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We Are Waves – Promises

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Arrivato sul mercato da quasi due mesi per l’etichetta valdostana MeatBeat Records, Promises (secondo album della band dopo Labile del 2014, uscito per Memorial Records) è un disco che fa sperare parecchio pur mettendo subito in chiaro un legame col passato consistente sia sotto l’aspetto estetico e formale, sia sostanziale e che tocca tanto la parte lirica quanto quella strumentale. Un’affinità con gli anni Ottanta che si nota presto non solo dall’ascolto delle prime note dell’album ma anche con la lettura dei titoli stessi dei brani (l’orwelliana “1982” su tutte) e nella bellissima immagine di copertina che ritrae dei ragazzini con gli sguardi tesi a narrare la storia di due fratelli di cui il maggiore, cresciuto inevitabilmente troppo in fretta, si trova a dover proteggere il più piccolo dalle sue paure. Diventare adulto non è una scelta e forse non lo è neanche il mantenere un legame con le proprie radici. Questa sembra la chiave di lettura principale di Promises, album in grado di evocare gli Ottanta ormai lontanissimi nel tempo, celebrandoli nella loro avvenenza e non nelle trashate da amarcord televisivo ma nello stesso istante capace di andare oltre, avvolgersi alle contaminazioni del presente, provando a smascherare un futuro prossimo che conservi comunque intatta l’anima rock decadente dei protagonisti.

Undici tracce che smascherano e infondono tutte le emozioni incontrate in qualsiasi processo di crescita, siano esse il tormento per l’inconsapevolezza del domani, la depressione di chi sa che andare avanti significa inevitabilmente abbandonare qualcosa di sé e del mondo che ha amato, ma anche la risolutezza di chi è convinto di poter raggiungere i propri obiettivi e con essi una felicità dalla forma sconosciuta. Pur giungendo da un mondo non certo famigerato per la sua ilarità, Promises non è dunque un lavoro prettamente disilluso e non lo è tanto nei testi, quanto nelle melodie, nonostante tutto, dai suoni scelti, alla timbrica di Fabio Viassone, lascino supporre il contrario.

Le promesse di questo bellissimo disco, di questa più che promettente formazione torinese, prendono spunto dagli Ottanta di The Cure, Joy Division, Sister of Mercy, Tears for Fears tendenzialmente seguendo lo stesso solco di un’altra band molto interessante, i Christine Plays Viola, ma rilevando di queste radici, non tanto gli aspetti Dark quanto quelli Post Punk e Synth Wave e quindi finendo per mettersi sulla ruota dei capiscuola del revival, se non tanto The National e Interpol, troppo Indie Rock al confronto, piuttosto Editors, White Lies ma anche The Prids e Les Savy Fav, finendo, in più di una circostanza, per buttarci giù dalla sedia, costretti a muovere il culo sotto ritmiche da disco eighties.

Se per molti i Soviet Soviet non hanno rivali in Italia nel genere, siamo pronti a scommettere che non passerà molto tempo prima che i pesaresi dovranno avere a che fare con questi We Are Waves.

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Ottovolante – Re di Quadri in Trip

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A tre anni di distanza da La Battaglia delle Mille Lepri, i molisani Ottovolante si ripropongono con una formazione diversa, un’etichetta che crede profondamente in loro (la Diavoletto Netlabel) e soprattutto un nuovo disco: Re di Quadri in Trip, registrato interamente al Red Sound Studio di Petacciato (CB). Il singolo “R.i.p. Nichilismo” ci indirizza attraverso un caleidoscopio nero pece fatto di suoni elettronici e New Wave anni 80. Non risulta particolarmente assimilabile per chi non mastica bene questa mistura. La solenne “Sul Fronte di Guerra” ha un’articolazione che è un autentico passaggio tra generi che non hanno nulla l’uno con l’altro: una sorta di battaglia galattica tra il Rock, la Techno dei The Prodigy e i film western di Sergio Leone. L’Ispettore Bloch Va in Pensione” (chiaro omaggio al fumetto cult Dylan Dog) e “Edimburgo 31/12” sono le facce identiche di una medaglia diversa, rappresentano il principio e la fine di una festa, nata inizialmente come un rave party e chiusa come una funzione religiosa. Inizia a mancarmi l’aria mentre porgo l’orecchio a “Disagio del non Oltre”, claustrofobica e nebulosa fino al midollo. Apro la finestra e da fuori entra “Storie di Nessuno (Me Compreso)”, ma non capisco se provenga dallo stereo dell’auto di uno sbruffone maleducato o dal giradischi di un cultore della musica d’autore. Confuso, sono troppo disattento per apprezzare “Geometria dell’Incontra tra Due Cerchi”, che scambio per il proseguo del brano che l’aveva preceduto. Re di Quadri in Trip ha tante idee, poche verità e un’accentuata mancanza di compattezza. Nei tempi passati non gli resterebbe che abdicare, atteso alla forca dalla folla impazzita. L’ispettore Bloch chiederebbe un antiemetico a gran voce, Dylan Dog la sua Bodeo 1889. In entrambi i casi non sono affatto presagi positivi.

