Una cosa é certa: l’attitudine va premiata, sempre e comunque. Nonostante un delicatissimo intervento chirurgico subito la scorsa estate (e l’inevitabile cancellazione del tour europeo 2014), alla soglia dei settant’anni Ian Fraser Kilmister, meglio conosciuto come “Lemmy”, sale nuovamente in cattedra e, a giudicare dal ventunesimo capitolo della pluridecennale saga Motörhead, Aftershock, direi proprio che sta benone. L’amore malsano e struggente per il Rock’n’Roll, nonostante lo stile di vita selvaggio e decadente che troppo spesso ne consegue, può sconfiggere la morte? Beh, considerate le premesse la risposta é si, e l’unica spiegazione plausibile va individuata in un sovrannaturale patto col maligno, punto e basta.
Tuttavia una precisazione é d’obbligo: Aftershock non farà gridare al miracolo, rappresentando certamente un’indubbia battuta d’arresto rispetto al precedente The World Is Yours (2010), ma in ogni caso si tratta di un album in perfetta continuità con un filone creativo che fluisce possente ed inarrestabile da ormai quasi cinquant’anni, come un fiume in piena. La progressiva evoluzione della band verso sonorità Metal oriented, a scapito delle radici Speed Punk degli esordi, é testimoniata in maniera piuttosto evidente e tangibile da brani come “End of Time”, “Going to Mexico” e “Queen of the Damned”, veri e propri locomotori deraglianti lanciati a cento all’ora sulla tortuosa autostrada dell’inferno. Certo, non si tratta di “Ace of Spades” o di “Iron Fist”, ma la botta é dura, e fa male comunque, anche quando il leggendario trio britannico si cimenta in ballate dal sapore squisitamente Hard Blues come “Dust and Glass” (dove echeggiano indiscutibilmente partiture degli australiani AC/DC) e “Lost Woman Blues”. Nonostante il celebre motto della band “all killer, no filler”, la copiosa tracklist di Aftershock (ben quattordici brani) annovera al suo interno anche qualche inefficace riempitivo, ma non c’é da stupirsi, basta prenderne atto. “Motörhead is not simply a band, it’s a genre!”.