Mogwai Tag Archive
Atom Made Earth – Morning Glory
A distanza di due anni da Border of Human Sunset tornano i marchigiani Atom Made Earth con il loro Progressive 2.0.
Ambient, Post Rock e Psichedelia si rincorrono in Morning Glory, uscito il 7 Gennaio 2016 per Red Sound Records e album che si allaccia all’episodio precedente per stile e scansione ma che segna una decisa falcata in avanti per la band.
Quando si va a ficcare il naso nell’enorme calderone del Post Rock si rischia spesso di bruciarsi, andando ad incensare lavori che, seppur qualitativamente validi, peccano enormemente di originalità e personalità. Tutto questo è l’esatto contrario di ciò che gli Atom Made Earth trasmettono ad un primo, superficiale, ascolto. Il sound è vario e balza sapientemente tra un’epoca e un’altra senza sbavature. Dalle tiratissime ed esplosive atmosfere in stile Explosions in the Sky e Mogwai di “Thin” e October Pale si passa a “Reed” al cui interno respirano chiaramente i Public Service Broadcasting. Ma è con estrema scioltezza che i ragazzi sanno tornare agli anni ’70, quelli che hanno visto nascere il genere: dagli Arti e Mestieri o Area di “Baby Blue Honey” si passa a certe suite stile Colosseum/Caravan di “Stac”. La lista di reminders potrebbe allungarsi ma ciò non toglierebbe freschezza all’album, solido del suo personalissimo trait d’union progressivo.
Andando più a fondo, però, ci si accorge che la volontà della band anconetana non è quella del mero esercizio di stile o quella di compiacere i maestri quanto piuttosto quella di creare un proprio linguaggio adatto ai complicatissimi anni ’10. Parlare ancora oggi di Progressive classico sarebbe anacronistico e gli Atom Made Earth ne sono consapevoli perciò decidono che la creazione di nuove tematiche debba ripartire proprio da un’epifania come la gloria del mattino, in qualunque accezione la si voglia interpretare.
Lo stile a cavallo tra varie decadi trova una nuova via d’uscita in un Post Rock da soundtrack che ben si adatterebbe, per restare fortemente attaccati al presente, ad una serie televisiva americana.
La strada è lunga ma il bagaglio è ben pieno. Sentiremo parlare di loro.
Winter Dust – Thresholds
Quattro canzoni, quattro potentissime scosse telluriche che si insinuano sotto pelle e bruciano fino a far ribollire il sangue nelle vene. Ecco una piccola sintesi di cos’è Thresholds, nuovo EP dei padovani Winter Dust. Non avranno la delicatezza ammaliante dei Mogwai, ma in loro resta intatto lo spirito evocativo del Post Hardcore di Cave In o Pelican. “There” è il battesimo che non ti aspetti con questa realtà musicale: paesaggi martoriati che rifioriscono per poi appassire nuovamente, il cui concime sono le liriche urlate da Marco, che non mostra neppure un briciolo di autocontrollo. “Acceptance” ci fa capire che non c’è fine alla disperazione, mentre la terra si sgretola sotto i nostri piedi e l’Apocalisse festeggia intorno a noi. Il pianoforte corre a darci soccorso ed è come uno spiraglio di luce che fende le tenebre. Ecco che “Let the Morning In” ricostruisce il mosaico di un mondo devastato, corrotto dalla piaga della deriva. E’ un salmo viscerale, emozionale, fondato su una melodia solenne, è una sorta di “Inno alla Gioia” di Beethoven in chiave Post Rock. L’epilogo avviene con “Elsewhere” ed è un’ennesima carica di emozioni contrastanti: la calma, la pace fugace, le insidie della discordia, la purezza di un disco che non conosce limiti e manda in frantumi diversi clichés legati alla nostra Patria. Quattro canzoni, una moltitudine di brividi.
