Nadar Solo Tag Archive

Nadàr Solo (Theater Quinto Festival)

Written by Live Report

Nuovo appuntamento per il Theater Quinto Festival, e nuovo report per noi di Rockambula. Dopo l’entusiasmante serata che ha visto come protagonista Dargen D’Amico e il suo rap anomalo, si cambia registro e genere, per un live all’insegna dell’Alternative Rock nostrano. Gli headliner della serata sono i Nadàr Solo, il trio torinese, che dall’uscita dell’album Diversamente Come? sta girando lo stivale in lungo e in largo riscuotendo sempre maggiore successo e notorietà, grazie a un sound coinvolgente e immediato; ma facciamo un passo indietro. Parlavamo di serata improntata all’Alternative Rock e infatti il menù proposto dal The Theater ci offre la possibilità di ascoltare, come opening act, ben tre band del panorama milanese. Non è mai facile aprire un concerto e scaldare il pubblico, ma diamo atto che tutte e tre le band, che si sono avvicendate sul palco, hanno trasmesso la loro passione, con diverse perfomance ricche di energia. Primi fra tutti i Jana’s; al quintetto milanese spetta aprire le danze, facendosi apprezzare subito dal pubblico. La formula proposta sul palco è quella di un rock deciso e intenso, con una batteria incisiva, molto presente, a volte troppo, e una buona dose di attenzione nei confronti della melodia e delle liriche. Un mix tra brani inediti e cover, nello specifico “Sangue di Giuda” degli Afterhours e un’inconsueta e coraggiosa “Anna” di Battisti. Dopo un inizio a tutto gas si cambia formazione, è il turno dei Tales of Unexpected. Il quartetto ci piace, siamo sempre all’interno del territorio del Rock, ma con un passo diverso, le forti influenze Grunge si fanno sentire decise e il sound generale è più armonioso. Musicalmente il gruppo è interessante e propone brani ben impostati con un giusto equilibrio tra momenti più melodici e momenti più duri; unica pecca il cantato non sempre pulito all’ascolto.

Che dire, al The Theater si suona e anche bene. La terza band già dal nome dimostra il suo lato aggressivo e infatti i Killer Sanchez ci propongono un live d’impatto, con tante carne al fuoco e picchi vicini allo Stoner, che spesso però creano confusione nell’ascolto e il risultato live non è perfetto. Ci siamo, è arrivato il momento di fare una pausa per un veloce cambio palco. Tre band in apertura non sono poche da gestire sia per i tecnici, che si prodigano per fare in modo che tutto funzioni bene nei cambi e sia per gli ascoltatori un po’ impazienti. Nonostante un aperitivo musicale decisamente lungo nessuno ha mostrato segni di scoraggiamento e al momento opportuno si sono tutti radunati sotto al palco pronti per i Nadàr Solo. Si parte con un inizio strumentale, una sorta d’ intro, di quelle che mettono subito in chiaro le cose, e che portano un messaggio preciso: qui si fa Rock, siete pronti? Le canzoni scorrono veloci e il trio per tutta la durata dell’esibizione dimostra un grande affiatamento e un carattere deciso e ben definito, nonostante composto da tre personalità ben distinte, soprattutto nel modo di suonare, e di vivere il live. Cosi che Filippo, il batterista, finisce scatenato e senza maglietta, il chitarrista, Federico, rimane per tutto il tempo perfettamente concentrato e statuario nell’esecuzione, per arrivare fino all’irrequieto Matteo, che si contorce attorno al basso e al microfono. Un mix inaspettato che riesce a creare un live intenso e a dare anche al disco la giusta dose di forza e spessore. Semplicità e passione sono senza dubbio le qualità migliori che emergono al primo impatto, così come la voce di Matteo De Simone, dal timbro quasi acidulo, che ben si mescola con i suoni, senza però perdervisi dentro. D’altronde la qualità dei testi rappresenta un punto di forza di tutto l’album e non poterne cogliere il senso sarebbe un peccato.

Ci avviciniamo alla fine del concerto e in maniera inaspettata abbiamo la possibilità di ascoltare un nuovo brano inedito e a seguire il singolone “Il vento”, corredato dall’immancabile coro del pubblico, e che grazie al featuring con il Teatro degli Orrori ha dato una buona spinta in termini di visibilità a tutto il lavoro. Dopo un’abbondante ora di piacere, arriviamo alla conclusione, anche in questo casa lasciata ad una coda puramente strumentale, quasi liberatoria, una concessione artistica che mostra anche il lato genuino del gruppo. Che dire anche questa sera il The Theater e tutto il suo staff, sono riusciti a creare quella magia che solo i live possono dare, che ci sia poca o molta gente, che l’acustica non sia proprio quella della Royal Albert Hall, che sia venerdì 13 e il meteo non promette niente di buono. Niente di tutto ciò può fermare la voglia di portare avanti dei progetti musicali che contribuiscono a rivitalizzare anche una zona più periferica, come Rozzano. Non ci resta che aspettare la prossima puntata del Theater Quinto Festival, alla quale non mancheremo.

