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Rockambula vi racconta il Primavera Sound in diretta. Noi ci saremo!

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Da giovedì 29 a sabato 31 maggio torna l’appuntamento ormai consueto al Parc del Forum con quello che è uno dei festival più importanti d’Europa, il Primavera Sound Festival di Barcellona. Dalla prima edizione del 2001 al PobleEspanyol di una sola giornata e una line-up che contava una decina di artisti si è passati negli anni alla formula della tre giorni, che propone in totale oltre 200 live show, e ad una seconda edizione in Portogallo, nella cornice della città di Porto. Il Primavera Sound si è contraddistinto negli anni per una proposta musicale eclettica che lascia spazio agli amanti di ogni genere, con un occhio di riguardo per le novità degne di attenzione, che in ogni edizione hanno affiancato grandi nomi quali Patti Smith, Wilco, Nick Cave, Neil Young, My Bloody Valentine, PJ Harvey, Pet Shop Boys, solo per citarne alcuni.

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Quest’anno, per quanto riguarda i soli headliner, si esibiranno Arcade Fire, Pixies, Nine Inch Nails, Mogwai, Queens of The Stone Age, The National, Slowdive, Caetano Veloso, Kendrik Lamar. Anche per quanto riguarda gli eventi musicali Barcellona si conferma un contesto mediterraneo atipico, per la capacità di gestire un evento paragonabile a Glastonbury o a festival d’oltreoceano del calibro di Lollapalooza e Coachella, ma soprattutto per la volontà di investire in eventi culturali come questo, imprescindibili per poter comprendere l’evoluzione del panorama musicale mondiale. Quest’anno Rockambula presenzierà all’evento, a partire da mercoledì 28, giornata in cui il palco ATP sarà già attivo e tra gli altri si esibiranno i Temples, una bella rivelazione del 2014. Gli eventi collaterali al festival inizieranno infatti da oggi e dureranno fino a mercoledì 4 giugno, nei club della città catalana e al Forum stesso. Nei giorni del festival cercheremo di districarci tra gli undici spazi in cui si susseguiranno le performances, nel tentativo di raccontarvi il più possibile di ciò che l’edizione 2014 del Primavera Sound offrirà. In attesa di un intenso live report, seguiteci sulla pagina facebook di Rockambula per aggiornamenti in tempo reale e testimonianze fotografiche dei live show!

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Dopo i THE NATIONAL arrivano i MOGWAI al Siren Festival

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Mogwai, tra le formazioni Post Rock più influenti degli ultimi decenni, reduci dall’uscita del loro ultimo album Rave Tapes, uscito per Rock Action (Regno Unito ed Europa) e Sub Pop (USA) e registrato con Paul savage al Castle Of Doom, lo studio della band a Glasgow, saranno gli headliner della seconda serata del Siren festival a Vasto. Non che i Mogwai siano rimasti inattivi nel frattempo: l’album è stato seguito dal disco di remix A Wrenched Virile Lore e quest’anno la band scozzese ha composto la bellissima colonna sonora di Les Revenants, un lavoro particolare e innovativo al servizio della splendida serie TV prodotta da Channel 4 e Canal +. Da non dimenticare anche le più recenti esibizioni dal vivo, che hanno portato gli scozzesi a suonare per la prima volta Zidane: A 21st Century Portrait, al Manchester International Festival a Luglio. Quest’estate la band suonerà a Glastonbury e in molti altri prestigiosi festival.

26 luglio –Vasto (Ch) – Siren festival – MOGWAI

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Aldrin – Educorum

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Lo spazio, l’universo, le stelle hanno da sempre attirato l’attenzione e l’interesse dell’uomo che a sua volta si è cimentato fin dall’alba dei tempi a dare un senso all’infinito cosmico, fisici, astronomi, teologi, filosofi e perfino musicisti. I romani Aldrin, anche loro vittime del fascinoso cosmo, rientrano decisamente nell’ultima categoria, sebbene si siano scelti il nome dell’astronauta americano Buzz Aldrin, che toccò per secondo il suolo lunare. Il loro nuovo lavoro Educorum, il terzo per la precisione, sarà disponibile e scaricabile gratuitamente online dal 22 marzo. Sei tracce di Instrumental Rock con un lavoro ritmico e di chitarre prominente e creativo, volto a creare atmosfere dilatate e definire spazi imprendibili, ma allo stesso tempo consistenti e reali. La ricerca dei suoni e delle soluzioni ritmiche sono il punto focale dell’album che sopperisce all’assenza, quasi totale, del cantato o al suo uso non tradizionale, quando presente. Curiosa la scelta dei titoli, una semi contraddizione interna, che invece di lanciarci nell’iperuranio immaginifico ci portano in luoghi fisici e attimi del quotidiano, come se tutta la forza verbale dei testi mancanti fosse sintetizzata nei titoli, che velatamente sono più amari e critici dei suoni.