Like a Paperplane – Unfolding Light
Avete mai passato un pomeriggio d’estate distesi in un campo di grano guardando le nuvole danzare veloci nel cielo? Ecco, quella è l’immaginazione. Aspettate un secondo. No, non è quella l’immaginazione. Quella è la cartolina, l’idea di immaginazione che potrebbe scaturire da uno spot della mulino bianco. Quella è la definizione dell’immaginazione fornita dai Like a Paperplane. Quella non è l’immaginazione ma un luogo comune. Lo stesso che pare essere la musica contenuta in Unfolding Light quando si autodefinisce Instrumental /Post Rock. Un gigantesco e noioso e anche un po’ raffazzonato luogo comune sul genere oltretutto reso da una registrazione ovattata, con suoni non degni di paragoni lodevoli con illustri colleghi, stranieri e non. Dieci pezzi per la giovane formazione fiorentina che riprendono la tradizione Post Rock di God Is an Astronaut, Explosion in the Sky e Mogwai senza provare minimamente a scostarsi dal vecchio solco ormai tracciato e polveroso, anzi ridisegnandolo in maniera ancor più confusa e grossolana. Scusate le mie poche parole ma il Post Rock è altra cosa; almeno io immagino che lo sia. Così come vagheggio che l’immaginazione sia altra cosa rispetto allo stereotipo d’un pomeriggio d’estate passato distesi in un campo di grano guardando le nuvole danzare veloci nel cielo. L’immaginazione è sognare e fare di tutto per realizzare i propri sogni. L’immaginazione è ciò che ci rende liberi e schiavi al tempo stesso. L’immaginazione è la capacità di prevedere il futuro e sistematicamente sbagliare; ma in fondo, anche queste sono enormi stronzate.
Plus Plus – Psycho
Decisamente non artisti di primo pelo questi Plus Plus, che con Psycho giungono al terzo disco dopo Evils del 2010 e Game Over del 2011. Nella loro biografia si legge che hanno origini inglesi ma che attualmente risiedono in Giappone. E certo è che la loro ultima fatica risente di un certo sapore internazionale, declinato lungo tutte le otto tracce interamente strumentali. Il disco, tutto sommato di durata contenuta, si apre con “This is Based Upon a True Story”, raffinata e solare, dettaglio che contrasta subito con la mia aspettativa, del resto assolutamente ingiustificata, di toni sommessi e atmosfere cupe. La sensazione prosegue con “Jail”, un richiamo all’Alternative Rock romanticone stile Coldplay, etereo e impalpabile, nel quale forse solo la reiterazione di una brevissima cellula melodica dà l’impressione di essere imprigionati. “Piano Song”, vuoi per il nome, è vagamente debussyniana. Ma non solo. Impossibile non ricordarsi subito del leggero tocco Pop pianistico di Yann Tiersen, ad esempio. Le sonorità cambiano leggermente, pur restando acustiche, nella successiva “Dieter Rams”, introdotta dalle corde pizzicate, incaricate di marcare il ritmo e definire la condotta armonica, ricreando un tappeto sonoro adatto ad ospitare, nuovamente, il timbro del pianoforte. Atmosfere visionarie, suggestioni più lisergiche che psicotiche, come vorrebbe invece suggerire il titolo, caratterizzano la traccia che dà anche il nome all’album, “Psycho”: espedienti strumentali che sembrano essere impiegati come musica colta descrittiva, finendo con pochi mezzi esaurienti, per costruire una perfetta scena sonora notturna.
E con la traccia numero sei, “Gentle Man”, la più lunga di tutto il disco, con i suoi cinque minuti e più, capiamo di essere davvero di fronte a fortunati e talentuosi eredi di artisti come Mogwai o Explosion in the Sky. “Plantopia”, a dispetto del nome, ha un non so che di marino: le sonorità sono ovattate e dilatate allo stremo, il tempo si congela in un vuoto capace di circondare e avvolgere l’ascoltatore, esattamente come ritrovarsi immersi nell’acqua circondati dal nulla, eppure sfiorati da tutto. Psycho chiude con “The Rolling Hills of England”, che forse è un richiamo alla terra natia, al passato epico e glorioso e dignitoso dell’Inghilterra che il titolo cita, come si percepisce dai movimenti melodici medievaleggianti che puntellano l’intero brano. Nel complesso è un album davvero ben fatto e che vale la pena ascoltare. Consigliatissimo.
