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Ogun Ferraille – My Stalker Doesn’t Love Me

Written by Recensioni

Nel momento esatto in cui è partita “Barney’s Version”, prima canzone di questo breve My Stalker Doesn’t Love Me dei cosentini Ogun Ferraille, ho dovuto aprire il mio word processor per buttare giù qualche riga. Ne sono sempre più convinto, alla musica italiana servono due cose: le idee, e, perdonatemi l’espressione, il cazzo duro. Che non è questione di genere, badate bene, anche se gli Ogun Ferraille bruciano di un rock viscerale e anarchico come pochi: si può avere il cazzo duro anche se ci si chiama Uochi Toki o Nicolò Carnesi.
Ma sto divagando.
Torniamo a bomba agli Ogun Ferraille, che ci portano sette tracce di carta vetrata, di acido muriatico, di soda caustica. Ma prima di dilungarmi su ciò che mi ha colpito positivamente, vorrei cambiare routine ed enumerare ciò che secondo me non va in questo disco.

Primo. Non so se in passato il trio calabro abbia tentato o meno la strada dell’italiano. L’inglese si sposa bene con la vocazione rock del disco, ma qua e là mi fa storcere il naso. Sarà la prova di dizione non eccelsa del cantante Mauro Nigro, sarà la frustrazione (provinciale quanto volete) di poter seguire poco dei discorsi che si fanno, consapevoli, in qualche modo, che ci sia qualcosa di più, sotto le urla: e che questo qualcosa sfugga è un peccato.

Secondo. Nonostante tutto il disco, violenza o meno, si percepisca arrabbiato, duro, anche se in modi diversi, la prima metà è quella che stupisce e incanta di più. Come dicono loro, “un LP con due parti ed un intermezzo. Per un unico, breve, graffiante discorso”. Il salto di mood, tra le due parti, è notevole: da “Interrupted Speech” in poi i tre si banalizzano leggermente, nonostante il sound rimanga diretto e aggressivo. Si cercano soluzioni più morbide, più classiche, se vogliamo, e si abbandona la scia che la botta iniziale aveva lasciato.
La botta iniziale, dunque. Ecco ciò che mi ha conquistato subito: i primi tre brani sono uno schiaffo, sì, ma col gomito. I suoni ti disturbano, le strutture, labirintiche, ti confondono. I tre cosentini suonano rapidi, in faccia, imprecisi ed immediati, ma proprio nel senso che si ha quasi l’impressione che ciò che sentiamo sia un’esplosione momentanea, un attimo perso nel tempo in cui gli Ogun Ferraille hanno dato tutto, subito, tanto da svuotarsi completamente, in nove minuti scarsi di musica grezza, scalena, deforme, imperfetta, ma così vera che è quasi fastidiosa (anche se la voce, a volte, non riesce a reggere la pressione, ma è più una questione di timbro che di capacità vocali).

Intendiamoci, non è che l’altra metà del disco sia inutile: c’è roba buona anche da quelle parti, e qualcosa dell’afflato iniziale continua anche lì (penso soprattutto a “Peter”, con le sue arie noise, o alla cupezza di “Sleeping With My Ghost”). Però lì gli Ogun Ferraille diventano più inconsistenti, si confondono un po’ di più tra la folla. Peccato, perché  “My Stalker Doesn’t Love Me” poteva avere i numeri per diventare, nella sua interezza, un piccolo, sporco gioiellino di rock duro & puro.
Nonostante questo, “My Stalker Doesn’t Love Me” ha una sua coerenza, una sua ragione d’essere. È veramente un “unico, breve, graffiante discorso”: anche perché le sette tracce s’inanellano una attaccata all’altra, senza una pausa, un respiro, un vuoto, come a farci sentire immersi in un interrotto live fatto di sudore e mal di gola, densità sonora e calore. Gli Ogun Ferraille sostengono infatti che sia il live la loro dimensione principale, e noi non facciamo fatica a credergli. E, personalmente, spero di riuscire a beccarmi qualche sputo dalla prima fila, se e quando, prima o poi, passeranno da Milano.

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