Modern Classical Tag Archive

Samuel – La cena del tempo

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Un gioco di sponda tra Torino e Venezia per l’ultimo multiforme lavoro della voce dei Subsonica.
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10 songs a week // 21.10.2021

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Bodega, Johnny Marr, Tusks e tanti altri nella selezione delle novità della settimana.
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Gian Marco Castro – Out of The Past

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Nove tracce di modern classical dal forte sapore nordeuropeo.
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Recensioni #21.2018 – Haiku Garden / Petrolio / Whispering Sons

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Recensioni #02.2018 – Korto / Martin Kohlstedt / Gil Hockman / Cup / Slow Nerve / Vinnie Jonez Band

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Recensioni | novembre 2015

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Max Richter – Sleep   (Modern Classical, Post Minimalist, 2015) 7,5/10

Capolavoro totale per il compositore britannico (lo trovate qui) che confeziona un’opera titanica la quale, anche per la durata che supera le otto ore, vuole essere realizzazione perfetta da assimilarsi durante il sonno. Disco dell’anno, se siete capaci di andare oltre le barriere del Rock e della forma canzone.

Ought – Sun Coming Down (Art Punk, 2015) 7/10

Secondo album eccelso per la band degna erede dei grandi Television. Tra le migliori e più originali formazioni Post Punk di ultima generazione, qui raggiungono il loro apice creativo.

Kathryn Williams – Hypoxia (Folk Pop, 2015) 7/10

Arrivata all’undicesimo album, la cantautrice britannica compone un concept ispirato al romanzo La Campana di Vetro della tormentata poetessa Sylvia Plath. Atmosfere soavi, minimaliste, ma di una notevole intensità. Da ascoltare in solitaria. Consiglio l’esilio su un’isola deserta.

Dhole – Oltre i Confini della Nostra Essenza (Post Hardcore, 2015) 6,5/10

Pregevole incastro di strutture sonore Post Rock e cantato Scream per questo quartetto lodigiano agli esordi, matasse di distorsioni da cui lasciarsi avvolgere mentre le liriche colpiscono violente. Un debutto meritevole di spazio nel consolidato panorama nostrano del genere.

Open Zoe – Pareti Nude (Pop Rock, Post Punk, 2015) 6,5/10

Carico di echi delle esperienze Alt Rock italiane anni 90 il primo disco di questa band veneta, armata di tradizionali basso-batteria-chitarra, a cui si aggiungono pochi tocchi di elettronica e un timbro vocale femminile che conferiscono un gusto catchy e contemporaneo al risultato finale.

Il Mare Verticale – Uno (Alternative Pop, 2015 ) 6,5/10

Non è semplice fare un bel demo. Bisogna essere esaustivi nel saper dar sfoggio di sé e delle proprie abilità compositive, senza strafare e risultare pesanti. E su questo Il Mare Verticale, con Uno, ha saputo davvero fare bene. Il disco apre con “Tokyo”, un brano Alternative Pop delicato, a cavallo tra Afterhours e sonorità Indie nordeuropee, che chiarificano subito timbri e accorgimenti che la faranno da padrone: arrangiamenti mai scontati per quanto perfettamente in stile, liriche (in italiano) trattate più come pretesto fonico che come significanti, atmosfera galleggiante e onirica, che sfocia naturalmente in “Non Luoghi”, con i suoi echi alla Radiohead. “Spuma” è forse la più italiana di tutto il lavoro della band romana, con richiami alla produzione di Benvegnù e Gazzè su tutti. Il disco chiude con “Elaborando”, che, quasi in maniera volutamente descrittiva, si connota in fretta come il brano più complesso tra i cinque, con i suoi ritmi marcati e il sound più cinematografico.

Prehistoric Pigs – Everything Is Good (Instrumental, Stoner, Psych Rock, 2015) 6,5/10

Distorsioni e spazi immensi, sabbiosi e oscuri. Un viaggio interminabile (otto brani per quasi un’ora di musica) tra i più desolati deserti  descritti da un trio non sempre impeccabile e fantasioso, ma che cerca perennemente il suo suono, incastrando la chitarra di Jimi Hendrix nel caldo torrido dell’Arizona. Peccato manchi la voce, avrebbe potuto dare maggior senso e maggiori vibrazioni a questo serpente sporco, vorace e velenosissimo.