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Giungla dei Gouton Rouge in free download

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Dopo l’ottima accoglienza dell’album d’esordio, Carne, i Gouton Rouge spingono il loro suono verso un mix unico e personale di new wave, surf, noise, pop e shoegaze e si avvalgono della partecipazione di tanti amici incontrati durante il proprio percorso musicale come Raniero Neri degli Albedo, Riccardo Della Casa dei Wemen e Riccardo Montanari dei Belize.

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Giungla è il nuovo album dei Gouton Rouge

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Torna il quartetto lombardo Gouton Rouge con Giungla, nuovo album in uscita il 25 maggio per V4V-Records e Lafine in digitale e CD edizione limitata. Dopo l’ottima accoglienza dell’album d’esordio, Carne, i Gouton Rouge spingono il loro suono verso un mix unico e personale di new wave, surf, noise, pop e shoegaze e si avvalgono della partecipazione di tanti amici incontrati durante il proprio percorso musicale come Raniero Neri degli Albedo, Riccardo Della Casa dei Wemen e Riccardo Montanari dei Belize.

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Don Turbolento – ПОЛИ ЖОКС

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Un nome esotico per il terzo album del duo Dario Bartolotti e Giovanni Battagliola, stampato nell’artwork a caratteri ancor più evocativi insieme ad un logo apparentemente di difficile interpretazione ma che altro non è che la sagoma del monumento di Podgaric di Dusan Dzamonja (lo vedrete meglio nel videoclip del singolo) eretto a memoria di uno dei tanti massacri della seconda guerra mondiale, la rivoluzione della Moslavina. Considerato una delle opere più brutte al mondo, racchiude in sé un profondo valore spirituale e tale concetto parzialmente ricalca l’opera dei Don Turbolento.

Nati dalla passione per il Funk, il Rock e l’Electronic, la band, il cui nome si rifà ad un pezzo degli svizzeri Yello, sceglie una strada Electro per confezionare un concept album il cui nome, Poli Voks, si ispira ad un vecchio sintetizzatore russo, poderoso ed esteticamente bellico e che affronta il tema della guerra ma più in generale della naturale ed a volte involontaria inclinazione umana per il male.

Oltre a forgiarsi di pura attitudine Electro Industrial (“Nails in my Throat”, “Like Morphine”, “Toom Doom”), i dieci brani della tracklist divagano per strade Synth Pop (“The Hunchback”, “Step Off”) e Dance (“Back In(to) the Void”) tanto quanto New Wave (“No Light No Sound”, “Null”, “What It Takes”, “Decay”), puntando su immediatezza e semplicità e su basi potenti, talvolta cattive, trascinanti, poste sullo sfondo di una vocalità soffocata, non troppo invadente e leziosa ma neanche ricca di talento. Nonostante una ricerca del suono non proprio di valore oltre la norma, sta proprio nella ritmica e nelle basi, specie quando cariche e robuste, il vero punto di forza di Poli Voks. La parte vocale fatica a proporre melodie accattivanti e arranca nel tentativo di farsi scivolare di dosso i più comuni cliché della scena Pop sintetica. Nello stesso tempo, l’intero album non ha la perizia di incutere con solerzia il concetto che sta alla base dello stesso risultando invece piuttosto anacronistico. Orrendo il brano di chiusura, fino all’ultimo secondo e se un primo paragone che mi è venuto in mente, per descrivervi l’opera dei Don Turbolento, è invitarvi ad immaginare i Depeche Mode che suonino insieme ai Cabaret Voltaire non posso che sottolineare le titaniche distanze che intercorrono tra questi mostri sacri appena citati e la formazione bresciana, convincente solo a tratti ma su cui ho la voglia di sperare ancora.