Pertegò – Stations
Credevo che la musica proposta dai Sigur Ròs fosse un prodotto puramente islandese, di quelli inimitabili ed inarrivabili. Credevo che fosse tutto frutto dell’atmosfera e dei paesaggi che lì Madre Natura è solita servire. Dell’aurora boreale, dei ghiacci che si sciolgono e del silenzio che li avvolge. E invece non è solo Reykjavik a fornire il contesto giusto per la nascita di una sonorità tanto idilliaca quanto misteriosa. Viaggiando verso sud, infatti, a circa 2900 km di distanza, è possibile imbattersi in un gruppo di ragazzi che sembra aver tutta l’intenzione e le carte in regola per dir la propria a colpi di Post Rock. Siamo a Piacenza ed è qui che nascono i Pertegò. Sono Khristian, Emanuele, Alessandro e Marco, uniti dalla passione per il northern-ambient sound. Il disco oggetto d’esame è il loro quarto lavoro, preceduto in ordine da Snow Behind the Enemy Lines, Hjarta Rad e Hjarta. Il titolo è Stations ed i nove capitoli che lo compongono sono tutti, senza eccezioni, degni di ripetuti ascolti.
Siamo innanzi ad un lavoro quasi pienamente strumentale. Un lavoro che sin dalle prime note di “Lula” mostra tutto il suo potenziale. La voce si fa sentire a tratti, incomprensibile ed indistinguibile, quasi a volersi dissolvere tra le composizioni e fondersi con la musica. Lo stile è esattamente quello adottato da Jònsi, ma molto più timido ed imbarazzato, introverso. Si staglia su ritmiche lente ed effimere, che un attimo dopo sembrano non esserci più. Le track successive sembrano conservare lo stesso ideale naturalista e la stessa indomabile determinazione. Ogni traccia sembra voler mostrare qualcosa, un paesaggio mozzafiato che dura soltanto un istante e che non si fa in tempo ad immortalare. Tutto intorno al disco un’aura di tristezza, malinconia e voglia di libertà. La title track fa da portavoce a tali considerazioni, ripescando sonorità Ethereal Wave degne di Enya e cori alla Lisa Gerrard e donando in chiusura tonalità più aggressive, riconducibili ad una spiccata vena Mogwai. 11’35’’(che non annoiano di certo) incuriosiscono attraverso sapienti cambi di stile e di personalità, passando in rassegna la scala delle emozioni e facendo vibrare tutte le corde fastidiosamente ed insistentemente. Ma lo stesso si potrebbe dire di episodi quali “A New Horizon”, “Wave Function Collapse”, “The Descendent”… Insomma, siamo innanzi ad un disco che va ascoltato tutto a luci spente e senza pausa, che ha in serbo colpi bassi e frustranti faccia a faccia con sé stessi. Vorrei riuscire a muover critica al lavoro svolto dai Pertegò, qualcosa di costruttivo, qualcosa in grado di spronarli a continuare a far musica. Potrei dire che sono un’emulazione dei Sigur Ròs, che sono un mix di tanta musica già masticata, che sono troppo introspettivi, che sono superati e che sono lenti. E tutte queste considerazioni sarebbero tutte quante sincere. Ma la verità è che sono esattamente ciò che avrei voluto ascoltare, ciò a cui avrei voluto lavorare. Credo che i Pertegò siano di quelle band consapevoli, senza pretese, ricche di difetti, ma che sappiano farsi amare concentrandosi sui loro pregi. Questo è come li descrivo io. Loro amano descriversi così: “Pertegò luogo di rara bellezza sperduto al culmine della valle, aria di altri tempi, luce forte a accecante, acqua di fonti pure, terra e paesaggio a tratti rigoglioso e altre volte crudo e desolato. Questo sono i Pertegò che raccontano storie su una natura ancora libera, raccontano il loro mondo fatto da cose semplici e dalla natura che li hanno creati”.
Primavera Sound Festival 2014 | Day3
(Un ripasso dei giorni precedenti? Subito accontentati Day 1 e Day 2)
Quindi, ricapitolando: niente panico, respirate a fondo, non bevete troppo perché tanto per l’occasione l’Heineken sfodera birra analcolica e ve la spaccia per normale (alla sesta 0.5 ero perfettamente sobria) e portatevi tanto cibo quanto ve ne metteva la mamma nello zaino per mandarvi in gita alle medie, altrimenti in quei tre giorni nutrirvi vi costerà più dell’abbonamento vip. Ah, e considerate la possibilità di prendervi almeno una giornata tutta per voi. Se non siete inclini a soffrire la solitudine avrete modo di seguire ogni inconfessabile istinto, che vi porterà da artisti che in principio non avevate considerato o che i vostri compagni di festival boccerebbero categoricamente. Dico addio alla mia crew sabato pomeriggio, quando dopo un quarto d’ora di performance dei Television gli altri se ne vanno in blocco dalle Dum Dum Girls. Avrò il diritto di incazzarmi se a un tratto mi bussano su una spalla ridestandomi da una specie di goduriosa trance per dirmi “oh, noi andiamo al Pitchfork, che ci sta la figa”? Dell’articolo in questione non me ne intendo, e in ogni caso niente mi porterà via da quest’atmosfera, che se chiudo gli occhi sparisce tutto il grigio, quello dell’asfalto del Forum e anche quello che con una punta di tenerezza osservo sulla testa di Tom Verlaine, e in un attimo mi ritrovo catapultata nel verde di anni su cui posso solo fantasticare, quelli dei festival a piedi nudi sull’erba e giovane New Wave tonificante nelle orecchie. Ho detto proprio tenerezza? Sì, l’ho detto. È che queste reunion, per quanto eccitanti, rischiano di risultare anche un po’ dissacranti. Ad esserne testimoni si corre il pericolo di intaccare irrimediabilmente quell’alone di mito che circonda le formazioni storiche. Forse dovreste starne alla larga se siete come me e vi assale l’ansia di fronte all’evidenza del fatto che il tempo passa anche per le cose che ci sembrano eterne.
