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Le Storie – Vieni Con Me BOPS

Written by Novità

Forse suona un po’ anacronistico questo primo album dei romani Le Storie, ma ha dalla sua un atteggiamento quieto e pacato, privo (per fortuna?) di pretese rivoluzionarie. Sta al suo posto, ben delineato e non vuole strafare. Ligabue, Ruggeri, Rats sono solo i primi nomi che mi vengono in mente per descrivere quello che è un classico tuffo negli anni 90, un tentativo (direi anche riuscito) di suonare Rock in Italia, senza sfoderare i nervi implacabili dei Ministri o senza seguire onde latineggiati alla Negrita. Una via facile certo, ma non per questo così fuori dal tempo e innaturale.

“Guardando in Cielo” ci fa intuire che quando riabbassiamo gli occhi puntati verso l’alto, vediamo una lunga e deserta highway americana (e questa fuori moda non ci andrà mai). E nonostante gli incastri vocali forzati e l’assolo eccessivo (non è l’unico purtroppo) il pezzo si salva dignitosamente. “Uomini di Niente” paga il suo tributo alla grande musica popolare italiana, guarda indietro fottendosene delle tendenze. Racconta con meticolosità la vita di mare in un testo che sembra estrapolato dagli antichi archivi dei Nomadi, “Sfido Dio con le stelle e il sole”, la canzone sembra dalla rima sempliciotta ma mantiene alta la dignità, certo il finale stride un po’, forse più perché inatteso che per altri motivi. Il temporale che anticipa “Lontano” è invece solo presagio di una semplice e bella canzone, ben arrangiata nonostante qualche eccessivo fasto tecnico e suoni di chitarra che (si questi ora si!) suonano anacronistici.

In fin dei conti se volete liriche illuminate, canzoni graffianti, carisma da poeti decadenti questo non è il disco per voi, ma se vi accontentate di buone e semplici storie e di un buon esercizio di rock’n’roll all’italiana, siete nel posto giusto.

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Pablo e il Mare – Miramòr

Written by Recensioni

Non è facile fare un disco pop senza risultare banali, già sentiti, scontati. Non è facile, pure nella banalità, nello scontato, nel già sentito, riuscire a dire qualcosa di personale. Non è facile soddisfare i gusti di un’onnivora musicale meteoropatica come me. Eppure i Pablo e il Mare sono riusciti in ciascuna di queste cose.

Miramòr è un lavoro discografico elegante fin dalla copertina, fatto solo di uno fondo bianco con un mazzo di peperoncini rossi annodati dai gambi, che ricorda tanto certi matrimoni in cui la sposa, pur dovendo rispettare le tradizioni, trasgredisce ficcando dei peperoncini nel bouquet, ché in fondo sono rossi come l’amore e la pelle arsa dal sole e calienti come la passione. Perché c’è questa latinità nel disco, una forte e diffusa componente mediterranea che si traduce in un gusto per le sonorità acustiche, a tratti più propriamente folk come in “Fidelina” o “Ora lo sai”, che fa un uso del popolare commisto al pop molto simile a ciò che fa Daniele Silvestri, o “Farfalle”, più mossa e danzereccia. E il cantautorato è il vero protagonista di questo disco: “Immaginario” ha un certo sapore retrò, soprattutto per gli archi di accompagnamento, la chitarra acustica e il riferimento testuale alle ventimila Lire di ormai lontana e nostalgica memoria; “Pesci Tropicali” è quasi l’ideale colonna sonora di un film, con il suo raffinato accompagnamento pianistico. Il cinema, infatti, è l’altra grande ispirazione dell’album: molte tracce sono costruite con il solo intento di narrare storie, contrapponendo e giustapponendo immagini diverse in grado di ricreare suggestioni, mentre la musica, talvolta dal sapore pulp, sottolinea, evidenzia, accompagna. Eclatante è il caso di “Franco Ciccio e la Sirena”, mentre l’atmosfera diventa più fumosa e cameristica in “Gatto sul Tetto”, in cui la voce esegue salti melodici volutamente rochi, che mi hanno ricordato certi slanci vocali di Piero Pelù. La più riuscita, per quanto forse sia fin troppo didascalica è “Migrante”: l’introduzione fatta di suoni di onde che si infrangono e gabbiani in volo, su una linea melodica strumentale quasi arabeggiante. Mi ha ricordato molto, per i riferimenti, le ispirazioni e, innegabilmente, per l’argomento, Il Treno del Sole dei Mau Mau di Luca Morino. Il belcanto nostrano e la nostra tradizione pop, invece, sono il trait d’union di “Avvampa”, la traccia di apertura che subito mostra la capacità di curare gli arrangiamenti (per quanto non siano originalissimi e mi abbiano subito rimandato a Le Vibrazioni) e di “Viva”, brano di chiusura del disco dal sapore vagabondo, un po’ alla Negrita. Le influenze del lavoro dei Pablo e il Mare sono davvero disparate, ma tutte interiorizzate e rimaneggiate in una chiave stilistica molto personale. Ne risulta un disco con una individualità precisa e una capacità evocativa molto alta. Una bella scoperta davvero.

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Che rumore fanno i Negrita?

Written by Live Report

CASTAGNOLE LANZE – 30/08/2012

Ammiccanti ma anche outsider sul ciglio del precipizio commerciale. Eclettici ma particolarmente piacioni. Stanno in piedi nonostante qualche sbucciatura alle ginocchia, senza perdere entità e stile, senza scivolare in quel vortice di pochezza così invitante e appetitoso. I Negrita sono una delle band più longeve e pure del panorama italiano, sempre freschi, astutamente coraggiosi e perché no pure fortunati, con lo spirito a mezz’aria tra poesie alla luna e serate etiliche giù in città.