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Dargen D’Amico (Theatre Quinto Festival)

Written by Live Report

Continua il Theatre Quinto Festival e continuano i nostri report dalla cara vecchia Rozzano. Questa volta parliamo di rap anomalo, di pubblico variopinto, di atmosfere festanti e non prive di contenuti…ma soprattutto parliamo di Dargen D’Amico, vero e assoluto protagonista della serata. Una serata che si prospettava sui generis già dalla partenza. Il riscaldamento del pubblico in attesa di DD è stato infatti affidato a tre act molto diversi, che però hanno saputo intercettare il favore del pubblico, interessato fin dalle prime note della chitarra acustica di Bandit, cantautore accompagnato da altre due chitarre – sempre acustiche – a fargli da supporto. Evitato con grazia l’effetto mariachi, Bandit è riuscito a far interessare di sé le tre/quattro file di pubblico già presente, complice l’immediatezza e la simpatia ironica dei suoi brani. Il suo essere seguito con attenzione da un pubblico che ci si poteva aspettare più hip hop-centrico è stato il primo indizio della qualità e della eterogeneità dei fan di Dargen. Sceso dal palco Bandit, prendono il suo posto i Rigor Monkeez, gruppo Hip Hop che è una vera fucina di progetti. I tre corrono come treni, e cercano di scaldare la sala – sempre più piena – con entusiasmo (forse troppo). Il pubblico inizia lentamente a rispondere: i brani dei RM sono densi ma orecchiabili, anche se le basi non spingono quanto dovrebbero. Complessivamente un’ottima prova, che lascia la sala carica e pronta al set dell’ultima apertura, quel Mistico di bocciofiliana memoria, che alza il tiro sparando a tutto volume tre/quattro brani danzerecci e mediamente disimpegnati, per poi, con grande senso della misura, ritirarsi, lasciando spazio all’attesissimo Dargen.

Iniziamo col dire che il grande talento di Dargen D’Amico è saper ammaestrare le folle come un domatore consumato (talento che è secondo solo alla sua maestria nell’uso della parola). Già dai primi momenti, il pubblico è nelle mani del rapper, che, in piedi dietro alla consolle (gestisce da sé le basi e il mixer), pare una figura messianica, un santone, venerato e adorato al ritmo di bassi tribali e mani che si muovono alte nell’aria. È una figura affascinante, che già dall’aspetto non suggerisce la chiusura che ci si aspetterebbe, da profani, nei concerti hip hop: camicia blu, occhiali a specchio, snocciola rime con una voce inconfondibile e una semplicità disarmante. Lo accompagnano, accentuando la sensazione di trovarsi fuori dal circuito hip hop più chiuso, i Fratelli Calafuria, uno per lato, come chierichetti rock ad officiare una messa crossover con chitarre elettriche sopra basi energiche e trascinanti. Dargen inanella i pezzi con sapienza, li introduce con semplicità e simpatia: sa far ridere il suo pubblico, e sa farlo stare attento quando serve. D’altra parte, i fan rispondono benissimo: lo adorano, e si sente. La scaletta è costruita per essere rapida e piacevole, anche per chi, come me, non segue assiduamente Dargen e non conosce a menadito tutta la sua discografia: ingrediente fondamentale è la scelta di eseguire, anche solo per una strofa e un ritornello, molti dei featuring che hanno contribuito a far conoscere Dargen anche al di là della cerchia dei suoi ascoltatori abituali (penso a “Festa Festa” con i Crookers e Fibra, a “Un Posto per Me” di Andrea Nardinocchi, a “Quella Giusta per Te” con Stylophonic e Malika Ayane, ma anche a “La Cassa Spinge” con Dumbblonde e Lucky Beard). Per il resto, la scaletta pesca a piene mani dall’ultimo Vivere Aiuta a non Morire, senza lasciare dietro altri classici come “Sms Alla Madonna” o “Odio Volare”. Non ci si fa mancare neanche un omaggio ai Calafuria con “Bisogna Fare Casino” e, ovviamente, una “Bocciofili” esplosiva con Mistico di nuovo sul palco.

Un concerto intenso, insomma, che, come tutta l’opera di Dargen, può essere vissuto su due livelli: un primo, più immediato, di divertimento e danza, di ritmi e risate e festa, e un secondo, ancora più soddisfacente, fatto di parole e significati, di tecnica acuta e di suggestioni profonde, che però non tolgono nulla alla piacevolezza dell’ascolto e alla tensione del pubblico (“Il Presidente” e “V V”, nonostante lo stile e gli argomenti, hanno elettrizzato tutta la sala, me compreso). Dargen D’Amico è un’artista che si conferma più che capace, un personaggio veramente unico nel suo genere, in grado di unire la profondità del Rap più artistico e per certi versi letterario all’immediatezza anche “cazzona” dell’aspetto ludico e festaiolo dell’Hip Hop, riuscendo a convincere anche chi, come me, nel rap non sguazza troppo spesso. Da vedere se vi va di passare una serata divertente senza offendere la vostra intelligenza: si può fare, e Dargen D’Amico ne è la prova. Appuntamento alla prossima settimana con il report dei Nada’r Solo sempre dal Theatre Quinto Festival, sempre su Rockambula!

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Finley 16/05/2014

Written by Live Report

Iniziamo la nostra copertura del Theatre Quinto Festival, una rassegna che durerà fino a giugno e che vedrà susseguirsi sul palco del locale rozzanese gli act più diversi, dai Finley ad Andrea Nardinocchi, passando per i gli Yokoano, i Nadar Solo e Dargen D’Amico. La serata inaugurale è affidata ai Finley, band che non ha bisogno di troppe presentazioni: scoperti giovanissimi da un sempre vulcanico Claudio Cecchetto, i quattro inanellano successo dopo successo, diventando il paradigma della band gggiovane che “dice” di fare Punk Rock, e diventano presto una rodatissima macchina scalda-ragazzine, passando addirittura da Sanremo. Da qualche anno i Finley hanno aperto la loro etichetta, Gruppo Randa, senza che questo abbia portato ad un cambiamento nella loro proposta musicale. C’è sempre curiosità intorno a gruppi di questo tipo, che appaiono come strane entità create negli uffici di qualche etichetta, scoprendo il fianco a critiche preconcette e a idiosincrasie astratte. Abbiamo cercato perciò di vederli con i nostri occhi, per scoprire come vivono la dimensione del live, il rapporto con il pubblico, le loro canzoni.