Un artista intimista e profondo come Caetano Veloso mi sembra così fuori contesto che non posso fare a meno di andare a dare un’occhiata. Dal Sony al Raybanè una traversata infernale di un paio di chilometri in mezzo a una folla multietnica e barcollante. Arrivo sulle note di “Parabéns”, mentre Veloso accenna movenze di danze tropicali d’oltreoceano e riempie l’etere della sua personalissima reinterpretazione Pop delle sonorità della Bossa Nova. Attorno a lui, quattro tele su altrettanti cavalletti, dipinte con semplici tratti geometrici, e virtuosismi Classic Rock che si conformano alla tradizione musicale brasiliana e la rinnovano stando bene attenti a non tradirla. Nota per gli scettici che hanno letto il nome di Veloso in cartellone storcendo il naso: è l’ennesima conferma del fatto che chi stila la line up di questa rassegna non sbaglia un colpo, consentendo nella stessa giornata un assaggio di moltissimi degli infiniti sapori che la musica sa assumere. Nonostante sia gremito, il Rayban è la location più gradevole e accogliente tra i palchi del Primavera. Spezzo il ritmo serrato da festival e prendo fiato seduta sulla gradonata, assorta tra migliaia di sconosciuti che hanno il mio stesso sorriso. La maggior parte di loro non capisce una mazza delle splendide liriche in portoghese ma questo non sembra affatto ostacolare l’empatia tra loro e gli altri, quelli che ondeggiano a ritmo in modi che la natura consente solo ai popoli di sangue latino.
Torno indietro mentre gli Spoon sono ancora sul palco Heineken. Il loro Pop Rock scanzonato e versatile non mi dispiace affatto. Quale occasione migliore di questa per i texani per sfoderare un assaggio di quello che sarà il nuovo disco che uscirà quest’anno? “Rainy Days” viaggia sul ritmo sostenuto che avevano molti brani di GaGaGaGaGa, come l’accattivante “The Way We Get By”. Britt Daniel sfoggia una camicia rosso fuoco e le sue tonalità roche, riempie il palco e intrattiene la bolgia in pieno happy hour (ce l’ho anch’io una birrozza in mano, ci vorrà ancora qualche ora prima che mi accorga della truffa analcolica di cui sopra). Segno un punto a mio favore quando ritrovo i miei amici che mi confermano che saltando le Dum Dum Girls non mi sono persa nulla. A quanto pare non basta, perché non riesco a convincerli a seguirmi al Sony, dove tra poco si esibiranno i Volcano Choir. A causa della pioggia incessante di ieri, la zona centrale della prima fila è invasa da una specie di stagno. Con i miei anfibi a prova di lotta nel fango mi ci piazzo comodamente, in compagnia di tre inglesi scalze e felici che la security non si sia accorta del loro Jagermeister & orange occultato nei contenitori del deodorante. Non so se sentirmi più cretina per non averci pensato o più elevata culturalmente nel ritenere in ogni caso che vaporizzarsi dell’alcool in bocca piuttosto che sorseggiarlo sia l’equivalente dell’accontentarsi di una flebo al posto di un piatto di gnocchi. Fuckingchoosyitalians! I Volcano Choir sono la declinazione di Justin Vernon che meglio si intona ad un sabato inoltrato. Questa faccia del poliedrico artista del Wisconsin è quella che personalmente preferisco, nuova creatura sperimentale e destrutturata che mantiene il mood intimo del lavoro firmato col moniker Bon Iver ma che gli conferisce tutt’altra energia. Justin canta dall’alto di un pulpito di legno da politicante, dietro al quale nasconde vocoder e tutto ciò con cui smembra e riassembla la sua voce, in un risultato corale, scenico e ipnotico. La giustapposizione di campionamenti e chitarra classica regala struggimenti da ballad ed episodi dance con la stessa naturalezza. Un’ora di performance vola via sulle note di Repave e del precedente album e si conclude emblematicamente con “Still”, riarrangiamento di un brano contenuto nell’EP Blood Bank firmato Bon Iver, in cui Vernon aggiunge alla versione originale tutta la ricchezza di suono seminata e raccoltanel suo percorso artistico.
