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Quadrupède – T O G O Ban
La creatura di Le Mans è uno strano quadrupede, un duo eccezionalmente versatile capace di ostentare i suoi due volti, strutturalmente simili, ma completamente dissimili nella colorazione, come suggerisce la variopinta cover a doppia facciata (opera dell’artista Akatre) nella quale due teste antropiche sono completamente sommerse da flussi di vernice dalle tonalità difformi. Due anime che si avviluppano e moltiplicano in quest’opera attraverso le aperture dell’Electronic sperimentale e del Math Rock. I Quadrupède, giovane formazione in attività da circa tre anni, espandono questo poderoso processo creativo amalgamando arrangiamenti elettronici e classica strumentazione Rock, fatta di batteria e chitarre, collaudando le proprie capacità al fianco di grandi artisti come LITE, Papier Tigre, Woodkid, Adebisi Shank e Lost in the Riots e pubblicando dunque T O G O Ban, esordio dalle rosee speranze. Il lavoro è stato mixato da Matt Calvert (Three Trapped Tigers), masterizzato nella capitale britannica da Peter Beckmann (Sun Ra, The Magic Lantern) e pubblicato dall’etichetta belga Black Basset Records.
Sette brani che non raggiungono la mezz’ora ma che riescono comunque a trascinare, almeno parzialmente, e travolgerci in un ascolto vorticoso e intenso. L’intro celestiale stile Mùm contornato da voci angeliche e monotone presto si fonde con una possente Drum’n Bass (“Beam Pool Mom”) che a sua volta si rivela stilisticamente cangiante e pronta subito a palesare le diverse sfaccettature dell’opera che seguirà. Gli indizi Glith Pop e Noise della parte introduttiva si fanno presto prove (“Via Là”) mentre con “Rhododendron” emerge la vicinanza del duo dei Paesi Bassi con la musica dei cugini Don Caballero, anzi, ancor più con i newyorkesi Battles, in questa parte più che una semplice ispirazione nella combinazione di ritmiche precise e ripetitive e inserti elettronici. Quasi completamente assente l’aspetto lirico e vocale (sospiri e cori perlopiù) mentre più forte, rispetto ai già citati autori del piccolo capolavoro Mirrored, è il fattore Rock duro e crudo che tuttavia si manifesta solo parzialmente nei vari brani con brevi sfuriate che permettono al disco di suonare più carico di quanto non sia effettivamente nella sua totalità; interessanti anche i passaggi Electro/Prog Pop (“ASTRØ”) mentre annoia un po’ la deriva Electro Ambient/Ethereal nella parte finale (“Adulhood”) risollevata dal brusco crescendo potente caratteristico di molti di questi brani. Introduzione compresa, sono ben tre gli intermezzi anche se “Oblong Opale” può piuttosto definirsi come il momento più sperimentale e inquietante dell’album, invece che semplice momento di stacco tra prima e seconda parte.
T O G O Ban è un esordio degno di nota, che colpisce al primo ascolto, anche per la curiosità nei confronti di un certo tipo di Math Rock misto a Elettronica che non troppo spesso (vedi Battles) abbiamo avuto il piacere di ascoltare realizzato con efficacia. Un lavoro riuscito quando più definito e complesso come nel caso di “Rhododendron” ma che finisce per annoiare e suonare indigente quando si dilunga in ridondanze Electro prive di carattere. Complice la brevità, non regge ad ascolti ripetuti ma può essere certo la base per qualcosa di ancor più valido magari in un futuro prossimo.
Múm – Smilewound
Il panorama musicale islandese, mai come negli ultimi anni, ha attirato così tanto l’attenzione su di sé. Sulla scia dei successi internazionali di Björk prima e di Sigur Rós dopo, sono emersi band della forza di Amiina, Agent Fresco, FM Belfast, Of Monsters And Men e i Múm. Pur con declinazioni molto diverse in ogni esito, la formula che sta alla base delle composizioni di questi artisti sembra essere sempre la medesima: una commistione di Pop, musica colta, folklore, elettronica, ciascuna in percentuale diversa a creare un panorama musicale variegatissimo ma anche immediatamente collocabile sul piano culturale-geografico.