“Mara Caibo” è un esempio calzante, il titolo è immediatamente associato al più famoso tormentone raffaelliano, ma il quartetto romano sviluppa il tema a modo proprio, dando gande spazio al ritmo della batteria e alle lunghe ripetizioni inframmezzate da cambi decisi di ritmo. L’apice del brano, che detta una decisa svolta, è la registrazione di una delle tante bagarre televisive di uno dei tanti reality show nostrani, dopo questo momento ricco di intensità, il brano si chiude rallentando e ritornando al suo principio, chiudendo il cerchio e dando un senso alla citazione. Lo stesso meccanismo si ritrova, forse in maniera meno evidente, in “Non ti si È Visto più giù al Bar”con un inizio esplosivo e ritmato da Rock ribelle, che via via sparisce in un gioco più intimo e slow in cui le chitarre cedono il passo ad un basso più presente.  Si prosegue con “Il Mio Hair Stylist”e ”I Signori della Sinistra”,  entrambe morbide ed eteree, con un’impronta più marcatamente Ambient e vicine allo stile dei Mogwai, la prima disturbata dall’incursione di una voce femminile che da un lontano autoparlante ci ricorda di dover amare le persone, e la seconda che chiude l’album lasciandoci in tensione verso quel misterioso infinito, oscuro e lontano,  che ci avvolge e ci attira. Gli Aldrin con Educorum ci consegnano un album ben fatto suonato con capacità, ricercato nei suoni e nelle atmosfere, per un ascoltatore di nicchia alla scoperta dell’universo.

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Mogwai – Rave Tapes

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Ascolto: un album dei Mogwai lo devi sempre ascoltare lontano dalla luce; immaginate un posto piacevole al buio, non in solitudine. Ecco, l’ho ascoltato là.

Umore: un po’ confuso e sudato.

Dovunque si trovino i non più giovanissimi e talentuosi scozzesi sono sicuro che stanno già tremando all’idea che una mia recensione possa stroncargli per sempre la carriera. Scherzi a parte, per spiegare meglio quello che sto per scrivere vorrei partire dal mio ricordo live dei Mogwai: li ho visti due anni fa al Perfect Day di Verona e oltre che guardare un ottimo live ho avuto un’esperienza sonora nuova che tutti i mille e mille live che ho visto mi avevano mai garantito. A metà concerto mi giro per commentare con un mio amico quello che stavo vedendo, scelgo accuratamente quel momento perché la dinamica del pezzo che stavano suonando (non ricordo quale) era scesa di molto. Era uno di quei pezzi lenti, che ad un certo punto riduce al minimo le note, che si fa flebile e pensoso. Scelgo quel momento per dire una frase, una sola frase. Mi giro verso il mio amico e dopo non più di due o tre parole dalle casse mi arriva tra capo e collo un cartone sonoro talmente forte che indietreggio fisicamente di due o tre passi, come se davvero avessi preso un ceffone in uno dei peggiori bar di Caracas. Mai sentita prima una pressione sonora così forte, mai sentita prima un passaggio dal piano al forte così esagerato e così improvviso. Sono rimasto sconcertato e mi sono gasato come un bambino che comincia a capire di non esserlo più. Quei cinque secondi di musica hanno condizionato il mio parere su Rave Tapes. Secondo me, e con questo non voglio essere presuntuoso o tantomeno irrispettoso nei confronti di un gruppo che ammiro sinceramente, non è un gran disco. Più che altro sono convinto che sia interlocutorio. La loro esperienza di scrivere la colonna sonora di Revenants forse ha determinato questo strascico un po’ sbilenco che dichiara una via nuova ma al tempo stesso non la spiega bene. Complessivamente, ed è una tendenza che ho notato in svariati dischi non propriamente mainstream usciti nel 2013, in Raves Tapes c’è poco spazio per i chiaroscuri, per il dialogo tra silenzio e musica. Il fluire di questa assomiglia più ad un rubinetto lasciato aperto a metà nel bagno piuttosto che alla sciacquio ritmico e ristoratore delle onde che modellano la costa. Più un ruscello sotto casa che una cascata nella foresta.

