Ho un rapporto controverso con l’elettronica. Tutta quella cassa ribattuta, i riferimenti alla dance, quei suoni liquidi ed eterei, quelle tastiere che girala come vuoi ma un po’ fanno sempre tanto maledettissimi anni ’80, quelle parole praticamente sempre inesistenti… Paradossalmente mi piacciono più certe sperimentazioni cacofoniche seriamente insentibili alla Stockhausen.
Almeno la piacevolezza si perde sì, ma prostituita alla nobile causa della ricerca.
Se mi chiedete di andare a un evento dedicato all’elettronica, storco il naso.
Se mi chiedete cosa ne penso, mi travesto da snob e sostengo che non sia veramente musica.
Sono una di quelle insomma, che non maschera una certa disapprovazione retrograda, come se ci fosse qualche differenza, poi, lo riconosco, tra girare delle manopole e mettere in vibrazione delle corde. L’altra grande verità su me e l’elettronica è che nel 90% dei casi non mi trasmette nulla, neanche sul piano corporeo. Non mi emoziona, non mi commuove, non mi fa incazzare -se non consideriamo incazzatura l’istantaneo “Ma dove diamine sono gli strumenti veri?”- non mi fa pensare, non mi rilassa, non mi accende. È un mio grande limite.
Quindi è da snob consapevolmente limitata che mi sono avvicinata ai Caffiero e al loro Moscagrande. Una sfida per me e per loro.
Tre ragazzi di Fano (basso, synth e batteria – serve altro, in fondo, per fare dell’elettronica?), 10 tracce autoprodotte e un cd edito con gusto, con una copertina essenziale e tutte le informazioni necessarie sul retro – e sembra cosa da poco, invece è pregevole sapere essere efficaci e sintetici.
Le prime tre canzoni sono esattamente come pensavo: A Damn fine cupe of coffee, per esempio, è un tappetone ritmico insistente, ossessivo e compulsivo, con sopra tanto noise cupo, dal sapore decisamente Eighties. Chinaboy ha i presupposti per essere un pezzo un po’ più distante dagli stilemi del genere, ha un sapore più acid-rock, su cui si muove una voce profonda, ma viene trascinato dall’ossessività ritmica nella banalità. Violence in the kitchen però, mi prende con grande stupore. È energica, stranamente calda e in grado di trasmettere tanta passione. La voce declamata ricorda certe canzoni di indignazione e protesta e un momentaneo sapore italiano un po’ alla Teatro degli orrori (non c’entrano nulla, lo so, ma vi assicuro, il timbro è quello!) e il brano aqcuista subito un tono serio e impegnato.
Da qui ascolto tutto l’album con una curiosità e un’attenzione insospettabili.
Questi tre sono bravi e spezzano per il resto del disco le mie convinzioni classiste sui generi musicali. Sanno il fatto loro sulla scelta della strumentazione, La tecnica è ineccepibile, il gusto no. Sono solo in tre ma riescono a costruire un buon muro sonoro, ma spesso le canzoni mancano di un tiro costante e sono tanti i momenti in cui sembrano proprio mancare le idee. Spesso i Caffiero danno l’impressione di sparare le cartucce migliori all’inizio del pezzo e manca una dinamica crescente nella costruzione del brano: tutto viene detto in pochi secondi, il resto è solo una ripetizione. Sicuramente il potenziale della band è nel live e non certo nell’ascolto da cd, ma il trio, stando a quanto viene fuori da Moscagrande, deve ancora capire bene come investire la più che buona competenza tecnica che ha, ricercare un’estetica più omogenea e personale, riuscire a trovare una soluzione nella stesura del brano che, pur sposando la ripetizione danzereccia, non cada (e scada) nella noia.