Uscito il 6 settembre scorso, Smilewound, l’ultimo disco dei Múm, sembra essere una summa di tutte le precedenti esperienze della band. Il disco si apre col singolo “Tootwheels”, un brano dal sapore particolarmente trip-hop, con un contrappunto di archi pizzicati e pianoforte che lascia lo spazio a sonorità elettroniche da carillon. “Underwater Snow” è una ballad con un’introduzione pianistica alla Yann Tiersen e il cantanto alla Julia Stone (o Emiliana Torrini, se vogliamo pescare fra i connazionali della band). Una rivisitazione degli artifici elettronici anni 80 sembra essere la base di “When Girls Collide” (come della successiva “Candlestick”, in fondo), con un motivetto in loop ipnotico e quasi fastidioso, che però ben si amalgama con le voci spesso in deelay. “Slow Down” ricorda particolarmente Björk ed è forse la traccia più studiata e costruita, con un continuo slittamento di accenti ritmici e l’uso massiccio di rumori coloristici. “One Smile” è il brano che più si discosta dall’omogeneità stilistica del disco: la melodia principale, affidata a un metallofono, rimanda all’estremo oriente e la freddezza del timbro di questo strumento viene subito scaldata dalle chitarre e dagli archi, in un crescendo ritmico-dinamico che diventa una specie di cavalcata nervale frenata solo dalla delicatezza vocale. Per “Eternity Is the Wait Between Breaths” sembra che i Múm si siano rivolti nuovamente a Tiersen: il brano sarebbe perfetto per una sonorizzazione cinematografica, con il mix di rumori sintetici e patina vintage con cui è costruito. “The Colorful Stabwound” è probabilmente la traccia più Pop di tutte, sia per la linea melodica, ben più lineare e convenzionale, sostenuta solo dal basso che scandisce l’incalzante ritmo della batteria, sia per la costruzione strofica.
“Sweet Impression” sottolinea moltissimo la precedente impressione sulla parentela fra la voce dei Múm e le rese canore di Emiliana Torrini e Julia Stone. La mia traccia preferita, comunque, è “Time to Scream and Shout”, meravigliosamente ossimorica, visto che invece di essere urlata, l’esecuzione è placida, greve, con atmosfere trasognanti alla Himogen Heap. Piccola chicca del disco è la collaborazione per “Whistle” con Kylie Minogue che, chi l’avrebbe detto, si amalgama perfettamente col sound della band e non solo non disturba, ma conferisce addirittura un certo tocco di grazia al brano. Smilewound è un album veramente da ascoltare, un bello spaccato della produzione di una band e un gradevolissimo susseguirsi di ispirazioni e suggestioni.
Samaris – S/t
Soffice elettronica Dowtempo, ghiaccioli di piacere etereo e tutta l’Islanda fredda e calda che mai si possa contenere in un disco. È questa la periferica induttiva che il disco omonimo dei Samaris – giovane formazione di Reykjavik – trasmette con una reputazione dolciastra e molto intima, praticamente come vivere e ascoltare l’eco di sé stessi dentro una bolla, un tubo di vetro o che so, un alambicco di cristallo che rimanda cadenze, soffi e sospiri delicatissimi in dodici tracce, un ascolto “moltiplicato” da bagliori bianchi come panna, ben oltre la neve dell’Artico.
E dietro tutta questa esuberanza delicata di suoni, scandagli, rimbombi gommosi e vapori impalpabili. il disco trova la sua dimensione adimensionale, tenero nelle sue esplorazioni elettroniche e fautore di una e più atmosfere dinamiche e rallentate, un ascolto a più livelli di coscienza che non forza nessuna opposizione a questa magia senza peso, tracce (dodici) che arrivano da due precedenti lavori e qui “riassemblati” in una meccanica color perla e prettamente rivolta ai climax che già hanno fatto conoscere al mondo intero i sospiri raggelati e passionevoli di Mum, Sigur Ros, The Knife, e per dirla tutta un disco che scende in verticale in un pathos che fa brividi ed immaginazione oltre le quote delle distanze infinite.
La stupenda voce di Jofridur Akadottir è come una manna che cade lieve su questa stupende ambientazioni sonore, voli e radenti asettici che lambiscono le orge strutturali di ambient e di quelle onde magnetiche che si rimbalzano come swap lunari e che veramente danno la sensazione di non avere più la dotazione della posizione eretta, ma un dolce vacillare, un galleggiare out-weight; illusionistici i bagliori di leggende “raccontati” da percussioni e parole mistiche popolari “Viltu Vitrast”, il basso che detta una linea bluastra a margine di “Goda Tungl”, la cosmicità ritmata dei rimandi “Voggudub” e la dissolvenza di loop, strumenti a fiato e sintetizzatori “Kelan Mikla” che alla fine di tutti i discorsi ed i flash d’ascolto accendono la luce dell’innocenza interiore, quella valvola interna di batticuore silenziato di cui spesso non ci si accorge di averla.
I Samaris vincono la scommessa di stupire e lasciare a bocca aperta molti, la loro è una etera mistica volatile, la nostra è una sorpresa dura a compattarsi. Buon Ascolto e allacciate le cinture di sicurezza, si parte!