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C’mon Tigre @ Monk Club, Roma 10/03/2016
Quella del misterioso collettivo C’mon Tigre è una storia fatta di molti sensi e poche parole. I suoi componenti sembrano non sentire alcuna necessità di associare i propri nomi alle esperienze sonore che ci regalano, figuriamoci poi le proprie sembianze. Eppure sono ben attenti a non trascurare le altre sfere sensoriali, e le immagini con cui veicolano il loro giovane progetto sono molte e vivide, gran parte delle quali legata al maestro Gianluigi Toccafondo.
La lezione che un album come C’mon Tigre ci insegna è probabilmente quanto di più urgente l’arte contemporanea tutta ha l’obbligo morale di esternare: il bacino del Mediterraneo non è mai stato un percorso a senso unico verso nord. I C’mon Tigre lo dicono nella maniera meno retorica che esista, confezionando in note un colloquio tra civiltà, con una firma artistica che già in sé è un riuscito mélange. Il concept del progetto è compiuto e coerente sin dal videoclip di “Federation Tunisienne de Football”, primo singolo estratto. Da quella prima realizzazione ad opera del maestro Toccafondo è nata una proposta live diversa da quelle con cui i C’mon Tigre hanno girato l’Europa dal 2014 ad oggi, che lega a doppio filo musica e pittura.
Lo stato di grazia in cui resterò per tutta la serata inizia entrando in sala e scoprendo che la performance ce la godremo da seduti. Per un live come questo – e da un giovedì sera che arriva dopo una settimana di lavoro che è sembrata interminabile – non potrei chiedere di meglio. Davanti al palco della sala del Monk Club questa sera c’è una piccola platea fatta di tappeti e confortevoli divanetti (e di sedie di plastica per i più sfigati in fondo, spiacente). Bisogna mettersi comodi perché c’è un elemento in più da metabolizzare: le pennellate di Toccafondo davanti alle sagome dei C’Mon Tigre, proiettate su di un telo trasparente dietro al quale i musicisti si disporranno da qui a poco.
Lo sforzo di Frase nel pronunciare la “r” mediterranea di tigre è notevole quanto apprezzabile. Il songwriter canadese annuncia l’arrivo della band dopo un quarto d’ora di gradevole opening act a base di Soul funkeggiante, interagendo col pubblico in sala che si gode i brani del suo EP Daggers & Shields e qualche cover, tra cui una “No Diggity” che occhieggia furba alla versione di Chet Faker e conquista l’attenzione senza sforzi.
L’atmosfera si ribalta e si fa solenne con l’ingresso dei C’mon Tigre, che calcano la scena in silenzio, lasciando alla musica l’onere di introdurli. Si levano le note di “Rabat” a luci ancora spente, qualche tocco di colore prende forma sul telone per danzare sui contorni dei performer, finchè si levano erotici i fiati di “Fan for a twenty years old human being” che costringono alla resa e danno inizio all’incantesimo. Sprofondo nel mio posto in seconda fila e lascio che i fiati incantatori si portino via la stanchezza di una settimana intera come fosse un serpente a sonagli, ed io una cesta che si svuota per far spazio all’energia sensuale dei riff esotici e ossessivi.
All’anonimo duo originario si uniscono stasera altri quattro elementi, a completare con ottoni, percussioni e xilofono le peripezie di chitarra e synth. D’altronde la congrega non ha mai avuto bisogno di affidarsi a parole di presentazione, bypassando la questione con l’approccio diretto dai due anonimi deus-ex-machina, unito a molti benefici apporti dalle provenienze sonore e geografiche più disparate, dal Jazz internazionale all’estro italico del compianto Enrico Fontanelli degli Offlaga Disco Pax.