Quando arrivo, davanti al Theatre la fila è ancora lunga. Mi dicono che le prime ragazzine si sono presentate all’entrata intorno a mezzogiorno. Si potrebbero fare succose elucubrazioni sull’aspetto socio-psicologico di un concerto dei Finley, ma per quelle vi rimando ad un precedente report… Nel locale sta già suonando il secondo gruppo d’apertura, i Made In Italy, Pop Rock ironico che critica in maniera sottile alcuni stilemi della musica per teenager (dal finto rap di certi pezzi dance alle mostruosità stile One Direction passando, per l’appunto, anche dagli stessi Finley, di cui eseguono una cover “autorizzata” dalla band stessa…). Finito il loro set parte un breve cambio palco e poi eccoli: Ka (chitarra), Dani (batteria) e Ivan (basso, nella band da qualche anno) salgono on stage mentre in sottofondo parte… l’Inno di Mameli. (Non guardate da questa parte, non ho idea del perché. Scelta terribile, comunque).

Passato il momento patriottico, arriva Pedro (voce). Giusto il tempo di tirare una sonora botta di microfono sulla paletta del basso e il concerto parte a bomba, a grappoli di tre/quattro canzoni eseguite spalla a spalla. La prima parte del live è adrenalinica e tesa (“Gruppo Randa”, “Fuego”, “Tutto è Possibile”): i quattro pestano duro, canzoni Rock lineari e senza troppe pretese ma energiche, soprattutto nelle ritmiche, dove si distingue la bravura tecnica del batterista Dani, capace di sostenere groove rapidi e infuocati, vera spina dorsale dello spettacolo Finley. Come sempre, il rapporto con i fan è centrale: molto più che in altri casi, il concerto è letteralmente fatto per loro. Non manca nessuna canzone delle più famose (ci sarebbero disordini e sommosse), e i ringraziamenti al pubblico sono ubiqui e continui: grazie a chi arriva da lontano, grazie a chi ci segue dagli inizi, grazie a chi ci supporta e ci permette di continuare a fare musica. Il concerto prosegue caldissimo, i pezzi lenti sono veramente pochi: ci si concentra sulla velocità, sulla melodia di ritornelli cantati in coro a squarciagola (“Un’Altra Come Te”, “Adrenalina”, il richiamo al ritornello di “Dentro alla Scatola”). I pezzi sono tutti classici del loro repertorio: testi banali fatti per essere imparati a memoria e cantati a pappagallo, alcuni con prese di posizione apparentemente forti ma basate sul niente, come “La Mia Generazione”, che fa tanto effetto fiction di Rai2. Mi accorgo peraltro che alcuni momenti del live sono estremamente preparati: la presentazione in medias res de “La Mia Generazione” è la stessa identica che fecero l’anno scorso quando li vidi la prima volta, e anche l’introduzione di “I Fought the Law” dei Clash rimane uguale, come uguale rimane l’idea di far salire Roberto Broggi ad accompagnare il brano con il violino, promuovendo l’operazione benefica Punk Goes Acoustic ideata da Andrea Rock, che verso la fine del concerto verrà ospitato dalla band per qualche brano, tra cui una “Blitzkrieg Bop” abbastanza spompa. Ma prima il live fa in tempo a rallentare un po’, mentre i Finley si danno a “Ricordi”, loro brano sanremese che si porta dietro tutti i cliché del caso. La gente inizia piano piano ad uscire, il concerto si sta allungando (non credete chissà che, avranno superato a malapena l’ora, a questo punto: ma non stiamo parlando di Springsteen, stiamo parlando dei Finley).

Dopo il già citato passaggio sul palco di Andrea Rock, la band ci abbandona per qualche minuto, dando il tempo al pubblico di intonare “Diventerai una Star”, il loro pezzo più famoso. Scatta quindi l’encore, con partenza acustica e pianti tra il pubblico (giuro) per “Fumo e Cenere”, seguita a ruota dall’ultimo brano, “dedicato a chi pensa che abbiamo fatto solo questa”, ovviamente, “Diventerai una Star”, cantata da tutto il pubblico con una sola voce. Applausi, saluti, inchini. I Finley mi confermano così tutte le impressioni che già avevo avuto l’ultima volta, un anno fa: una band tecnicamente mediocre (a parte forse Dani, il batterista), sicuramente professionale e capace di gestire in modo sufficiente un palco e una platea di questo tipo, dando al pubblico tutto ciò che vuole e facendo più spettacolo che musica. Le loro canzoni sono banali, vuote di senso, niente più che materia vendibile, e infatti funzionano benissimo nelle pubblicità, a Sanremo, e con le ragazzine (ma non solo: si segnalano anche quarantenni ballerine e più-che-ventenni ubriache e scatenatissime, oltre a parecchi individui di sesso maschile, anch’essi esaltati). È musica da vendere fatta da un gruppo costantemente in vendita, e che, purtroppo, la gente non smette di comprare. Una volta accettato questo, il live assume le caratteristiche di un evento eseguito con professionalità e mestiere. Ma la passione e l’arte stanno tutte da un’altra parte.

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A Night Like This: lineup completa

Written by Senza categoria

L’Associazione culturale A Night Like Thisin collaborazione con il Comune di Chiaverano, annuncia la line up completa di A Night Like This Festival, che ritorna per il terzo anno consecutivo il 19 Luglio 2014 a Chiaverano (TO). Art Pop, Synth Pop, Elettronica e Neo Psichedelia sono il filo conduttore di questa terza edizione. E tre sono gli artisti da oltreoceano in esclusiva per il Nord Italia per A Night Like This Festival 2014: Austra, trio Indie Electro canadese in perfetto equilibrio tra elettronica pulsante e un Folk ancestrale, sublimato dall’espressività vocale della bravissima cantante Katie Stelmanis; The Soft Moon, band Neo Post Punk americana guidata dal visionario compositore Luis Vasquez in ricerca del lato morbido della luna. La band ha accompagnato i Depeche Mode per il loro ultimo tour europeo; Slow Magic, dagli USA un ragazzo che si nasconde dietro ad una coloratissima maschera, a cui piace definirsi “il tuo amico immaginario” e che ti coinvolgerà in un viaggio di canti tribali ed atmosfere sognanti.