Analizzando qualche pezzo, “Heard About Your Last Night” inizia con scampanellii molto Post Rock e ti fa immaginare uno sviluppo del disco molto diverso, “Simon Ferocius“ è un ipnotico crescendo che incalza lentamente ma alla fine non esplode mai. “Remurdered” invece mi sembra fare eco alla colonna sonora di Escape from New York di Carpenter e questo mi è piaciuto molto: un bass synth dallo spiccato sapore anni 80 fa da perno a tutto il pezzo e detta il crescendo senza segni distintivi melodici che arriva dalle basse frequenze come un terremoto che poi (mi passino la metafora forte) però non devasta. “Blues Hour” , pezzo cantato come un mantra, dà più il senso di autentico Post Rock d’annata, un pezzo lento come se si stessero scaricando le pile all’ipod ed invece energica come se ti stesse ricaricando dentro. In questo pezzo, le onde le senti tutte e ti lavano a meraviglia. Purtroppo in questo disco un episodio piuttosto isolato.

Ricapitolando, un disco dei Mogwai non può prendersi da Angelo Violante un’insufficienza; per definizione e rispetto. Ma il disco mi ha lasciato con un senso di insoddisfazione fastidiosa. Quello che mi è mancato è il dialogo tra il silenzio e il rumore, tra il pieno e il vuoto. Anzi no, mi è mancato proprio il silenzio. Il silenzio è la nota non suonata più bella, quella che ti rende meravigliose le note suonate, quello che ti permette di essere colpito al cuore.

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65daysofstatic – Wild Light

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Ormai è quasi impossibile impressionarsi di fronte a un disco dei 65daysofstatic (essendo questo il sesto lavoro in studio della band), dato anche l’impatto che ebbi col precedente album We Were Exploding Anyway (che fu seguito nel 2011 solo da Silent Running, omonima colonna sonora del film del 1972). Tre anni di lunga attesa sono quindi passati lentamente ed inesorabili, aspettando che il gruppo ci regalasse un’altra perla di moderno Post Rock. Paul Wolinski, JoeShrewsbury, Rob Jones e Simon Wright si sono ritrovati come sempre a comporre suoni ai limiti dell’Ambient, degni delle più belle opere di Brian Eno, ma approcciandosi sempre di più ai ritmi ossessivi dei Nine Inch Nails e dei Mogwai (tanto per citarne alcuni). Dodici anni di carriera sono tanti ed il peso da sostenere può a volte schiacciare anche i migliori, ma per fortuna ciò non è accaduto al quartetto di Sheffield che continua a mantenere chiara la mira dell’obiettivo.

Difficilmente quindi un fan che ascolterà questo disco potrebbe rimanere deluso, perché già dall’apertura in parlato di “Heat Death Infinity Splitter” è tutto chiaro e limpido. Un Math Core mescolato a tanta elettronica, simile a quella dei Prodigy, che si ripete durante tutte le nove tracce (una però,  “DoxxxYrself” è la conclusiva bonus track, degno epilogo mai al di sotto delle altre otto per qualità). Non sarei neanche stupito più di tanto se mi ritrovassi a sentire canzoni come “Prisms” o “Sleepwalk City” in un rave party. Tuttavia qualche canzone tipo “Taipei” sarebbe leggermente fuori luogo in tale situazione, ma credetemi, è solo un problema di punti di vista, in quanto pur rallentando i bpm in maniera esagerata la canzone raggiunge senza dubbio l’apice del disco. Il cambio di etichetta non ha quindi danneggiato il quartetto, gli ha anzi donato nuova linfa e vita sonora. Se non conoscete i 65daysofstatic questa è quindi la vostra migliore occasione per approcciare al Post Rock di ottima qualità, del resto come potreste rimanere delusi da una band che ha scelto il suo nome ispirandosi a un film inedito del grande regista John Carpenter (sì proprio quello di “1997: fuga da New York, “Christine – La macchina infernale”, “Essi vivono”  e tanti altri film di successo mondiale)? Se poi voleste anche approfondire la conoscenza, vi consiglio vivamente di visitare il sito web, ottima fan page contenente anche materiare raro ed inedito e persino radio sessions e demo.

