I Pearl Jam si sono esibiti in un doppio live in stadio lo scorso weekend: il 20 giugno a San Siro, Milano, il 22 giugno al Nereo Rocco di Trieste. Per la precisione il mio concerto numero 6 e numero 7 della band di Seattle. E io sono una dei membri del Ten Club (il fan club ufficiale) che probabilmente li ha visti dal vivo meno volte.
Andare a un loro concerto è un rito: si fanno scommesse sulle canzoni di apertura, sulle cover che suoneranno, si incrociano le dita sperando di sentire qualche rarità che al massimo negli ultimi venti anni hanno suonato live negli Stati Uniti, a casa loro. I più sfegatati si piazzano in coda la notte prima, si scrivono sulla mano un numero che indica la loro posizione in transenna. Il premio di questa giornata sotto il sole è un plettro, una scaletta, la possibilità di essere sputati da Vedder. Io sono fuori ma non così tanto fuori, mi accontento di un angolino ben dietro rispetto alle posizioni di questi temerari, ma pur sempre nell’inner circle, l’anello che raccoglie i fan dei Pearl Jam, una famiglia, dove non importa quanto sei alto o basso, quanto puzzi di sudore, quanto fai schifo a cantare, quanto urli coprendomi lo show, quante volte fermi il cingalese per comprarti l’ennesima birra a sette euro. Ti piacciono i Pearl Jam, quindi per forza sei come me, almeno un po’.
Noi, da bravi invasati, avevamo studiato per bene le scalette delle due date di Amsterdam che hanno aperto il tour europeo: attaccano con due ballate e una veloce. E sapevamo cosa aspettarci. Niente di strano quindi nell’apertura con “Release”, a parte il brano da brividi in sé e con la sua prosecuzione con “Nothingman”, ma certo “Sirens” proprio non pensavamo di sentirla in quella posizione. E meno che mai “Black”, La canzone d’amore per eccellenza, urlata e straziante come probabilmente solo “Best of You” dei Foo Fighters e “Please Bleed” di Ben Harper riescono ad essere, il preludio di ogni chiusura o quasi dei loro concerti, il commiato triste a cui i Pearl Jam ci hanno abituato. Quattro ballate in fila e sappiamo tutti cosa vuol dire: che per la prossima ora e mezza non faremo altro che saltare. E così è stato: “Don’t Go”, “Do the Evolution” e la magnifica “Courduroy” con quel primo verso “the waiting drove me mad, you’re finally here and I’m a mess” che praticamente è quello che penso di me, così impreparata, così trepidante, così sudata dinanzi a queste mie divinità. E si continua: “Lightning Bolt”, la title track dell’ultimo album, “Mind Your Manners”, il primo singolo dello stesso disco, la vecchissima “Pilate” e “MFC”. Sulla velocissima “Given to Fly” Vedder sbaglia l’attacco, sbaglia le parole, fa un bordello assurdo e si dà dello stronzo in italiano, mentre noi gli perdoniamo tutto e cantiamo per lui, ridendo del lato umano del vate della nostra religione. E via con “Who You Are”, “Sad”, “Even Flow”, la recente “Swallowed Whole”, “Not For You”, “Why Go” e una delle mie preferite di sempre, “Rearview Mirror”. Ormai sono certa che perderò l’utero a forza di saltare. O che mi collasserà un polmone. Tanto per darmi il colpo di grazia approfitto dell’uscita di scena per girarmi una sigaretta. Neanche il tempo di finire e i nostri sono già di nuovo sul palco, in set acustico: contrabbasso per Ament, chitarra acustica e sgabello per Vedder e Gossard. Attaccano con “Yellow Moon”, uno dei brani più controversi dell’ultimo album, troppo in stile Vedder solista per alcuni, tematiche già sentite per altri. Pochi cazzi, un brano da brividi sentito dal vivo. Segue l’intramontabile “Elderly Woman Behind a Counter in a Small Town” e non c’è una sola persona di fianco a me che non sappia le parole (Hearts and thoughts they fade, fade away). Direttamente da Binaural arriva “Thin Air” che prepara a un discorsetto super romantico di Vedder a quella giga sventola di sua moglie, presente nelle quinte con le due adorabili figlie: “Qualche anno fa ero sotto un treno. Ho suonato qui a Milano e ho conosciuto la donna della mia vita. Lei è la mia Eva Kent”. Stacco. Inquadratura dai maxi schermi su di lei in lacrime (chi non lo sarebbe con una dichiarazione d’amore del genere di fronte a 60mila persone?) e si intona “Just Breathe”. “Daughter”, così fresca, e poi “Jeremy”, all’opposto, emblema del disagio degli anni 90, “Betterman”. Tre icone della produzione dei Pearl Jam che uniscono così tanto involontariamente noi microscopici esserini laggiù nel parterre. Cose che solo se ci sei puoi davvero capire. E allora, adesso che siamo ancora più uniti, rompiamoci le rotule con “Spin the Black Circle”, “Lukin” e “Porch” che tra l’altro mi dicono Vedder abbia intonato prima del calcio di inizio della partita dei mondiali trasmessa preconcerto (io non c’ero, seguono bestemmie). La band esce di nuovo. C’è ancora un encore, lo sappiamo. Speriamo facciano “Baba” (“Baba O’ Riley”, una delle due cover degli Who che i Pearl Jam fanno divinamente; l’altra è “Love Reign O’er Me” che forse è fin più bella dell’originale), speriamo facciano “Alive”, e fanno “Alive”. E “Rockin’ in a Free World” di Neil Young, con il figlio di Matt Cameron alla chitarra solista al posto di McCready, un terrorizzato adolescente buttato sul palco di San Siro che scuote a mala pena la testa con dissenso quando Vedder gli propone di attaccare l’assolo, prontamente salvato dall’intervento di Gossard, che come al solito è composto in un angolo a fare pochissime note piene di groove e di gusto. E poi “Yellow Ledbetter”. Tripletta a luci accese. A saltare e a urlare. Sono tre inni più che tre canzoni. Un inno alla vita la prima, un cogito ergo sum urlato nel dichiarare di essere ancora vivi, nonostante tutto. Vivi e felici. Un inno al Rock, la seconda, in un mondo libero, liberato dalla musica, liberato da spiriti consapevoli della loro natura, del potenziale della vita stessa. Un inno a noi, la terza. Perché “Yellow Ledbetter” è forse la più ermetica delle canzoni dei Pearl Jam già solo perché non c’è una frase di senso compiuto con un soggetto verbo e complemento che abbiano un senso. Ma tutti la conoscono, tutti la urlano e le note finali del tema reiterato da McCready, solo sul palco, sono una goduria immensa.