Inoltre: Soviet Sovietche con il loro album d’esordio Fate hanno fatto del Post Punk un mero punto di partenza, un’idea da colorare con le mille sfumature del loro inconfondibile sound. His Clancynessla band meno italiana dello stivale, con un sound moderno, affilato e cosmopolita. Nadàr Soloil trio che coniuga poesia Rock a live potenti e mozzafiato che stanno conquistando il pubblico un concerto dopo l’altro.

Gli altri artisti della terza edizione di A Night Like This Festival, saranno:
Niagara, Wemen, Flowers or Razorwire, Love The Unicorn, Il Terzo Istante, Invers, Johnny Fishborn, Mascara , Pocket Chestnut, Indianizer, The Gluts, Sorriso Tigre, Nobody Cried For Dinosaurs, Yellow Traffic Light.

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Le Fate Sono Morte

Written by Interviste

Ciao ragazzi, cominciamo dal principio: chi sono le Fate? E come sono morte?

ANDREA: ciao, Le Fate Sono Morte sono cinque ragazzi che vivono tra Milano e Varese e hanno deciso di fare musica e di creare un progetto personale che potesse esprimere al meglio i propri sentimenti e pensieri. Andrea (voce e chitarra), Giuseppe (batteria), Daniele (violino), Riccardo (basso), Federico (chitarra). Le fate, in fondo, non sono mai morte per noi; il nome sta a rappresentare la fine delle illusioni giovanili, ma allo stesso tempo l’inizio di una crescita interiore. La band si è formata nel 2008 con svariati cambi di formazione che ha portato sino a quella attuale. In realtà per noi la parola morte nel nome non deve esser presa come negativa ma un pensiero positivo che ti possa far pensare che la fine non sia una vera fine ma un nuovo inizio.

Il vostro ultimo album s’intitola La Nostra Piccola Rivoluzione. Di quale piccola rivoluzione stiamo parlando? Che cosa è realmente cambiato dopo l’uscita di questo disco?

PEP: il titolo del nostro album ha un duplice significato. Il primo inteso come rivoluzione nel senso di riuscire a registrare un disco in modo indipendente, senza l’appoggio di nessuno se non delle persone che da anni ci seguono, ci supportano e ci vogliono bene. Il secondo ha un significato più profondo. Quest’album tratta di rivoluzioni personali che, seppur piccole, possono cambiare le nostre vite. Ognuno di noi ha dei sogni e il fare di tutto per realizzarli può portare a una svolta epocale nelle nostre piccole esistenze. Dopo l’uscita del disco è cambiato l’interesse della gente nei nostri confronti, che di giorno in giorno capisce il nostro messaggio e ci supporta e di questo siamo loro sempre più grati. Speriamo di vederli sempre più numerosi ai live.

Leggo sul vostro sito che attingete il vostro suono dal Cantautorato, dal Rock nostrano, dal Post Grunge e dal Pop. Ci fate qualche nome in particolare? Chi sono i vostri riferimenti?

ANDREA: noi veniamo da svariate influenze essendo persone molto diverse una dall’altra e avendo anche età molto varie (18,23,24,32,35). I riferimenti a cui m’ispiro o da cui vengo influenzato posso dire siano band come: Le Luci della Centrale Elettrica, Giuliodorme, Marlene Kuntz, Afterhours, Giorgio Canali, Nadar Solo tra le band della scena underground ma non disdegno neanche i vecchi cantautori che hanno fatto la storia del nostro Paese o quelli contemporanei.

PEP: io amo tutti i gruppi sopra citati da Andrea ma al contempo sono un grande appassionato di elettronica/strumentale (Aucan o Tyng Tiffany per citare qualche band italiana, Crystal Castles, 65days of Static, ecc). Diciamo che dall’incontro di tanti generi differenti è nato questo disco.

Leggo inoltre che traete ispirazione anche dai libri letti. La cosa è molto interessante. Anche in questo caso, di che libri stiamo parlando? In che modo entrano a far parte della vostra musica?

ANDREA: esatto. Penso sia normale che ogni cosa ci possa influenzare, noi diamo molta importanza ai testi e alle parole; questo ci porta anche a leggere spesso libri e a vedere film, mostre ecc, Un po’ tutto aiuta, il cervello è una gran bella macchina che assorbe tutto, lo rielabora e crea uno stile personale. Penso sia così per tutti. Nello specifico, ho inserito il nome di Alda Merini a cui ho dedicato la prima canzone “A Parte il Freddo” in quanto per un periodo le sue composizioni sono state una specie di colonna sonora della mia vita. In un altro brano “In Ogni Mio Sorriso” mi riferivo alla poesia di Giovanni Pascoli “10 Agosto”.

Nel corso del tempo avete cambiato più volte la vostra formazione. Questo ha portato anche a un cambiamento del vostro sound? Se sì, in che modo?

ANDREA: durante gli anni le priorità delle persone e le vite chiaramente cambiano e così, a volte a malincuore, a volte per scelte differenti, abbiamo cambiato elementi della band. Il sound è cambiato perché siamo cresciuti, gli elementi che sono arrivati dopo hanno solo arricchito e reso possibile quello che era il sound a cui volevamo arrivare quando siamo partiti. In futuro cambieremo ancora ed è giusto sia così perché l’esperienza e la vita aiutano anche a migliorarsi o a seguire diverse idee.

La bonus track del vostro ultimo disco s’intitola: “La Storia Non Siamo Noi”. Si tratta per caso di una dichiarazione di guerra a De Gregori?

ANDREA: Ahahah, no direi di no. De Gregori è uno di quei cantautori a cui mi riferivo nella terza risposta. Più che altro è una presa di coscienza del fatto che in questo periodo siamo troppo presi da noi per riuscire a fare qualcosa, ognuno ha la sua storia che va troppo veloce e si fa fatica a pensare ad altro, siamo diventati tutti molto più egoisti negli ultimi anni, delusi, disillusi, si salvi chi può insomma. Il titolo dell’album poi riprende anche questo messaggio. Se ognuno di noi facesse qualcosa di buono nel proprio piccolo per questa società, sarebbe un altro mondo. Spero non sia solo utopia.