Sono ancora in tempo per i GodspeedYou! Black Emperor, che già da un po’ sono sul palco ATP, il che significa ripetere la traversata di prima in senso opposto e di corsa (è solo la terza delle molte altre volte che verranno). Arrivo convinta di avere ancora mezz’ora di set da gustarmi e invece i GY!BE sono già all’ultimo pezzo. Mi sono persa una roba grossa. Maxi schermi spenti, illuminazione al minimo, è un’atmosfera minimale solenne, davanti a un pubblico composto e senza smartphone in mano. Loro sono seduti in cerchio, in una session intima che ha le sembianze di un rituale piuttosto che quelle di un live, apocalittico tra percussioni dall’incedere lento e fiati dal sapore Folk. Mi ritrovo così un buco nero imprevisto nel bel mezzo del sabato sera, la prima volta negli ultimi tre giorni in cui non so che fare. Mi addentro in quell’area ben circoscritta ai piedi del pannellone solare del Forum in cui finora non ho mai messo piede, quella specie di riserva protetta per esemplari di hipster che è la zona Vice-Pitchfork. Qui i frequentatori assidui si dividono in due categorie. I primi sono quelli che boicottano per partito preso l’area Sony-Heineken, che una legge non scritta ha bollato come mainstream, e si farebbero cavare un occhio piuttosto che assistere alla consacrazione commerciale degli Arcade Fire. I secondi sono qui a cazzeggiare in attesa di qualche reflex che li immortali, perché questo è il luogo in cui la probabilità di incappare nel fotografo di street fashion di turno è più alta (se poi nell’attesa c’è un sottofondo musicale, tanto meglio). Sul palco Vice ci sono i Cloud Nothings. Un quarto d’ora di Indie Pop senza grossi salti mortali scorre via abbastanza trascurabile mentre sono in fila per fare pipì. È un breve attimo di tregua, appena uscita dal cesso chimico mi torna la febbre da festival. Ho un appuntamento importante qui all’ATP tra circa mezz’ora e farei bene a trovarmi un angolino adeguato tra una folla che già si addensa ai piedi del palco, ma con quale faccia potrei tornare a casa e confessare che per mettermi comoda ho rinunciato completamente ad assistere alla performance dei Nine Inch Nails? Tra andata e ritorno saranno altri 5 km a piedi, ma tanto oggi s’è capito che bisogna trottare quindi amen, colleziono altri dieci punti-gioventù e torno al Sony. Tra una folla già compatta mi ritaglio uno spazietto ad almeno un centinaio di metri dallo stage, ma quando Trent Reznor e soci salgono sul palco e partono i bassi il suono mi vibra nel petto come se fossi accanto alle casse. Un animale da palcoscenico oscuro e sensuale monopolizza le migliaia di occhi al suo cospetto, sovrastato da un impianto luci mastodontico. Il sound ibrido e spasmodico dei NIN dal vivo è qualcosa di cui ubriacarsi almeno una volta nella vita. La setlist è dalla mia parte. I quattro brani che ascolto prima di correre via sono un’ottima sintesi di tutto quello che sono i NIN. Reznor appare dal nulla, tra una nube di luce blu, sui ruggiti sintetici di “Me I’m Not”. Poi l’Industrial tribale di “Sanctified”, e la tiratissima “Copy of A” del nuovo Hesitation Marks. Vibro insieme alla scarica di chitarre di “The Day the World Went Away” per poi correre via di nuovo. Rovinarsi il karma così, a metà, lo so, è una merda, ma lo show che mi aspetta ora non avrà nulla da invidiare a questo in quanto a potenza, fisica ed evocativa, di quella che ti imprime ogni dettaglio nella mente e rende un’esibizione indimenticabile. È la mia prima volta coi Mogwai.I tipi in questione non li assimili finché non assisti in prima persona ad un live. Ciò che i Mogwai sono in grado di sprigionare dal vivo è qualcosa che nessun