La Casa al Mare – This Astro (Dream Pop,  Shoegaze, 2015) 6,5/10

Viene da Roma il terzetto che compone La Casa al Mare, con sonorità che non posso che richiamare subito una certa produzione Pop anni 80: voci indietro sullo sfondo, chiamate a far le veci di un vero e proprio strumento aggiunto, chitarre quasi prepotenti, seppure senza giri virtuosistici, effetti trasognani e riff ariosi e cantabili. This Astro apre con “I Dont’ Want To” che per i primissimi venti secondi sembra richiamare quasi gli Smashing Pumpkins e poi cede il passo allo Shoegaze in “Sunflower” e “M, particolarmente interessante per le aperture armoniche e il trattamento della dinamica. La mia preferita del disco risulta però essere “At All”, che suona come un brano degli Indiessimi Yuck. La costruzione dell’impianto sonoro cambia leggermente in “Tonight or Never”, in cui ogni elemento emerge con una brillantezza che sembrava mancare nelle tracce precedenti. L’EP chiude con “CD girl”, una traccia à la Raveonettes o My Bloody Valentine. Nulla di nuovo dunque, ma neppure qualcosa da cui rifuggire come la peste.

A Copy for Collapse – Waiting For (Electronic Synth Gaze, 2015) 6/10

Interessante duo barese che si muove agevolmente sulla via dei vari Telefon Tel Aviv, Mouse on Mars e The Postal Service. Qualche richiamo alla Dance Music poteva essere evitato. Sound anni 80 per chi non è fanatico degli anni 80.

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These New Puritans – Field Of Reeds

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Marcus Fjellström – Epilogue M Ep

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Nato nel 1979 a Luleå, nella provincia di Norrbottens län in Svezia, il giovane artista e compositore ha presto intrapreso la difficile strada di una musica ineffabile e con notevoli difficoltà a far breccia nelle anime delle diverse tipologie di pubblico. Dall’esordio full lenght del 2005 di Exercises In Estrangement, album Electroacoustic il cui l’ultimo pezzo ha titolo italiano (“Campane Morti e Acqua Crescente”), passando per l’evoluzione Experimental e Dark Ambient di Gebrauchsmusik, fino alle conferme stilistiche e Modern Classical di Schattenspieler e gli eccessi di Library Music 1 (i cui diciotto brani non hanno un vero titolo e vanno da “LM-101” a “LM-118”) le sue realizzazioni sonore hanno affascinato sia per la commistione della parte orchestrale con quell’elettronica sia per la presenza di preziosismi visivi. Nonostante la sua musica si presenti come elaborata, complessa e strutturata, Marcus Fjellström, ora trasferitosi in Germania, non ha mai trovato il favore del pubblico italiano (più confacenti le scene nordeuropee e certamente l’ascolto vi aiuterà a capire perché) ma ora vuole provarci, sulla scia delle grandi sperimentazioni teutoniche che stanno interessando anche il pubblico nostrano (vedi Teho Teardo & Blixa Bargeld), pur non adattandosi al caldo clima mediterraneo ma sempre attraverso note fredde, taglienti, inquietanti e oscure.

La giovane età e lo scarso interesse della platea italiana non facciano però pensare a un artista inesperto e dal magro curriculum. Diverse sono le sue collaborazioni (Swedish Royal Ballet, Scottish Chamber Orchestra) intavolate dopo aver studiato composizione e orchestrazione presso la Scuola di Musica di Piteå e aver conseguito il diploma e svariate sono le opere audiovisive da lui realizzate. I sei pezzi di Epilogue M, comprovano tutta la saggezza di Marcus Fjellström e portano a compimento un processo di decostruzione e ricostruzione sonora tesa a unire gli opposti, elevando gli elementi più superficiali e popolari della musica elettronica e abbassando a un grado più accettabile dalle masse, quelli nobili e raffinati propri della musica classica. Una sorta di fusione, sempre in chiave Avantgarde e sperimentale, sulla scia dei maestri come György Ligeti e John Cage, tra classicismi moderni di Bernard Herrmann, Angelo Badalamenti e Zdeněk Liška e l’elettronica e l’IDM di Aphex Twin e Autechre.