PEP: come dice Andrea il messaggio di questo disco è racchiuso soprattutto nei due pezzi finali “La Storia Non Siamo Noi” e “Niente”, al quale sono particolarmente legato. Dire “La Storia Non Siamo Noi”, non significa “non possiamo fare nulla per migliorare il futuro”, ma anzi “la storia non sta nell’individualità e nell’egoismo dei NOI intesi come singoli, ma nella collaborazione, bellissima parola ormai in disuso”.

Dalla vostra musica, dai vostri testi, dai vostri video, emerge un pessimismo denso, una nebbia fitta nella quale è avvolta tutta una generazione, quella che voi e qualcuno prima di voi ha collocato negli “anni zero”. Oltre a constatare questa dura realtà, c’è un modo in cui pensate di combatterla?

ANDREA: più che pessimismo cerco di esser realista. Con gli anni e crescendo sono diventato molto più positivo e credo in un possibile miglioramento di questa situazione, ma su larga scala non saprei in che modo poter migliorare questo mondo, quindi mi limito a cercar di fare il mio ed esser sempre il meglio di quello che posso essere. Cerchiamo di trasmettere, per noi è fondamentale arrivare alle persone e riuscire a far provare qualcosa.

PEP: diciamo che ci limitiamo a descrivere una situazione, quella nella quale noi e tanti altri giovani vivono oggi. Non è un pessimismo fine a se stesso, come detto prima. C’è sempre un soffio di speranza in ogni canzone, una luce alla fine di questa fitta nebbia.

Il vostro logo rappresenta una fata trafitta da una penna che, immagino, le tolga la vita. Il messaggio che ne traggo è che date molta importanza alle parole; per voi possono avere anche un significato mortale. Qual è il messaggio che invece volete trasmettere?

PEP: come dici tu, per noi le parole hanno una potenza incredibile. Sono più forti di un pugno, più violente di qualsiasi gesto, quindi possono fare male. Ma questa potenza può essere usata anche per aprire gli occhi alle persone. Trafiggere la fata vuol dire uccidere le illusioni giovanili. Ma penso che anche dalla disillusione non debba automaticamente nascere un pensiero pessimista (anche se può sembrare quello più scontato). Questo però è un discorso ampissimo, se volete andiamo a prenderci una birra e ne parliamo per ore!

Siamo giunti alla fine. Per concludere, quale domanda importante non vi ho fatto, alla quale avreste voluto rispondere?

PEP: “Siete davvero convinti che non diventerete niente?” Forse, ma noi ce la stiamo mettendo tutta per diventare grandi e forti insieme, alla faccia di chi continua a lanciarci fango addosso.

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Annunciata l’edizione 2013 del Reset Festival!

Written by Senza categoria

Musica Incolta sarà la nuova edizione del _resetfestival che animerà Torino dall’11 al 14 settembre 2013: protagonista la musica emergente come germoglio non ancora colto, pianta selvatica, vergine ai compromessi e ai sistemi di mero business. Di seguito il calendario:
Torino, Mercoledì 26 Giugno con i Nadar Solo
Band simbolo dell’indie rock torinese, nel 2013 Nadar Solo hanno pubblicato il nuovo album “Diversamente, come?”. Singolo di lancio e simbolo di una lunga collaborazione su vari fronti artistici, il brano “Il Vento” è realizzato insieme al Teatro degli Orrori.
Milano, Mercoledì 3 Luglio con Bianco
Cantautore sognante in cerca di una strada tra la Terra e il Sole, con il suo disco “Storia del futuro” Bianco ha collezionato collaborazioni eccellenti come i conterranei Perturbazione. Per l’estate 2013 si prepara ad aprire il tour di Niccolò Fabi sui palchi di tutta Italia.
Torino, Mercoledì 10 Luglio con Levante
La giovane siciliana trapiantata a Torino è già diventata il tormentone dell’estate e un hashtag imprescindibile su Twitter con il suo “Alfonso” e #chevitadimerda. L’album “Manuale Distruzione” farà il resto.
Milano, Mercoledì 17 Luglio con Massaroni Pianoforti
Un nonno liutaio e un padre che restaura e vende strumenti musicali. Il giovane “cantautonomo” ha la musica nel sangue. Un destino quasi inevitabile, che non a caso onora con il suo nome d’arte.

I luoghi dei concerti saranno svelati nei due giorni precedenti ad ogni evento. Per partecipare o proporre la propria casa per i concerti di _re(live)set basta scrivere una mail a partecipare@reset.to.it specificando data e artista di interesse.

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Nadàr Solo – Diversamente Come?

Written by Recensioni

Diversamente come? Partiamo da questa semplice quanto necessaria domanda. Domanda che blocca in uno stato di estrema staticità. Ci dimeniamo, sbraitiamo, ci incazziamo contro un sistema, una quotidianità che non riusciamo proprio ad accettare. Ma poi da dove iniziamo domani mattina? Come muoveremo i nostri muscoli per fare in modo che questo presente ci appartenga di più? Come faremo a sfruttare le opportunità se ad un certo punto ci prendessero per mano? Avremo anche solo il timido coraggio di stringerla questa mano oppure ce la faremo sfuggire? Se questo “vento tornasse a soffiare” sapremmo cosa fare oppure rimarremo fermi noi, attori di un vigliacco scambio delle parti?
Da quanto avrete capito il nuovo dei torinesi Nadàr Solo ha suscitato in me parecchi quesiti. Incastonati uno dietro l’altro. Un disco che muove le rotelle del cervello con le sue parole fitte e dirette, tra piccoli drammi quotidiani e decadente cultura popolare, tra poesia di strada e luoghi comuni smontati, tra le miriadi di filastrocche accompagnate da sali e scendi che accompagnano le nostre sensazioni. Questo album è per altro suonato benissimo, non eccede e segue la sua linea dritta, a volte fin troppo sicura e marcata. In ogni caso il suono si plasma sempre perfettamente sulle corde e sui testi di Matteo De Simone, arrivando a graffiare dove la sua soave ugola accarezza.

