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Il Rumore della Tregua – Una Trincea nel Mare
C’è ciccia nel primo full length de Il Rumore della Tregua. Sono una band e suonano come una buonissima band, seri e capaci, sicuri e senza sbavature; hanno anche studiato i cantautori, e si sente. C’è come un’autorevolezza antica nella voce di Federico Anelli, una malinconia di fondo che vuole sembrare profonda, riflessiva, intensa. Lo è davvero? Probabilmente sì, ma chissà. Importa? Non so. (Ci torniamo dopo). Quello che so è che Una Trincea nel Mare è un disco complesso, non immediato, scritto bene, suonato bene, prodotto bene. Bisogna dare atto a Il Rumore della Tregua di aver saputo architettare un disco che non solo sta in piedi ma addirittura svetta: come suoni, arrangiamenti e maturità compositiva siamo a livelli d’eccellenza. La cosa che sento mancare è una voce, uno sguardo che sia solo loro. E qui torniamo a quella sensazione, fastidiosa come una mosca, di stare guardando uno spettacolo progettato con una perizia spaventosa ma che tradisce la sua natura artificiale: si notano forse le quinte, in fondo alle ombre, ai lati del palco? Sono luci di scena quelle, o sono stelle? È sangue finto, quello che sgorga? L’agonia ci fa piangere di dolore, di commozione, o solo spellare le mani applaudendo il primattore? Domande che lasciano il tempo che trovano, risposte che sono tema di conversazioni di mezzanotte al tavolo di un bar. Nel frattempo vi dico che il disco merita il vostro ascolto se masticate i cantautori, le colonne sonore di Morricone e certo Folk Rock malinconico e denso, intenso, di qualità. Da tenere d’occhio.
Alex Bandini – Signore e Signori Buonanotte
Ecco un bell’esempio di chi lavora e plasma la musica con fantasia e fatica. Il primo disco di Alex Bandini (in realtà ne pubblicò uno nel 2012 sotto il nome IlSogno IlVeleno) sa essere a tratti leggero come una piuma e a tratti pesante come un macigno. Macigno che ci dobbiamo portare dietro di questi tempi e senza tante lamentele fischiettiamo melodie per alleviare la fatica e la paura. Utilizzando i muscoli e tutta la nostra immaginazione. Alex sfodera dieci canzoni dove tutto è ben amalgamato e ben tenuto nella classica forma cantautorale di storia. Il ragazzo però non cade, per sua fortuna, nella trappola di molti suoi colleghi che arrivano a sfiorare le corde dei vari mostri sacri italiani, scadendo in facili copie carbone dei vari De Gregori, De Andrè e Dalla. Alex Bandini invece attira verso di se tutte le ispirazioni (ci butta dentro anche Battisti e aggiungerei perché no?) ma non si ferma a farsele scivolare sulla pelle. Le immagazzina dentro, le lavora per poi soffiarle fuori, con quel filo di voce che al primo ascolto pare sembrare sintomo di timidezza e riservatezza, ma nasconde una grande potenza in ogni singola parola che sussurra. Le influenze del cantautore abruzzese non sono prettamente musicali e lo si capisce già dal primo brano del disco, dedicato allo sceneggiatore Ennio Flaiano (che lavorò in molti dei capolavori di Fellini). L’atmosfera leggiadra della canzone ci porta direttamente sull’onirico set di “8 e 1/2”. Da un filo di voce esce: “la solitudine non è un delitto se aiuta la poesia ad essere magia”. E se questa frase fosse stata gridata, sarebbe stata meno forte.
L’amalgama viene poi arricchito da arrangiamenti per nulla banali, che anche qui cercano ispirazione nel cinema italiano. Spesso strizzano l’occhio a Morricone e ai western italiani, omaggiati con “Il Grande Silenzio”, dedicata all’omonimo film di Sergio Corbucci. Il lavoro di produzione (compiuto da Alex insieme a Gianluigi Antonelli) è a dir poco sopraffino, la scelta degli strumenti è studiata sapientemente in modo da fornire ad ogni brano il giusto tappeto su cui stendersi e prendere forma. I suoni mandano ad un altro livello pezzi come “Antonio Vecchio Pazzo”, triste e malinconica decadenza dei sogni di un comunista vecchio stampo, e “Paese Sera”, uno spaccato dell’Italia fatto di semplici ma straordinari episodi. Tra realismo e (di nuovo!) Federico Fellini: “musicisti e ballerine dentro i cabaret le luci al neon, in bianco e nero”. Questo è un disco che si fa ascoltare innumerevoli volte. Ricco di dettagli. Ci tiene sull’attenti alla ricerca di qualche nuovo particolare, di qualche nuovo personaggio così strambo, eppure reale e così vicino a noi. Questo disco ti pianta con le orecchie davanti allo stereo. Gli occhi possiamo tenerli chiusi che di immagini già ne sentiamo passare una marea.
Yumiko – Tutto da Rifare
Ascolto: in macchina verso un week end di live
Umore: soleggiato e rilassato come di chi scappa dalla sua vita.