supporto fisico inciso è in grado di contenere. Sul palco, in bella vista, la bandiera della Catalogna. Luci soffuse accompagnano la pioggerella di synth di “Heard About You Last Night”, nel lento e cadenzato incedere delle percussioni. Sono già senza fiato. Non è solo una questione di volume esagerato, l’aria graffiata dalle chitarre di “I’m Jim Morrison, I’m Dead” ti scava il petto. Le note sussurrate di “Ithica27ø9” ammaliano con grazia per poi stringerti in una morsa, in un gioco che accelera e decelera per poi esplodere. Melodiose catarsi generate dal violino di Luke Sutherland mutano in barriere di suono dense che investono, tanto che ti viene da puntare bene i piedi a terra per non correre il rischio di essere spazzato via dai poderosi riff. C’è spazio anche per i primissimi Mogwai di “Mogwai Fear Satan”, groviglio di suono elettrificato ed elettrizzante. L’oscura “Deesh Rave” è viscosa ed enfatica con Sutherland alle percussioni, di spalle, con la solennità di un rito tribale. “Remurdered” è una bomba sintetica, su quella linea che lega tutto Rave Tapes, il synth che a un tratto parte in loop è gia inconfondibile. Con poche parole i Mogwai ringraziano il pubblico e il Primavera per la gentile concessione di poter suonare in presenza dei GY!BE. Poi chiudono con “We’re No Here”, terrificante nell’incedere del suono che si tramuta in totale delirante distorsione che dura svariati minuti e ci lascia storditi ed estasiati.
Ancora un grazie al Primavera che bilancia set epici con rigeneranti performance di decompressione. Dopo aver saltato tutti gli altri appuntamenti coi connazionali presenti alla rassegna, mi concedo una sosta all’Adidas per un paio di brani dei Junkfood, che dopo la turbolenza che mi ha appena investita sono esattamente quello di cui ho bisogno. È un piccolo stage accogliente di fronte al mare, sul quale il quartetto italiano espone tutta la propria ardimentosa impresa compositiva, un Alt Jazz destrutturato che è uno dei frutti migliori del panorama nostrano degli ultimi due anni. Big Jeff sembra essere d’accordo con me, accennando col suo testolone riccio un headbanging da metallaro improprio quanto coinvolgente (Big Jeff chi?). Recupero i miei amici al set dei Foals all’Heineken, dove il pubblico sembra avere ancora tutte le forze per scatenarsi su questo raffinato Math Rock mentre io sono ormai all’ultimo stadio delle mie capacità motorie. L’ultima traversata del recinto del Forum è verso l’uscita. Di passaggio di nuovo all’ATP, l’Indietronica dei Cut Copy non riesce a convincerci a restare oltre un paio di pezzi.
È stata una gran bella storia. ¡Adiós, Barcelona, hasta el próximo año!
Rockambula al Primavera Sound, Day 3 (giovani e soddisfatti)
Ultimo intensissimo giorno (guarda Day 0, Day 1, Day 2). Dal CBGB al Forum di Barça, una pietra miliare del Rock, Marquee Moon dei Television.
Doveroso presenziare alla performance di Caetano Veloso sullo stage Rayban, per tornare poi all’Heineken dagli Spoon.
Justin Vernon in versione sperimentale e destrutturata, i Volcano Choir.
Giusto in tempo per ascoltare l’ultimo pezzo dei Godspeed You! Black Emperor. Poi allo stage Vice per i Cloud Nothings.
Una scelta difficile dopo l’altra. Dopo un paio di brani sono costretta ad abbandonare lo stage Sony e i Nine Inch Nails.
Scelgo il live dei Mogwai, dall’inizio alla fine, e non me ne pento affatto.
Dopo aver dovuto rinunciare ai C+C=Maxigross, un moto di campanilismo mi porta dagli italiani Junkfood, e i ragazzi non se la cavano affatto male.
Il Math Rock dei Foals all’Heineken stage.
Giusto il tempo di saltellare un po’ sull’Indietronica dei Cut Copy ed é ora di andare. Hasta luego Primavera!