La location piemontese che ospita questa tappa estiva del “Dannato Vivere” Tour è il Contro Festival di Castagnole Lanze, manifestazione ormai decennale: ben rodata ed insediata nella ridente cittadina astigiana dalla grande entità eno-gastronomica. Il contorno è sicuramente suggestivo e pittoresco: piccola piazzetta di paese, colline ad abbracciarla, bambini in braccio ai genitori, qualche zaffata di canna, chiesetta e un balcone a lato del palco con tre vecchine molto attente ai ritmi sfoderati dalla band arentina. Tutto schiacciato in una realtà agricola così viva e così sanguigna che paradossalmente accoglie alla perfezione tutto questo rock’n’roll multietnico.
Il fumo alle 21.45 invade l’esile palco e i Negrita zompano su come dei ragazzini sulle note dell’intro “Pape Satan” già caldi per attaccare “Cambio”, giusto per dirci che gli anni non sono stati così feroci con loro e il grido di rivoluzione non si è ancora spento.

Ed è vero: il grido si sente ancora e si sente per tutte le due ore di show, ma è impossibile non accorgersi che ora è un po’ più pilotato e soffice. Il sound della band è ancora fresco e vivo, suona moderno e voglioso, ma anche patinato e ammorbidito. La “colpa” (se di colpa si dovesse trattare) è forse dei “nuovi” elementi: il tamarissimo John Type, scratcher e campioni, e il matematico Cristiano Dalla Pellegrina, batterista da quasi dieci anni con la band ma che pare un po’ spaesato sui classiconi più aggressivi. Pare che loro rimettano tutto in regola, rendendo più piacevole e morbida la “vibra buona”, una bella levigata per tutti i tipi di orecchio. A discapito però del calore e dell’esuberanza dei veterani Pau, Mac, Drigo e Franky.
La scaletta si destreggia principalmente tra gli album anni 2000 facendo spiccare lo splendore e la genuinità dei brani tratti da “HellDorado”: “Radio Conga”, “Salvation”, “Che rumore fa la felicità” e “Notte Mediterranea” tentano in ogni modo di scatenare un pubblico eterogeneo (e a dir la verità neanche troppo numeroso) più attento a “non far tardi che il giorno dopo si lavora” piuttosto che lasciarsi andare alla fiesta multirazziale ben arredata dal combo toscano. La scelta del dj è sicuramente adattata alla grande nei brani di nuova produzione, anche se per un romantico come me una bella sezione fiati e percussioni renderebbero anomala l’onda, molte volte strozzata dalla digitalizzazione.

I Negrita sono sicuramente a loro agio sul palco, è la loro seconda dimora e si nota. Tranquilli e sciolti in mezzo a questa piccola realtà contadina, che sembra farli sentire a casa. Pau stupisce per la grande espressività sprigionata dalle corde vocali, ma rimango un po’ incredulo quando si interfaccia con il pubblico, l’intrattenimento tra un pezzo e l’altro non è sicuro dei più riusciti.
“Il giorno delle verità” e “Uno giorno di ordinaria magia” sono i momenti di Drigo, chitarrista ipnotico e tecnicamente impeccabile. Sfodera un gusto straordinario nel suo finger picking che sa essere morbido e indiavolato al momento giusto. La vera punta di diamante di questa band è proprio lui, rizza i peli delle braccia ogni volta che accarezza le corde. Dietro le quinte Mac lo fomenta alla grande con un tocco più aggressivo ma mai invadente: i nostri Ron Wood e Keith Richards. Le chitarre però paiono spesso soffuse quando invece ci vorrebbe una bella spinta, “Transalcolico” e “Mama Maè” sono troppo omogeneizzate e appiattite. E sprigionate quel rock’n’roll che avete nel sangue!
Perfetto è invece il processo di “modernizzazione” di “A modo mio”, il reggae comanda le gambe dei presenti in piazza, l’unico momento in cui nessuno pare più pensare molto alla sveglia dell’indomani.

Le ballate sono intense e vere, altro sintomo che i Negrita lavorano col cuore. Gli episodi più riusciti arrivano a sorpresa dal loro ultimo (e a mio avviso mediocre) album: “Brucerò per te” è ruvida e spinge il corpo ad una danza lenta e riflessiva, sotto una luna che sopra di noi si fa spazio tra le nubi, una preghiera al cielo matura e passionale, e poi la splendida “La vita incandescente” dove Pau dimostra per l’ennesima volta di essere un grande paroliere, diretto e profetico. “Ho imparato a sognare” invece viene tirata fuori, troppo stridente e americana, e nonostante il grande coro da stadio resta una forzatura in una scaletta per il resto quasi perfetta.
“Gioia infinita” chiude il cerchio dopo più di due ore e la gente si scatena in questo ritmo fricchettone che apre pista alle note dell’outro “Baby I love you” (The Ramones), in cui i ragazzi poggiano gli strumenti a terra e salutano con enorme calore un pubblico di certo non memorabile.

Bene. Dopo tutto questo non saprei dire se i Negrita sono la migliore band italiana, lo pensavo fino a ieri. Sicuro posso dire che sono una band che se la vive bene in mezzo alle sue mille contraddizioni.
Però di questa serata ricorderò due episodi chiave che vanno oltre il sound e oltre il singolo show: le tre vecchine sedute sul balcone per le intere due ore e la schiena rotta del papà di fianco a me che si è subito l’euforia della figlioletta di 6 anni. E qui io mi fermo e mi inchino davanti alla potenza della musica pop.

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