Davvero, e questo non significa che ho ascoltato solo questo, il disco degli Yumiko si può spiegare tutto dai primi trenta secondi del primo pezzo. O meglio, l’ascolto di tutto il disco conferma pienamente l’impressione di pancia che l’incipit ti fornisce. Produzione stratosferica, suoni sintetici di gran gusto e potenza, sezione ritmica europea e un timbro di voce non particolarmente riconoscibile ma pur sempre capace e adatto al suono complessivo del progetto. A questo punto in una recensione interviene il signor MA e questo è il punto in cui nella mia irrompe a gamba tesa come un arcigno difensore di annata: il punto dolente degli Yumiko, o per lo meno del loro disco “Tutto da rifare”, è il messaggio testuale. Faccio la telecronaca dei miei pensieri in quei fatidici trenta secondi di cui ho parlato: metto su il disco e subito si staglia un basso synth potentissimo e distorto, ecco che entra la batteria con un quattro quarti ruggente e al tempo stesso non antico, campioni e riverberi in sottofondo non banali (questo è davvero piacevolmente inusuale), poi entra la voce; dico ” ok, timbro alla Depeche Mode, ci sta tutto”, assaporo meglio come un degustatore di vino con l’orecchio la linea della voce pensando “questa linea l’ho già sentita dai Depeche Mode, poco male, pure Morricone dice che il plagio nella musica moderna non esiste”, mi gusto ancora un pò l’arrangiamento ossevando che anche le doppie voci per terze siano stilisticamente vicine a quelle di Dave Gahan e soci, ma mi piacciono quindi prosaicamente penso “Sti cazzi!!!”.
Il pezzo oramai è al culmine della salita verso il ritornello, ci siamo quasi. Il mio spirito sta già danzando e si aspetta una frase di quelle che dice tutto e non dice nulla, una di quelle cose che ti rimangono in testa per tutto il giorno, una di quelle cose che sotto la doccia stai tutto il tempo a rimuginare sull’interpretazione giusta e sulla bellezza della scelta della parole. Arriva il ritornello e cito testualmente: “Fammi entrare nel tuo inferno, l’unica sicura via per capire in fondo la follia”. E’ la poca cura delle parole e il criminale uso italiano della rima baciata che distingue un disco da ascoltare sotto la doccia da uno che ti fa pensare sotto la doccia.
Orval Carlos Sibelius – Super Forma
Se non è un centro pieno, ci manca veramente poco. Il parigino Axel Mannoaud, in arte Orval Carlos Sibelius, dopo i più che convincenti barocchismi dell’esordio omonimo e dopo il suadente Pop psichedelico di Recovery Tapes, riesce anche questa volta ad ammaliare pur senza sforzarsi di suonare troppo originale. Il Pop di Super Forma poggia su tappeti sonori tutt’altro che puliti, spesso rumorosi e gracchianti, con distorsioni antichizzate che aumentano il fascino delle basi dalla forte matrice classicamente popular. Le intelaiature strumentali hanno il fascino adatto ad accompagnare la mente attraverso viaggi spirituali e lisergici, in mondi industriali e tangibili. Super Forma sembra un disco che avrebbero potuto fare i Beatles se suonassero ancora oggi, pieno non solo delle melodie che hanno fatto la fortuna dei mitici Fab Four ma anche delle derive psichedeliche e allucinogene di echi, di voci corali, canti leggiadri e sublimi, effetti basilari, altalene sonore quasi teatrali. È dunque la psichedelia cosmica, che già sembra suggerita dalla copertina, a fare da materia primordiale per la costruzione di Super Forma mentre soprattutto le melodie vocali s’incuneano in meandri di note liquefatte cercando di dare una struttura più solida, Pop appunto, alla musica, generando motivi immediatamente riconoscibili e fruibili dal più ampio pubblico possibile.
A primo impatto saranno tantissime le evocazioni che l’ascolto lascerà trasparire nella vostra mente, tutte da riferirsi a un’epoca d’oro per la musica e riecheggianti nella variegata strumentazione utilizzata dallo stesso Orval Carlos Sibelius (che non disdegna neanche il glockenspiel o altre bizzarrie del tipo) ma anche dai diversi musicisti che lo accompagnano. Si andrà dunque dalle maestosità della scena di Canterbury (“Spinning Round”) fino alla più apparentemente semplice cornice Pop sia britannica e tendente alla danza (“Archipel Celesta”, “Good Remake”) che statunitense e più Folk; si va quindi con scioltezza dai Beatles fino ai Byrds (“Desintegraçao”, “Bells”). Addirittura sembrerà di assistere al compimento di un nuovo gioiello targato Morricone in alcuni brani (“Desintegraçao”, “Asteroids”) mentre la psichedelia diventerà padrona del palcoscenico (“Sonho de Songes”, “Cafuron”, “Huong”) specie dei momenti strumentali che sembrano rifarsi con forza al Progressive italiano, oltre che inglese e statunitense (“Super Data”). Altri apparenti omaggi al passato si avranno in alcune derive funkeggianti e Surf (“Asteroids”) ma la cosa che, in modo molto contraddittorio, sarà più interessante sotto l’aspetto della modernità del sound Super Forma sarà proprio l’utilizzo degli espedienti di un genere (se si vuole definire tale) che trova le sue caratteristiche nella riscoperta di sonorità datate e nella riproposizione di certi suoni, senza ripulirli da quella patina di antico che può essere anche un’imperfezione distorta. Se Super Forma non può certo definirsi un album Hypnagogic Pop, è altresì innegabile che proprio i mezzi di questa nuova corrente che sta facendo la fortuna di Neon Indian o Washed Out, tanto per fare qualche esempio, sono con cura proposti dentro le undici tracce facendo si che da materia non certo innovativa e giocando con il logoro e l’usato, si possa presentare un’opera dal sapore moderno e nello stesso tempo di mirabile valenza arcaica.
In chiusura l’immancabile ghost track, anticipata da una traccia vuota, sarà lo strumento per riassumere tutte le considerazioni possibili su Super Forma, attraverso una canzone/non canzone che si sviluppa in un crescendo vorticoso, nevrotico e psicotico. Per molti questo di Orval Carlos Sibelius sarà l’ennesima prova di un artista incapace di staccarsi dai fasti del Rock di qualche decennio fa ma chi ha dimestichezza con le novità, non farà grosse difficoltà a scoprire tra queste anticaglie soniche piccole gemme, opere d’arte moderna.