Non è certo il capolavoro di una vita, né sarà il disco che farà da colonna sonora ai vostri giorni più felici; non è un traguardo originale visto che tanti hanno provato la stessa strada, da William Basinski a Jóhann Jóhannsson passando per tantissimi altri anche in ambito Soundtrack ma Epilogue M è comunque un’intelligente conferma per un artista ancora da scoprire. Chi di voi non ama ascoltare la musica classica nel vero senso del termine, quella di Bach, Mozart o Beethoven ma ha interesse a scoprirne il lato oscuro e sperimentale troverà in Marcus Fjellström un ottimo spunto.

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Bruno Bavota Ensemble – La Casa Sulla Luna

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La copertina di questo album fatta da disegni semplici, colorati con colori primari, in primis un bellissimo blu notte, e un musicista che con il suo pianoforte raggiunge la luna, mi ha riportato alla mente quando da piccola lessi il Piccolo Principe. Quel musicista che cavalca la nuvola della musica è Bruno Bavota, pianista e compositore partenopeo che nel 2013 esce con il suo secondo album La Casa Sulla Luna, per la Lizard Records.

La Casa sulla Luna è un album di nove tracce strumentali, dedicate nella maggior parte dei casi alla signora luna. “Ho comprato casa sulla luna, qui non ci sono oceani da solcare ma crateri da riempire.  Ho comprato casa sulla luna, qui non c’è suono. Come un ruscello canto la mia melodia alla notte”. La luna e la notte che da anni e secoli sono le protagoniste più gettonate non solo della storia della letteratura ma anche della musica, continuano ad esserlo anche nel 2013 e non stupisce che un giovane e romantico compositore possa aver ceduto al loro fascino. Al fascino di una melodia malinconica e di un pianoforte senza tempo, che però il tempo ce l’ha eccome e non solo uno preciso di metronomo ma un tempo di un determinato momento storico musicale, quello minimale/contemporaneo, a cui paragonarlo. Si potrebbero fare dei nomi, come lo stesso Bavota fa sul suo profilo Facebook e sulle sue biografie: Ludovico Enaudi, Roberto Cacciapaglia, Giovanni Allevi …ah no questo non era citato, ma può sempre saltare alla mente anche se cosa abbastanza scontata.Ritornando al disco, “un viaggio musicale della durata di 36 minuti”,  potrei dire che uno dei pregi è sicuramente il bel timbro dello strumento principale, un pianoforte Steinway&Sons model D-274, e il piacevole impatto che l’orecchio ha con tutti i nove brani. Brani romantici, malinconici, sereni, a seconda del momento, utili per fare da sottofondo a foto di ricordi romantici (magari anche di qualche ex che vuole farsi del male). Piacevoli anche e soprattutto i brani dove il pianoforte duetta con il violoncello di Marco Pescosolido e il violino di Paolo Sasso. Dall’album è stato anche estratto un singolo che poco tempo fa è diventato video ufficiale e si tratta di “Amour”, girato nella stazione londinese di St. Pancras. “Un pianoforte risuona in solitudine tra pochi passanti.Là dove, tra addii, rincorse e sguardi fugaci tra passanti indifferenti, gli amanti si stringono forte l’un l’altro…”.

Tutto gradevole ma qualche interrogativo può saltare in mente. Del tipo: perché con uno strumento così potente come il pianoforte, che per secoli ci ha abituati a Bach, Mozart, Beethoven, questo giovane musicista non si spinge oltre? Oltre il limite del suono, dell’armonia e di ciò che è conosciuto? Perché si ferma nell’atmosfera scontata di suoni e di melodie già un po’ sentite? Per quale motivo dovrebbe essere ricordato? Nonostante i tempi che corrono, le industrie musicali, il sempre più fiorente moltiplicarsi di gruppi, musicisti e album, e l’estrema facilità che si ha oggi nell’ascoltare musica, l’ascolto vero, studiato che diventa piacere assoluto rimane sempre cosa difficilissima. Infine è pur vero che nell’assoluto c’è il bisogno di avvicinare i giovani alla musica classica, ma non bisogna sempre farlo con la pappa pronta alla mano, anzi all’orecchio. Nonostante queste mie riflessioni, certamente scaturite dall’ascolto de La Casa Sulla Luna (e questo lo inserirei nella lista dei pregi), rimane un lavoro gradevole e ben suonato.

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