Take a look and dream with music!

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Ecco le nuove uscite più attese del 2014!!! Prendete carta e penna…

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TEMPLATE2014

Evitando di farci prendere da facili entusiasmi, dai nostri desideri e di farci trascinare nel vortice delle “voci di corridoio”, cerchiamo di fare il punto su quelle che saranno solo alcune delle uscite più interessanti previste per il 2014, sia album che singoli ed Ep.  Dopo due anni o poco meno tornano i Maximo Park con il nuovo album Too Much Information in uscita a febbraio, insieme ai Tinariwen con Emmaar, a The Notwist e a St. Vincent. Ci sarà da aspettare molto meno invece per Metallica e il loro film documentario Through the Never e il nuovo full length Pontiak, INNOCENCE (28 gennaio), cosi come per il grande Mike Oldfield che dopo il non entusiasmante remix del suo capolavoro torna con Man on the Rocks (27 gennaio). Tra le tante raccolte che ci accompagneranno, da non perdere Original Album Series (24 gennaio) di Kevin Ayers e The Beatles con The U.S. Albums (21 gennaio).

Ci attende una svolta stilistica non indifferente e che non vogliamo anticiparvi, nel nuovo Alcest mentre segnatevi da qualche parte la data del 21 gennaio perché in uscita c’è il nuovo Ep di Glenn Branca, Lesson No. 1. Ci sarà non troppo da aspettare anche per vedere e leggere la recensione di Rave Tapes dei Mogwai mentre gli amanti dell’Idm si preparino al nuovo singolo targato Moderat cosi come i fanatici Ambient non dovranno aspettare molto per ascoltare  bvdub, già uscito nel 2013 (in coppia con Loscil) e prontissimo con un nuovo lavoro. Poche aspettative (eppure siamo molto curiosi) per il nuovo dei folli giapponesi Polysics, Action!!! (15 gennaio) mentre molte di più sono quelle per i Sunn O))) (che usciranno, quest’anno anche con Terrestrials, insieme agli Ulver) LA Reh 012 (13 gennaio). Per i fan più accaniti, annunciamo anche l’imminente uscita di Bruce Springsteen con High Hopes (10 gennaio) mentre proprio da due giorni è disponibile uno dei lavori più attesi, da noi amanti del Neo-Gaze, Cannibal singolo dei Silversun Pickups. Quasi dimenticavo anche l’ex Pavement, Stephen Malkmus & The Jicks con l’album Wig Out at Jagbags e poi Present Tense dei Wild Beasts.

Lasciamo per un attimo il panorama internazionale e guardiamo che succederà in casa nostra. Dente con Almanacco del Giorno Prima è pronto per gennaio. Con lui anche i Farglow, Meteor Remotes e gli Hysterical Sublime con Colours Ep. Tornano i Linea77 e speriamo che C’Eravamo Tanto Armati ne possa risollevare almeno un po’ le sorti. Quasi certa la prossima uscita per la ristampa di Da Qui dei Massimo Volume. Tra i lavori italiani più attesi non può mancare L’Amore Finché Dura, dei Non Voglio Che Clara mentre penso che si potrà fare a meno di ascoltare Omar Pedrini e il suo ultimo Che ci Vado a Fare a Londra, anche se un minuto di attenzione non si nega a nessuno. Paolo Fresu è in uscita con Vino Dentro mentre farà parlare, sparlare e litigare Canzoni Contro la Natura degli Zen Circus cosi come Brunori Sas e il suo Vol.3, Il Cammino di Santiago in Taxi. Nel frattempo ho già iniziato l’ascolto di Uno Bianca, il concept album di Bologna Violenta, in uscita il prossimo 24 febbraio.