Ma torniamo alle domande. No, non troviamo risposte, ma solo altri punti interrogativi. Sempre più fitti, sempre più ampi e che allargano il cerchio come il disegno di una nuvola pasticciata che copre sempre di più un cielo azzurro, nuvola che perde la sua forma ma non il presagio di pioggia. E presagio è anche il coro inaspettato nell’apertura di “Non conto gli anni”, sintomo di uno stato confusionale costante. Corsa forsennata a testa bassa, corpo ricurvo in avanti. Tentativo disperato di spostare l’aria statica che ci circonda, il tutto poi arricchito da basso bello pulsante, rullante magistrale e qualche chitarrina alla Coldplay che male non fa e colora un po’ la grigia nube che inizia ad infittirsi.

Le occasioni per tirare il fiato ci sono, boccate d’aria amara e malsana in “La ballata del giorno dopo”: lentamente ci torna su tutto lo schifo. La canzone dell’hangover rende davvero ridicoli noi che continuiamo a giocare al “carpe diem” nei tristi sabati sera metropolitani. “Le case senza le porte” ci consegna una band in splendida forma: dinamica, passionale, dall’anima viscerale, primordiale. E poi non lamentatevi che in Italia non abbiamo band rock’n’roll. “L’amore sta nelle case in rovina che cadono a pezzi senza padrone, sta nelle case senza le porte, che quando piove ci posso entrare, ma cosa volete che sappia io che non sono capace ad amare”. La pioggia inizia a scendere ma sappiamo momentaneamente dove ripararci. Uno dei momenti più lucidi del disco.
Il manifesto dei Nadàr Solo rimane indubbiamente “Il vento” che vanta la partecipazione de Il Teatro degli Orrori al completo. Quest’altra perla di magistrale musica popolare ci descrive alla perfezione lo stato d’animo che aleggia nel disco. La voce di Capovilla rinforza e riesce a delineare tutte le linee pasticciate nel cielo. Angoscia? Forse. Per ora mi accontento di un pezzo che è pura esplosione di emotività. E tra la gigantesca nuvola grigia confusamente disegnata si intravede qualche sprazzo di azzurro. E tanto rosso.

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NADAR SOLO

Written by Interviste

E’ una delle poche volte in cui avverto un’attesa, tensione positiva. Una fionda tirata quasi a strappare l’elastico. Pronta a lanciare un sassolino intento a crepare la dura corazza di indifferenza verso la musica che nasce dalle cantine piemontesi. E che troppo spesso nelle cantine ci rimane.
I Nadar Solo sono attivi dal 2005 nel nome del rock italiano dritto e vero. E ora sono ben pronti a presentarci il loro nuovo album: “Diversamente come?” (Massive Arts, nei negozi dal 29 Gennaio). Da qualche giorno gira in rete il video de “Il vento”, brano che anticipa il disco e (giusto per aprire un po’ di più la crepa) si avvale della partecipazione de Il Teatro degli Orrori al completo.
Ma quali crepe allora! Tocchiamo ferro, ma qui ci sono tutti i presupposti per spaccare a colpo sicuro la corazza. Rockambula incontra Matteo De Simone, voce e basso della band.

Intitolate il disco con una domanda spiazzante. Ma che cos’è secondo voi “il diverso” al giorno d’oggi?
Matteo: Il diverso è sempre stato ed è ancora tutto quello che ci fa paura. Assume un colore negativo quando lo viviamo come una minaccia ai capisaldi della nostra sicurezza, perché contiene in sé la possibilità del cambiamento. Ma la possibilità di un cambiamento può significare anche speranza nel momento in cui il nostro presente sia tutt’altro che sicuro e confortevole, come in questi anni difficili. Il grande Monicelli disse “La speranza è una trappola” e questo è vero su un piano politico, ma sul piano individuale la speranza è il motore dell’evoluzione personale, il presupposto per un’esistenza progettuale e soddisfacente. Il problema oggi è ritrovare la fiducia nella possibilità di un cambiamento, perché la trappola in cui siamo invischiati non è la speranza, ma la sua morte: l’apatia, la rassegnazione. La domanda del titolo è la domanda di chi non sa che pesci pigliare.

Nel disco precedente “Un piano per fuggire” (Massive Arts, 2010) dominava il desiderio frenetico di scappare, di voltare pagina, di rifugiarsi nell’isola che non c’è. Ora invece sembra che vi siate fermati ad affrontare la cruda realtà. La guardate in faccia e non è per nulla divertente. Fuggire rimane un’alternativa valida o è pura illusione? Come sono cambiati i Nadar Solo in questi tre anni?
M: Quel sentimento sopravvive. In “Le case senza le porte” diciamo: “Perciò tu che non hai gradito quando ti ho detto ‘ora devo partire’, sappi che io ti ho molto capito, mentre tu devi ancora guarire.” La fuga che avevamo e abbiamo in mente è del tutto simbolica e significa che bisogna cercare di vivere mettendo a fuoco quel che davvero conta per un essere umano e per la sua realizzazione interiore. In fondo decidere di fare i musicisti e ancor di più in questo Paese e in questo momento storico è il nostro piano per fuggire e quello di molti altri. Probabilmente tre anni fa eravamo un po’ meno maturi e così ci siamo concentrati sulla fuga. Questa volta ci siamo messi a studiare per prima cosa il carcere che ci rinchiude, che forse è il punto di partenza migliore perché un’evasione vada a buon fine.

Nonostante i testi riflettano spesso frustrazione e rabbia, la vostra musica rimane calda, rossa, propositiva. Quanta speranza c’è nelle vostre canzoni?
M: Tanta. Ed è tutta nella musica.

