“L’ultimo romantico” del cantautorato dei tagli differenti potrebbe veramente essere il siracusano Mario Venuti, non solo perché l’amore inteso come liberazione o più che altro fondamento apparentemente inconsistente potrebbe rientrare tra la stesura di questo nuovo album, ma piuttosto perché le canzoni dell’artista di questo amore ne esaltano le funzioni emotive, fuori dalle consuete simbologie appiccicose, bensì strette come fosse roba di tutti i giorni da conquistare, arraffare o alla fine barattare per un pugno di libertà individuale.
In più Venuti considera gli ultimi romantici – titolo tratto da una felice riesumazione di un successo di quarant’anni orsono di un duo che funzionò come una trappola per hit e classifiche da juke box ovvero Pallavicini/Donaggio – anche tutti i personaggi dell’umanità dietro l’angolo che reagiscono a tanti status quo con un sorriso, una pacca sulle spalle, fantasia e colore, ed è allora che perlomeno se la vita poi rimane la stessa però viene maneggiata con più leggerezza, più divertimento; dodici canzoni d cui dieci scritte con Kaballà che non hanno una unica direzione, girano, impazziscono e a loro modo incantano il ritorno di questo poeta storto a tre anni da quel fortunato Recidivo, album fradicio di amarezze settembrine e marrone come colorito di pelle, un ritorno di tutt’altro graffio, felice ed inquieto come una emozione alle quattro della mattina al centro di un sogno scuro.
In questo disco il senso di rinascita e di contrattacco è forte, solido e friabile insieme, si guarda al futuro con speranza e curiosità allegrotta, e reagisce con infinitesimali rivoluzioni – intime e a fior di pelle – che azzardano, trasgrediscono e sciorinano poetami e dance sopra un piatto d’argento di ottimo eclettismo; punteggiando qua e la lungo lo scheletro dell’album troviamo il pathos etnico che scorre in “Rosa porporina”, il ritmo in levare che ondeggia in “Con qualsiasi cosa”, l’azzardo appunto che stuzzica e disturba il Sir. Mozart di “Là ci darem la mano”, il pastiches borioso eseguito con il coro Doulce Mamoire e diretto da Bruna D’Amico “Gaudeamus Igitur” o più in la il Battiato che fa capolino in “Quello che mi manca”. E sì, e questo l’amore che intende Venuti. gli piacciono tutte quelle quadrature giocose ed eccitanti che va a ritrovare pure nel fondo di bottiglia della dance Settantiana di “Fammi il piacere”, in cui …”…fammi il piacere prova a mettere da un’altra parte il tuo bel sedere, fammi il piacere forse è meglio che torni a fare l’antico mestiere…” è il lascito di una presa di coscienza o la presa d’atto per preservare un posto di lavoro in questi tempi di magra e depressione.
Da ascoltare tra una pausa e una voglia di ristoro.