Mettiamo da parte le uscite certe per questi primi mesi dell’anno e diamo ora uno sguardo più lontano nel tempo. Pare che Damon Albarn, leader di Blur e Gorillaz sia pronto per un album solista ma molto più atteso, almeno per quanto mi riguarda, è il nuovo album degli Have a Nice Life. Poi sarà certamente l’anno del nuovo U2, dei Foo Fighters e di Lana del Ray. Sale l’attesa per il nuovo di Beck, la cui uscita sembra quasi certa per il finire di febbraio, mentre ancora tutto da chiarire per quanto riguarda le nuove fatiche di Tool, Pharrell, Frank Ocean, Mastodon, Burial, Giorgio Moroder, Brody Dalle, Cloud Nothings, Flying Lotus, Grimes e The Kills.

Io mi segno almeno una decina di nomi, per gli altri vedremo. Nel frattempo speriamo che il 2014 ci regali qualche sorpresa in più rispetto a queste anticipazioni perché i nomi, nel complesso, non lasciano certo sperare in un’annata da ricordare. Comunque, ci sono sempre gli esordienti, magari ancora sconosciuti, da tenere in considerazione. Saranno loro a farci sognare, non ne dubito.

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Afformance – The Place

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Già dalle note che spalancano questo nuovo Ep targato Afformance è manifesto come la loro musica riesca a suonare rigorosamente senza tempo. Nelle peculiarità nostalgiche di un piano che produce una vibrazione svogliata sullo sfondo di rumoristiche ambientazioni lisergiche oscure, quasi extraterrestri, è facile scorgere le pieghe del tempo che svelano una necessità d’immediatezza, di contemporaneità connaturata alla natura umana. Le arie che aprono “Dough Claws” paiono la commistione di suoni che affollano la stanza che ospita lo stargate aperto su un mondo antico, dal quale la musica scivola via come per scappare.

Solo con l’incedere cadenzato di “Stride” e poi con “Covered in Scales” entra in scena un Rock concreto, strumentale, vagamente cosmico e psichedelico, dalla struttura più precisamente tracciata, che richiama gli stilemi e i cliché del Post Rock più classico, evitando le esemplarità matematiche eccedenti degli Slint, prediligendo strade eteree come quelle battute dai Mogwai nei momenti più Film Score. La sperimentazione è ridotta all’osso tanto che la musica si dondola teneramente tra Ambient, sogno e l’asprezza di qualche accelerata nebulosamente metallica. Nel finale si mostra un ponte che ricorda un brano dei ben meno noti ma non per questo meno talentuosi Suricates, somiglianza che si ferma quasi compiutamente alla parte iniziale del pezzo e che fa sorridere per quanto probabilmente solo frutto della coincidenza ma che avrebbe provocato scalpore se notata in due band più mainstream. Il brano, per quanto ripetitivo e poco articolato, è anche il più interessante, il più trascinante; la musica cresce in maniera impetuosa, le chitarre si accavallano in modo maniacale, ora rallentando ora accelerando evocando un’esplosione sonica che mai finisce per compiersi.

Come dico spesso, il Post-Rock, passatemi la definizione come genere nonostante la vaghezza, è un modo di fare Rock tanto passato quanto affascinante, che, se fatto con cura distoglie l’attenzione dall’eccessiva riproposizione di se stesso. Questo è esattamente il caso di un Ep Post-Rock creato con dedizione, che non suona remoto pur proponendo qualcosa di vecchissimo, ormai superato. I pezzi, specie “Narcoleptic”, avrebbero potuto essere di più se si fosse lavorato con maggior attenzione a fornire loro una densità costitutiva diversa dal solito. La scelta della band greca è stata invece quella di lasciare i lavori secchi, scheletrici e il risultato è un buon Ep Post-Rock, di quelli che magari non riascolteremo mai più, anche se ora, proprio ora, ci ha fatto più che piacere origliare.

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Australasia – Vertebra

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Comporre brani interamente strumentali è un’arma a doppio taglio. Da un lato c’è una grandissima libertà a livello costruttivo, come se tutto il brano fosse fondamentalmente improvvisato, dall’altro manca una certa direzionalità del messaggio che si intende comunicare e si rischia di esser fraintesi o non ascoltati con la debita attenzione, solo perchè manca un esplicativo testo letterario. Gli Australasia, però, riescono bene nel loro intento: i brani sono costruiti con una grande libertà, cosa che in qualche modo disorienta l’ascoltatore, ma che sottolinea motivi, timbri e passaggi, che vengono immediatamente riconosciuti a ogni riproposizione.