Il vostro nome è preso da un film argentino semisconosciuto che racconta la storia di un adolescente che cerca suo fratello. Cosa vi ha portato ad usare questo nome? E qual’è il filo logico che connette la pellicola alla vostra musica?
M: Ci piacque il film, che parla della solitudine dell’adolescenza con grande autenticità, e il suono del nome. E poi proprio in quel periodo ci apprestavamo a registrare il nostro primissimo album/demo completamente autoprodotto. Facevamo tutto da soli, così come abbiamo continuato a fare per un bel po’ e l’idea di chiamarci “Nuotare da solo” ci sembrava azzeccata.

Il vostro sound a mio avviso è un ricco e personalissimo mix tra: il pop dei Coldplay, l’hard rock dei Led Zeppelin, lo zoccolo duro degli Afterhours, filastrocche punk e le migliori melodie della canzone italiana. Cosa vi appartiene di più? Quando da ragazzini avete iniziato a suonare cosa vi immaginavate di diventare?
M: Penso che non ci immaginassimo granché. Eravamo influenzabilissimi, le mode del momento ci passavano accanto e ci seducevano e da tutte quante prendevamo quasi senza rendercene conto. Ci è voluto un bel po’ di tempo per sviluppare una poetica personale che è naturalmente un mix di tutti i nostri ascolti passato nel filtro delle persone che siamo diventate. Tutte le band che hai citato fanno parte dei nostri ascolti e tutte ci appartengono più o meno allo stesso modo (i Coldpay forse un po’ meno…).

Impossibile evitare questa domanda. Io non sono assolutamente un estimatore de Il Teatro Degli Orrori, ma la presenza di Capovilla e della sua band nel vostro brano “Il vento” aggiunge colore (molto scuro) al pezzo. Raccontaci un po’ come vi siete conosciuti e come è nata la collaborazione.
M: Ho scritto per la prima volta a Capovilla nella primavera del 2011. Stava per uscire il mio secondo romanzo, “Denti guasti” e gli dissi che mi sarebbe piaciuto avere una sua prefazione. Lo lesse molto in fretta durante il tour coi One Dimensional Man e nel giro di una settimana mi mandò lo scritto. Poi abbiamo organizzato un reading improvvisato durante Il Traffic Festival di quell’anno, poche ore prima della sua esibizione con Il Teatro degli Orrori. Ci siamo divertiti e all’inizio del 2012 si è presentata l’occasione di mettere in piedi un vero e proprio tour di letture. Abbiamo passato una settimana insieme giorno e notte, tra prove e viaggi da una città all’altra e a quel punto, quando di lì a poco con i Nadàr Solo abbiamo cominciato la preproduzione dell’album, è venuto naturale chiedergli di cantare con noi una parte di un brano. Quello che non ci aspettavamo è che lui ci chiedesse di poter partecipare anche come autore e soprattutto di poter coinvolgere anche Giulio, Gionata e Franz. Ha reagito con un entusiasmo sorprendente.

Rimanendo in tema, il tuo romanzo “Denti Guasti” (Hacca, 2011) narra le vicende di due giovani immigrati e pare essere stato fonte di ispirazione per la stesura dei testi dell’ultimo album de Il Teatro degli Orrori “Il mondo nuovo”. Quanto questo romanzo ha invece influenzato le tematiche del vostro nuovo album?
M: Capovilla ha letto “Denti guasti” proprio mentre – io non potevo saperlo – stava concependo con Giulio e gli altri un concept album sull’immigrazione. E’ naturale quindi che il libro gli abbia raccontato qualcosa, perché trattava proprio degli argomenti che gli stavano a cuore in quel momento. Per quanto riguarda il nostro disco, non c’è invece pressoché nessuna relazione con il romanzo. Anche se per quanto riguarda i testi scritti da me, l’approccio è simile: raccontare storie piccole, concrete, intime, perché l’emozione che ne scaturisce dipinga il sentimento, anche storico, di un’epoca. Questo è quel che cerco di fare. Una band che ascolto molto in questo periodo, il Management del dolore post Operatorio, dice che “La storia è la sommatoria di tutte le emozioni.” Lo credo anch’io.

Rimaniamo in tema collaborazioni e passiamo alla vostra esperienza con il concittadino Daniele Celona. Come ci si sente ad essere la band di un cantautore? Quanto vi sentite “Nadar Solo” in questa situazione?
M: Con Daniele facciamo tutto insieme da anni. Ci ha aiutato a preprodurre “Un piano per fuggire”, mi ha accompagnato nei reading di “Denti Guasti”, abbiamo visto nascere le sue canzoni e suonare con lui è assolutamente naturale. Per noi poi, a parte il fatto che a cantare non sono io, non cambia praticamente nulla: suoniamo esattamente nella stessa maniera.

Siete sotto Massive Arts, etichetta indipendente milanese. Quanto è importante al giorno d’oggi per una band come la vostra avere un’etichetta discografica?
M: Importante, ma non essenziale. Noi siamo fortunati perché la nostra etichetta produce alla vecchia maniera, finanziando il progetto dall’inizio alla fine. Ma la maggior parte delle etichette indipendenti oggi co-produce, il che significa che l’artista si paga il master di tasca propria. Ma se l’etichetta non si trova e dopo lo studio avanza qualche risparmio, il consiglio è di investirli in un buon ufficio stampa.

Torino è vivissima negli ultimi anni e sta sfornando realtà musicali sempre più concrete e personali. Quali sono le band della vostra città che supportate maggiormente?
M: A parte Daniele Celona, ci piacciono molto Bianco e Orlando Manfredi aka Duemanosinistra, che con il nuovo album farà sicuramente parlare di sé. Personalmente mi affascina anche il progetto Niagara di Davide Tomat e Gabriele Ottino.