E questo era Milano.
Su Trieste vi risparmio il viaggio della speranza, la traversata longitudinale della pianura Padana che mi sono fatta in pullman per un totale di 16 ore di mezzo per assistere a tre ore di concerto. In realtà molte canzoni del live di Trieste sono in comune alla scaletta di Milano, in un ordine diverso. Fatte meglio, incredibilmente meglio. Persino Vedder sembra esserne consapevole quando inizia a raccontarci, in italiano (è solito farsi scrivere e insegnare la pronuncia di alcune cose che vuole dire ai fan in modo che tutti capiscano), che a Milano aveva bevuto troppo. E ce lo conferma il fatto che questa volta, per esempio, “Given to Fly” venga intonata con una perfezione accademica. “Black” e “Sirens” restano in cima, stavolta dopo “Elderly Woman” e la splendida “Unthought Known” presa da Backspacer. è una scaletta che parte romantica e triste. Chissà perché. Il succo resta, si salta per la prossima ora e mezza abbondante, con punte eccezionali con “Animal”, potentissima, tiratissima e la tamarrissima “Getaway”. Sono in brodo di giuggiole. E all’apice della mia gasatura, a tradimento, parte “Come Back”. Me la sentivo, l’avevo detto ai miei compagni di viaggio. Qualcuno aveva addirittura ipotizzato che sarebbe stata la prima canzone eseguita. Pecora nera tra le tiratissime “Deep” e “Even Flow”, “Come Back” commuove tutto lo stadio. Uno splendido gioco di emozioni condivise per pura empatia che porta tutte le gradinate ad accendere i cellulari, offrendo a noi, brulicanti nel pit, uno spettacolo meraviglioso. Una notte stellata, un cespuglio pieno di lucciole. Mi si riempiono gli occhi di lacrime. Non è il testo, che basterebbe di per sé, ma il momento commovente, quella compresenza di persone tanto diverse eppure tanto simili. Lo dice il brano stesso: “And the strangest thing today, so far away and yet feel so close”. Mi rifanno “Rearview Mirror”, mi rifanno “Betterman”, mettono il carico da undici con “Let Me Sleep” e “Chloe Dancer / Crown of Thorns” in tributo ai Mother Love Bone. “State of Love and Trust” è sempre una botta. Ci sono brani dei Pearl Jam come questo che ti riportano direttamente agli anni 90, che poi per me erano quasi i 2000 perché in fondo sono giovane. Ma ero disagiata tanto quanto i miei coetanei di una decade prima del Grunge di prima mano. Il concerto chiude allo stesso modo di Milano, lo stesso trittico, ma senza l’ospitata di Cameron Junior. L’assolo di “Rockin’ in a Free World” torna tra le sapienti braccione tatuate di McCready, che sarà pure invecchiato e avrà la pancia, ma sticazzi come se la sente. Briciolo di amarezza: scoprire a fine concerto, quando le prime linee del Ten Club postano su Instagram la foto della scaletta autografata, che in realtà in previsione c’era “Baba O’ Riley”. Chissà perché non hanno voluto regalarci un finale leggermente diverso.
Fa niente, motivo in più per andarli a sentire ancora una prossima volta, in questa riunione di famiglia a cadenza regolare.
Due curiosità, tanto per: i Pearl Jam hanno scoperto l’importanza di luci e scenografia. Roba di gusto ed essenziale, niente a che fare con i loro colleghi inglesi: una struttura ritorta di materiali riciclati, semovente, piena di luci, a cui vanno ad aggiungersi delle sfere che cambiano colore, scendono dalle americane, ondeggiano fra le teste dei musicisti che interagiscono con questi oggetti. A Trieste addirittura su una era montata una telecamera che proiettava in diretta sui maxi schermi le immagini psichedeliche che catturava. Su queste sfere Vedder è stato solito arrampicarsi per le prime date del tour americano. Questo potrebbe spiegare il tutore che aveva al ginocchio destro e la zoppia che comunque non gli ha impedito di saltare portandosi dietro l’asta del microfono da schiantare contro le assi del palco all’occorrenza, in occasione degli stacchi finali d batteria. Ultima chicca: a Trieste Cameron e McCready avevano su delle t-shirt dei Soundgarden. Sarà che Cameron, che nel 2012 si divise senza battere ciglio i tour europei delle due band, quest’anno ha paccato Cornell e compagnia per suonare coi Pearl Jam lasciando le bacchette a Matt Chamberlain? Bella pippa mentale potreste rispondermi. Fiera della mia nerditudine da Pearl Jam, vi dico io.