“Aorta”, in apertura, ha sonorità Post Rock che ricordano molto le ballate dei Marlene Kuntz, mentre “Vostok” è caratterizzata da un intro molto elettronico, con un che di fantasy: non è un brano che mi ha particolarmente colpito, anche se è sicuramente cinematografico e carico di pathos, sottolineato soprattutto dall’inserimento armonico delle chitarre distorte  in un crescendo dinamico che gradatamente conduce alla fine del brano affidato a sonorità acustiche che proprio non ci si aspettava. “Zero” ha un andamento molto più marziale e una ricerca timbrica che ricorda particolarmente i Mogwai. Il disco prosegue con “Aura”, di nuovo artificiale nelle sonorità e ammorbidita dalla voce femminile che canta un paio di frasi che diventano subito più un pretesto fonico che un messaggio vero e proprio. Molto più Progressive sono le ispirazioni di “Antenne”, un tripudio Noise sperimentalissimo in cui ogni breve inciso melodico viene reiterato ossessivamente, sommandosi ad altri. Una voce registrata apre “Volume”, brano dal sapore epico e sicuramente degno del titolo che porta. La title track, “Vertebra”, è onirica. Il dialogo melodico sembra venire da lontano, sia in senso fisico sia in senso metaforico e il pezzo sembra essere un viaggio in una landa solitaria, impressione che pare essere confermata dal cinguettio degli uccellini registrato e aggiunto sul finale. Troviamo di nuovo la voce femminile in “Apnea”, che, pur con qualche pretesa Trip Hop, non mi ha convinto. Bello è invece “Deficit”, cortissimo per durata ma incendiario e frenetico per andamento e sonorità. Il disco chiude con “Cinema” che, oltre alla sua costruzione decisamente Alternative, ha anche un aggancio timbrico con l’iniziale “Aorta” e con “Vertebra”, in un ideale riassunto e chiusura del cerchio.

Sarebbe troppo facile sostenere che i brani degli Australasia andrebbero bene per la sonorizzazione di qualche film. Non li ho trovati così carichi di descrittività come si confarrebbe allo scopo. Vertebra è un disco da ascoltare e meditare. Non sempre e non per forza ci si guadagnerà in emozione ma sicuramente se ne avrà tratto del piacere.

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Vertical – Black Palm

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Esiste una forma intelligente di suonare musica portandosi dalla propria parte tutte le ragioni del mondo, la musica strumentale non finisce mai di stupire (e inventare), i Vertical girano nell’ambiente da un decennio, il disco “nuovo” dei Vertical si chiama Black Palm. Gli anni settanta per i Vertical non sono mai passati, gli Area cuciti a vivo nel cuore e il pensiero rivolto costantemente al 2005 quando nel fiore dell’attività aprivano le date nord italiane del maestro James Brown. Funk Rock senza troppi giri di parole, i pezzi saltellano in svariate direzioni ma il principio di base rimane sempre quello del Funk (arricchito dal Rock). Detto così potrebbe sembrare una cosa poco attraente sentita e risentita fino al collasso ma devo prontamente ammettere che le cose non stanno in questo (scontato) modo. Rifacendomi a quello che dicevo all’inizio i Vertical in Black Palm non si accontentano mai e sperimentano in continuazione lasciando sorrisi dolci e amari sulle labbra dell’ascoltatore. Non sono certo prevedibili e il disco respira ad ogni modo con i propri polmoni, una band capace di spaccare il mondo quando diventa possibile farlo, sorprendenti è il giusto termine per definirli. Black Palm apre le proprie porte con “Divo”, un esagerazione di basso e riff acidi che esplodono la propria energia in un ritornello sostenuto dall’hammond e voci Soul campionate, non ci sono prove a sostenerlo ma ho pensato subito ai Pink Floyd più intimisti. “New World” tutto sembra tranne che un nuovo mondo, la mia impressione è stata quella di un campionamento per karaoke con atmosfere da crociera, scusate se non sono riuscito a cogliere l’innovazione. Forse non sono molto perspicace. Colgo invece la realistica terapia d’urto mentale portata da “Tispari (ho voglia di piangere con te)”. Poi si continua a cavalcare l’onda del Funk aromatizzato al Jazz e le condizioni sono decisamente carine, un disco interamente strumentale è difficilissimo da tirare per oltre quarantacinque minuti mantenendo sempre la stessa intensità, questa è bravura. Sfiderei chiunque a farlo lasciando da parte Demetrio Stratos o gli attualissimi Calibro 35 a cui i Vertical dimostrano di essere molto affezionati. E non parliamo di Post Rock alla Mogwai. Poi esiste anche un brano nel disco “Watcha Gonna Do” cantato da Ken Bailey e definito dalla band Acid-Jazz con tutto il diritto di farlo, roba nuova per non lasciare mai la puzza della scontatezza. Assolutamente da segnalare il pezzo che dà il titolo all’album che nella sua semplicità non porta comunque scompensi. I Vertical sarebbero una perfetta band da colonna sonora da impiegare in molteplici forme di arte. Presente anche (ovviamente in chiusura) una ghost track “900” e la voglia di ascoltare nuovamente Black Palm invade tutta la mia attenzione. Un album concepito in maniera decisamente professionale da musicisti altrettanto validi, Black Palm inganna il tempo, non si esce vivi dagli anni settanta.