E ora spara qualche anticipazione del tour. Dove vi porterà questo nuovo album?
M: Per cominciare faremo tre date di presentazione a Torino (Astoria, 27 febbraio) Milano (Cox18, 2 marzo) e Roma (Circolo degli Artisti, 6 marzo) e sarà con noi anche Pierpaolo Capovilla. Subito dopo partirà il tour vero e proprio.

Matteo un bel saluto ai lettori di Rockambula e buon rock’n’roll a te e ai ragazzi!
M: Buon rock ‘n roll a tutti, specialmente ai lettori di Rockambula!

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ARRIVA IL NUOVO DISCO DEI NADAR SOLO (ascolta in home “Le Case Senza Le Porte”)

Written by Senza categoria

I torinesi Nadar Solo sono pronti a presentarvi il loro nuovo album “Diversamente Come?” (Massive Arts) in uscita Martedì 29 Gennaio. Il disco vanta la collaborazione di artisti del calibro de Il Teatro Degli Orrori che hanno partecipato alla stesura e alla realizzazione del brano di presentazione del disco: “Il vento”.
Su Youtube potete comodamente cercarvi il video del “duetto” e intanto Rockambula fa l’alternativa e in playlist vi fa ascoltare un altro estratto dal nuovissimo lavoro dei Nadar Solo: “Le case senza le porte”.
Aprite le vostre di porte, sentirete parlare di loro. Sicuramente qui su Rockambula.

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Daniele Celona – Fiori e Demoni

Written by Recensioni

Tutte le mattine ci soffermiamo un momento davanti allo specchio. A volte solo per guardare se stiamo perdendo qualche capello o se ci sono spuntati dei punti neri sul naso. A volte per fare due conti con il nostro presente e (anche se si spera di no) con il nostro passato. Dopo aver cincischiato davanti al nostro specchio inizia il mondo che osserviamo: per strada, in viaggio, in tangenziale, in fabbrica, davanti al pc, a scuola, in televisione, in vacanza. Lo immagazziniamo e ritrasmettiamo dai nostri occhi. Occhi riflessi dal nostro specchio quando rincasiamo la sera.
Questa procedura è molto analitica e indubbiamente una stupida semplificazione di ciò che si spera sia un sentimento umano, ma a me pare essere vicina all’ “esercizio” eseguito dal cantautore torinese Daniele Celona in “Fiori e demoni”. Il disco non si capisce al volo, nasconde passaggi contorti e ingarbugliati, ma sprigiona una capacità di espressione diretta e semplice, che mi cattura e mi fa perdere più tempo del solito ad analizzare ogni singolo particolare.
Questo album è proprio lo specchio riflesso della nostra società vista da un ragazzo che non nasconde le ombre e le sfumature. Daniele utilizza un pennello con la punta molto fine e delinea con esattezza ritratti moderni, vicini a lui, ma anche a noi, alla gente che lo osserva e che lui a sua volta studia. Il suo soggetto è la vita umana. Quella letta sui rotocalchi, quella che si consuma nel posacenere sul balcone di casa, quella raccontata agli amici stretti ma che forse si capisce solo nelle parole delle canzoni. Pare essere un esercizio molto difficile, molti cascano in frasi espresse “per sentito dire” o si perdono in filosofie da bar. Daniele ha la capacità di incanalare rabbia, passione, sconforto in melodie accarezzate dalla sua eclettica voce. Demoni che diventano fiori. Rose spinate, bellissime e profumate ma pungenti se non addirittura taglienti. Ballerine decadenti che danzano eleganti in mezzo a distorsioni e carezze.
“Ninna nanna” è l’inizio spietato. Il rock, la cronaca e la poesia si mescolano con incredibile equilibrio e dinamica. La metrica storpia e cadenzata ci butta in un inferno ben scandito da innumerevoli colpi di rullante. La ninna nanna ci porta dritti in un incubo: lo spettro delle centrali nucleari in Sardegna (seconda casa del cantautore) prima del referendum. Certo Il Teatro degli Orrori domina sovrano in mezzo alla moltitudine di parole feroci e ritmi forsennati, ma la voce di Celona scavalca la pomposità e la forma decadente di Capovilla, per arrivare direttamente al punto. Farci aprire gli occhi. L’incubo lo stiamo vivendo per davvero.
La classe viene poi subito confermata dall’incredibile “Mille Colori”, una montagna russa di dinamica tra ritornelli memorabili e sospiri parlati. Daniele esplora tutte le sfumature e tutti i contrasti di un amore finito. Spaventosamente visiva e materiale e allo stesso tempo incoerente, irrazionale e visionaria.
“Acqua” è forse l’episodio più pop ma non per questo meno intenso. Anzi la canzone abbatte prepotentemente le barriere tra scorci realistici della nostra società e rabbia personale. Un piccolo gioiello pop che lava via la superficialità e il pressappochismo.
La feroce critica alla società si fa ancora più spazio e si insidia nelle corde vocali di Daniele quando partono “Cremisi e “L’alabastro di Agnese”, quest’ultima caratterizzata da una singolare struttura strofa-ritornello e dalla ricorrente cantilena.
In tutta questa carne al fuoco le parole non mettono mai in secondo piano gli arrangiamenti e la maestosa botta creata dalla band alle spalle di Daniele. I Nadar Solo sono ormai da qualche anno uno dei migliori prodotti del panorama italiano e accompagnano con grande dimestichezza l’elasticità vocale del cantautore. Tutto accelera e rallenta simultaneamente, l’alchimia è spaventosamente perfetta.
“Il Quadro” è il ritratto e la summa del nostro percorso. Dopo aver osservato tutto ciò che ci circonda e ci punzecchia dall’esterno ci ritroviamo davanti alle nostre ragioni. Siamo qui a osservare noi stessi, con quel senso di impotenza: proviamo a cambiarci la pelle ma quello che abbiamo davanti è peggio di uno specchio, è un quadro imperturbabile. Prendere o lasciar perdere. E un disco così ce lo prendiamo tutto: intimo e collettivo

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