World music tra le più melliflue si disperde in sala con “Commute” e il frusciare delle sue percussioni sul morbido giro di chitarra. Il colore che volteggia sul telone narra la fiaba di Pinocchio con pochi tratti essenziali, rosso MangiaFuoco, il nero di lunghe orecchie d’asino, blu come un’avventura di cui pentirsi. Il lamento ovattato di “December” in risonanza con il tintinnare dello xilofono sembra quello di un Patrick Watson che vaga abbacinato in un deserto mediorientale, poi irrompe il jazz notturno di “A World of Wonder” ed è un’ipnosi collettiva.
Nessun flusso dal palco se non la musica e qualche inchino ma la platea sembra non avvertire alcun bisogno di forme di comunicazione che non siano questa malìa catartica. L’atmosfera muta col Funk di “Federation Tunisienne de Football” e le tinte sature delle creature di Toccafondo che si impossessano della scena, “Life as a Preneed Tuxedo Jacket” è una session trascinante degna dei Goat più disinvolti ed eleganti.
Solo un paio di fischi interrompono l’ipnosi collettiva, ma tutto sommato stasera l’acustica è ben al di sopra delle aspettative.
Ci si scrolla via il torpore godereccio solo per affrettarsi a richiamarli tutti on stage. L’encore è morbido e spontaneo. Gazze nere si stagliano su “Malta” e si alternano a versi trafugati da Pasolini, riconducendo gli umori all’equilibro del principio.
Magro premio di consolazione per gli assenti: su Youtube c’è il video integrale della performance ma la qualità audio non rende affatto giustizia ai Nostri. Non guastatevi la sorpresa, ignoratelo e tenetevi pronti per il prossimo giro.
Un live dei C’mon Tigre e un paio di birre grandi sono il miglior anestetico contro i pensieri sgradevoli. Qualcuno più bravo di me ha detto che la felicità è fatta di attimi di dimenticanza.
Youth Lagoon
Incuriosita dal personaggio, ma soprattutto dalla possibilità di presenziare a una delle date del suo ultimo tour (che è anche il suo primo concerto per me), decido di andare ad assistere al live romano di Youth Lagoon, al secolo Trevor Powers. Giovane talento americano classe 1989, nell’arco di sei anni dall’inizio della sua produzione ci ha regalato tre album, The Year of Hibernation, Wondrous Bughouse e l’ultimo, Savage Hills Ballroom, uscito nel settembre del 2015, spaziando dal Pop sperimentale di qualità (spesso definito Dream Pop, caratterizzato da improvvise e violente irruzione elettroniche che spezzano completamente il mood), alle ballate meravigliosamente intense mai troppo melense.
Quindi si parte, direzione Monk Club, circolo Arci che per chi non lo conoscesse propone senza mai smentirsi uno dei calendari più interessanti, raffinati e di qualità dell’intera capitale, con la presenza di numerosi artisti internazionali. Il pubblico com’era prevedibile non è stato quello delle grandi occasioni, a occhio e croce non si è arrivati ad un centinaio di presenti, ma onestamente quelle per pochi intimi sono le situazioni che preferisco.
Nel caso specifico, i pochi intimi prevedevano anche la presenza di qualche baldo giovane che, in preda ad una evidente crisi d’identità o credendo di essere da qualche altra parte, ballava in perfetto stile Elettro Deep House, senza un vero perché!
Di stranezze se ne sono viste non solo tra il pubblico, ma anche sul palco, e non mi riferisco ad abiti glitterati, make-up eccentrici e sgargianti (che mi aspettavo da un personaggio come Youth Lagon ma che invece non ci sono stati), ma ad improvvisi ed imbarazzanti passi di danza che sembravano impadronirsi di lui come in un raptus, qualcosa a metà strada tra una lezione di cardio-fitness e i risvolti di un voodoo (passatemi l’ironia del paragone per rendere al meglio l’idea).
Per fortuna che a farci dimenticare scene come questa c’era la sua incantevole e cristallina voce che ha rapito tutti, coatti e non… compreso un certo Edoardo Calcutta mimetizzato benissimo tra i fuori sede.