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Live Footage – Doyers

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Un album imponente. Questo è più di ogni altra cosa il secondo lavoro del duo di Brooklyn Topu Lyo (cello, sampler) e Mike Thies (drums, keyboards). A distanza di tre anni dal buonissimo esordio di Willow Be, tirano fuori un’opera costruita su ben diciassette tracce, rigorosamente strumentali, per la durata limite di quasi settanta minuti. Un disco che vi permetterà di godere pienamente del loro estro e vi giustificherà le parole di una certa critica che li pone tra i migliori compositori di colonne sonore surreali in circolazione. Corde ed elettronica, batteria e tastiere, realtà e sogno si mescolano alla perfezione per creare una suggestione sonica indimenticabile, resa ancor più umana dall’aspetto dell’improvvisazione esecutiva.

“L’assenza di limitazioni è nemica dell’arte”. Parte da quest’aforisma di Orson Welles il duo statunitense per mettersi a realizzare Doyers. Sono queste parole del genio della regia (ma non esclusivamente) che fanno da mantra al lavoro dei Live Footage, durante le registrazioni e la creazione delle diciassette (numero che in terra di Obama non genera gli stessi gesti scaramantici) gemme in questione.
Le limitazioni amiche dell’arte, in questo caso, possono essere tante e riferite a una miriade di diverse questioni tecniche, creative e non solo, ma quelle che saltano più all’orecchio, sono quelle dirette delle note, che sembrano spaziare e volteggiare nell’infinità del cosmo ma in realtà, alla fine dell’ascolto, vi renderete conto essere parte di una precisa galassia, uniforme e delimitata, pur se enorme. Tutto ha limite, anche se nella sua apparente illimitatezza e sta solo nel punto di vista dell’osservatore che tali limiti si rendono in parte visibili.

La musica dei Live Footage passa con disinvoltura da eteree e riverberate atmosfere lisergiche e Psych Rock (“Broklyn Bridge”, “Asian Crane”, “Lucien”) a un sognante Dream Pop più stile Beach House che Sigur Ròs utilizzando spesso le stesse forme del Post Rock mogwaiano, fatto di crescendo continui e muri di chitarre, o dello Slowcore Glitch (“Purgatory (The Storm Has Passed)”, “Broklyn Bridge”). L’ossessione ritmica dell’inizio di “Foresight” anticipa altri punti di vista, tendenti al Jazz e non mancano divagazioni addirittura nei territori della Dub Music (“Mortality”), della Drum’n Bass (“Going Somewhere”, “New Breed”), della musica sudamericana (“Caipirinha”), dell’elettronica di chiara matrice Kraftwerk (“Korean Tea Shoppe”, “Computer is Free”) o anche il Rock alternativo contaminato da ritmiche Funky, ovviamente sempre in combutta con un liquefatto e caldo Ambient (“Secret Cricket Meeting”) o il più fumoso e oscuro Trip Hop (“Ant Colony”). Eccezionali i passaggi più spiccatamente Film Score/Soundtrack (“Just Moving Parts”, “Airport Farewell”) nei quali si rende ancor più palese e chiaro il concetto di surreale applicato all’opera dei Live Footage.
Ovviamente, se ancora non avete ascoltato Doyers, vi starete chiedendo come possa io parlare di limiti ma poi tirare in ballo una quantità di generi musicali sconfinata. Come già vi ho detto, dovete ascoltare per capire. Ogni influenza sembra schizzare qua e là, apparentemente senza controllo ma in realtà, se provate ad allontanare per un secondo l’anima dalle note, noterete che la musica dei Live Footage, si ammorbidisce, quando deve suonare più forte e s’indurisce quando invece mira alla leggiadria. In questo modo, si crea una linea imprecisa che, come il volo d’un uccello, apparirà più armonica, con l’allontanarsi dello sguardo.

