CASTAGNOLE LANZE – 30/08/2012
Ammiccanti ma anche outsider sul ciglio del precipizio commerciale. Eclettici ma particolarmente piacioni. Stanno in piedi nonostante qualche sbucciatura alle ginocchia, senza perdere entità e stile, senza scivolare in quel vortice di pochezza così invitante e appetitoso. I Negrita sono una delle band più longeve e pure del panorama italiano, sempre freschi, astutamente coraggiosi e perché no pure fortunati, con lo spirito a mezz’aria tra poesie alla luna e serate etiliche giù in città.
La location piemontese che ospita questa tappa estiva del “Dannato Vivere” Tour è il Contro Festival di Castagnole Lanze, manifestazione ormai decennale: ben rodata ed insediata nella ridente cittadina astigiana dalla grande entità eno-gastronomica. Il contorno è sicuramente suggestivo e pittoresco: piccola piazzetta di paese, colline ad abbracciarla, bambini in braccio ai genitori, qualche zaffata di canna, chiesetta e un balcone a lato del palco con tre vecchine molto attente ai ritmi sfoderati dalla band arentina. Tutto schiacciato in una realtà agricola così viva e così sanguigna che paradossalmente accoglie alla perfezione tutto questo rock’n’roll multietnico.
Il fumo alle 21.45 invade l’esile palco e i Negrita zompano su come dei ragazzini sulle note dell’intro “Pape Satan” già caldi per attaccare “Cambio”, giusto per dirci che gli anni non sono stati così feroci con loro e il grido di rivoluzione non si è ancora spento.
Ed è vero: il grido si sente ancora e si sente per tutte le due ore di show, ma è impossibile non accorgersi che ora è un po’ più pilotato e soffice. Il sound della band è ancora fresco e vivo, suona moderno e voglioso, ma anche patinato e ammorbidito. La “colpa” (se di colpa si dovesse trattare) è forse dei “nuovi” elementi: il tamarissimo John Type, scratcher e campioni, e il matematico Cristiano Dalla Pellegrina, batterista da quasi dieci anni con la band ma che pare un po’ spaesato sui classiconi più aggressivi. Pare che loro rimettano tutto in regola, rendendo più piacevole e morbida la “vibra buona”, una bella levigata per tutti i tipi di orecchio. A discapito però del calore e dell’esuberanza dei veterani Pau, Mac, Drigo e Franky.
La scaletta si destreggia principalmente tra gli album anni 2000 facendo spiccare lo splendore e la genuinità dei brani tratti da “HellDorado”: “Radio Conga”, “Salvation”, “Che rumore fa la felicità” e “Notte Mediterranea” tentano in ogni modo di scatenare un pubblico eterogeneo (e a dir la verità neanche troppo numeroso) più attento a “non far tardi che il giorno dopo si lavora” piuttosto che lasciarsi andare alla fiesta multirazziale ben arredata dal combo toscano. La scelta del dj è sicuramente adattata alla grande nei brani di nuova produzione, anche se per un romantico come me una bella sezione fiati e percussioni renderebbero anomala l’onda, molte volte strozzata dalla digitalizzazione.
I Negrita sono sicuramente a loro agio sul palco, è la loro seconda dimora e si nota. Tranquilli e sciolti in mezzo a questa piccola realtà contadina, che sembra farli sentire a casa. Pau stupisce per la grande espressività sprigionata dalle corde vocali, ma rimango un po’ incredulo quando si interfaccia con il pubblico, l’intrattenimento tra un pezzo e l’altro non è sicuro dei più riusciti.
“Il giorno delle verità” e “Uno giorno di ordinaria magia” sono i momenti di Drigo, chitarrista ipnotico e tecnicamente impeccabile. Sfodera un gusto straordinario nel suo finger picking che sa essere morbido e indiavolato al momento giusto. La vera punta di diamante di questa band è proprio lui, rizza i peli delle braccia ogni volta che accarezza le corde. Dietro le quinte Mac lo fomenta alla grande con un tocco più aggressivo ma mai invadente: i nostri Ron Wood e Keith Richards. Le chitarre però paiono spesso soffuse quando invece ci vorrebbe una bella spinta, “Transalcolico” e “Mama Maè” sono troppo omogeneizzate e appiattite. E sprigionate quel rock’n’roll che avete nel sangue!
Perfetto è invece il processo di “modernizzazione” di “A modo mio”, il reggae comanda le gambe dei presenti in piazza, l’unico momento in cui nessuno pare più pensare molto alla sveglia dell’indomani.
Le ballate sono intense e vere, altro sintomo che i Negrita lavorano col cuore. Gli episodi più riusciti arrivano a sorpresa dal loro ultimo (e a mio avviso mediocre) album: “Brucerò per te” è ruvida e spinge il corpo ad una danza lenta e riflessiva, sotto una luna che sopra di noi si fa spazio tra le nubi, una preghiera al cielo matura e passionale, e poi la splendida “La vita incandescente” dove Pau dimostra per l’ennesima volta di essere un grande paroliere, diretto e profetico. “Ho imparato a sognare” invece viene tirata fuori, troppo stridente e americana, e nonostante il grande coro da stadio resta una forzatura in una scaletta per il resto quasi perfetta.
“Gioia infinita” chiude il cerchio dopo più di due ore e la gente si scatena in questo ritmo fricchettone che apre pista alle note dell’outro “Baby I love you” (The Ramones), in cui i ragazzi poggiano gli strumenti a terra e salutano con enorme calore un pubblico di certo non memorabile.
Bene. Dopo tutto questo non saprei dire se i Negrita sono la migliore band italiana, lo pensavo fino a ieri. Sicuro posso dire che sono una band che se la vive bene in mezzo alle sue mille contraddizioni.
Però di questa serata ricorderò due episodi chiave che vanno oltre il sound e oltre il singolo show: le tre vecchine sedute sul balcone per le intere due ore e la schiena rotta del papà di fianco a me che si è subito l’euforia della figlioletta di 6 anni. E qui io mi fermo e mi inchino davanti alla potenza della musica pop.