages. Ma su di loro si legge di movimento Riot, di all-female band, di rock in gonnella, di Rock With Mascara (che è un’idea meravigliosa che le ragazze hanno avuto – e non sono ironica – di unire tutte le band al femminile italiane e organizzare dei live itineranti per tutta la penisola, con scambio di contatti, di competenze, di passioni). Il movimento Riot Grrrl, lasciatemelo dire, era già morto quando Corin Tucker e Carrie Brownstein decisero di suonare insieme e fondare le Sleater Kinney. Ne avevano già le palle piene di essere intervistate in merito alla difficoltà di suonare in un panorama prettamente maschile o alla difficoltà di non contendersi il ruolo di prima donna con la compagna di band. Mamma mia. È difficile accogliere questo disco come una novità nel panorama musicale nostrano solo perché ci sono tre donne che suonano insieme in una stessa formazione (ma noi abbiamo già avuto i Prozac+, per citare solo una band antecedente con un organico simile). Non sarà (ancora!) discriminatorio concentrarsi sul genere nella promozione di qualcosa?
Dal punto di vista musicale, poi, Starlight non è la novità che aspettiamo (da un po’ e non certo e non solo dalle Roipnol Witch), ma è piuttosto un mix di influenze e di debiti artistici. Si va dalle sonorità New Wave della title-track “Starligt” al Pop-Punk degli anni Duemila di “Disagio” e “Oliver Tweet”; tra distorsioni contenute e registrazioni patinate (per un gran disco dal punto di vista tecnico ma ben poco sul piano artistico), si strizza l’occhio alla Berté in “Femme Fatale” e alle Plasticines di “Bitch” in “Be My Love”.
I testi sono alternatamente redatti in inglese o in italiano. Certo, nel 2016 è difficile trovare chi ancora non sa l’inglese e non riesce a capire un testo (per altro scritto da chi non è madrelingua e quindi non cede a slang e citazioni inafferrabili dagli stranieri), ma è evidentemente altrettanto difficile trovare nell’Alternative Rock un’attenzione per le liriche che non riduca il testo a mero espediente fonico (sempre che non si cada nella canzone di protesta dei soliti Zen Circus, Teatro degli Orrori, Ministri e compagnia). L’uso della rima, poi, come in “Non è un Paese per Artisti”, che poteva essere un pezzo davvero ben riuscito, diventa quasi un’irritante soluzione frivola per destreggiarsi nella grande difficoltà dell’accentazione piana della stragrande maggioranza delle parole della nostra lingua, un trattamento più alla Las Ketchup (o alle connazioni Lollipop!) che alla Au Revoir Simone. Per intenderci.
Il Rock femminile italiano continua, secondo me, ad essere debitore di un Rock al femminile d’oltreoceano che era già anacronistico quando è nato. Finché i coretti saranno di sexy Uh uh piuttosto che di contenuti, finché la leggerezza verrà scambiata per frivolezza anche da chi è parte attiva della composizione, finché mascara, minigonne e una rabbia senza agganci storici, senza il sostegno di testi di spessore continueranno a spadroneggiare in quella produzione che viene definita all female anche quanto la definizione non è proprio vera, si continueranno ad avere più Spice Girls che Carmen Consoli, in una dicotomia costante, per altro, tra suore e puttane. Si continuerà a notare più come si vestono queste ragazze per i live che ascoltare cosa vogliono dire. Ci si continuerà a stupire di vedere una donna suonare un basso e maliziosamente pensare anche magari alla bravura nel gestire un manico tanto lungo. Che pena.
C’è di che essere incazzate, come donne, senza doversi nascondere dietro al femminismo. C’è di che essere donne anche senza dover sculettare, di che farsi rispettare senza atteggiarsi necessariamente da streghe. E comunque, perdonatemi, se si vuole fare le suffragette, sarebbe bene avere, prima, qualcosa per cui combattere.