Per chiudere, non posso che rinnovarvi le mie promesse. Ascoltate e poi ditemi, basta leggere le mie parole, o impazzire dietro ad esse. Citando Welles, le promesse sono molto più divertenti delle spiegazioni. Quindi, buon divertimento.

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La Band Della Settimana: Nient’Altro Che Macerie

Written by Novità

I Nient’altro Che Macerie sono in tre e vengono dalla provincia di Milano, quella che ti opprime e ti fa venire voglia di andare da tutt’altra parte, o che forse non esiste più ed è solo uno stato mentale. Suonare per prendere aria; suonare e urlare sentimenti talmente personali da diventare quasi universali. Urlare per prendere coscienza delle condizioni casuali che accompagnano i fatti e ne determinano la natura. Circostanze.

I Nient’Altro Che Macerie sono Andrea Scardeoni, Simone Battistoni e Matteo Salvatori e suonano Emo Alternative Rock sotto l’influsso dei padrini The Van Pelt, Verdena, Mogwai, Sonic Youth

Puoi scaricare gratuitamente il loro disco direttamente dal sito dell’etichetta V4V Records.

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A Violet Pine – Girl

Written by Recensioni

Dal primo all’ultimo pezzo. da “Pathetic” a “Pop Song For Nice People”, l’esordio discografico Girl dei Violet Pine è un mondo totalmente obliquo, da leggere in virtù della libertà espressiva e della bellezza amniotica che porta dentro i suoi panni sonori. Difficilmente da collocare dal punto di vista dei rimandi iconografici – se non per quella vena sottomessa alla Autechre, Mogwai – il disco è un’apnea in ambienti liquidi che hanno la potenza/virtù di creare interazioni differenti, differenti nel calibro e nella trasposizione alternativa per nostalgie e carezze sintetiche.

Siamo su territori da percorrere con l’ausilio sognante di buone cuffie stereo per intraprendere un viaggio in sospensione, un trip emotivo al silicio che non invade e spadroneggia lo spazio cognitivo e dreaming dell’ascoltatore, ma lo guida come un soffio insperato di boria grigio-scura, dieci tracce inafferrabili che descrivono con visione e perizia galleggiante un futuro possibile o  quello che magari vorremmo ma non stiamo vivendo, ovvio da non confondere con quelle traiettorie di musica per uomo-macchina tanto care a Tsukamoto Shinya, anche perché sembrerebbe una sperimentazione al paradosso, ma poi la “creatura” dei nostri A Violet Pine marcia da sola, glissa molte delle appartenenze assai pericolose in questa “cosmica wave satellitare” e tira dritto nel suo girovagare multistrato.

Qui non c’è  e non ci saranno i nomi di futuri composti chimici per musica in provetta, nessun motore di ricerca sonica per i motori di ricerca web 4.0 , ma solo una sana alienazione allucinata che viaggia, scruta, viaggia e delinea, e ancora si mette in contrapposizione o allinea ai giochi di una lamina d’urgenza interiore, alle inevitabili scosse malleabili e di bellezza a fior di aria che nei battiti ancestrali della titletrack, tra gli echi scandaglio di “Even if it Rain”, dietro il brivido spennato e assassino “Family” e la sperimentazione minimalista e senza punto d’appoggio gravitazionale “Fragile” amplia e spalanca un terzo occhio su immense morbosità e demarcazioni delle quali ne abbiamo esigenza per staccarci – anche per un lasso di tempo determinato – dal maledetto magnetismo terrestre.

Grazie del passaggio e al prossimo giro d’atmosfera!

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