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Albedo – Metropolis

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L’ultima fatica degli Albedo è un ancora una volta un concept album, anche se in senso meno stretto rispetto al poetico viaggio nel corpo umano che fu Lezioni di Anatomia un paio di anni fa. Gli spunti che trae dal capolavoro di Fritz Lang da cui mutua il nome confluiscono nelle atmosfere e nelle liriche, tracciando un filo conduttore mai troppo vincolante, che rende l’album un lavoro organico ma che lascia spazio a molti temi: la città e le sue contraddizioni, l’incomunicabilità di realtà sociali che coesistono senza toccarsi, ma anche la religione, i confronti generazionali, i meccanismi con cui si innesca l’odio. Sembra un po’ che le dieci tracce di Metropolis si prendano l’onere di andare a verificare le inquietanti previsioni di una quella che fu una pellicola estremamente lungimirante. Metropolis non è immediato come il suo fortunato predecessore perchè è meno irruente: la tracklist è intervallata da incisi di pochi minuti che conferiscono un ritmo un po’ inusuale all’ascolto, per poi srotolare gli episodi più catchy alla fine, senza mai ricorrere ad escamotage sfacciatamente Pop. Se Lezioni di Anatomia ha il pregio di colpire al primo ascolto, in compenso Metropolis merita tutti gli ascolti che necessita. Il sound poggia su un valido Alt Rock che si concede ispirazioni Post Punk (“Partenze”) e New Wave (“Replicante”) e costruisce un mood inquieto e viscoso fatto di giri di chitarra ben assestati, che spingono sulle parole scelte con cura. Il songwriting è tagliente sia nelle citazioni più testuali, come in “La Profezia”, meno di due minuti di piano e riverberi per dipingere le vuote esistenze dei privilegiati in cima ai grattacieli della città di Metropolis, che nelle derive più introspettive (“I Miei Nemici”, “Sei Inverni”) e nei quesiti spiazzanti di un dialogo in prima persona con Dio (il singolo “Higgs”). A starlo a sentire, il Rock degli Albedo non sembra affatto volersi attardare su strade già percorse, e con radici sonore ben piantate si dimostra capace di trovare ogni volta il modo giusto per raccontare una nuova fase. Buon per tutti, compresi noi.

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Glass Cosmos – Disguise of the Species

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Esistono delle situazioni dove la razionalità non conta niente, o meglio, non viene considerata lasciando allo stomaco il potere di prendere tutte le decisioni. E come è noto, ragionare con lo stomaco potrebbe essere rischioso ma dannatamente bello. Sound tiratissimo come capelli pettinati con montagne di brillantina nell’esordio discografico dei Glass Cosmos, Disguise of the Species. Un colpo improvviso e atmosfere New Wave, le chitarre intraprendono sonorità anni novanta, le complesse composizioni racchiudono rabbia e voglia di cambiare. Disguise of the Species spinge l’ascoltatore verso un mondo parallelo, un drastico taglio alla solita vita quotidiana, si sogna per qualche tempo, e principalmente si ama. “Milestone” e “Libreville” aprono il supporto in maniera decisa, ponendo subito in evidenza le capacità esplosive della band. La vena cupa dei Glasvegas, la ritmica degli Interpol. Quasi mi scordo di avere tra le mani un disco d’esordio, e principalmente non riesco a credere che si tratti di una band italiana, il genere di suono prodotto farebbe pensare tutto il contrario. In pezzi come “It Won’t Be Long Till Dawn” ti lasceresti spezzare il collo al ritmo della batteria, le chitarre suonano dure linee quasi Stoner simil Metal, una mutazione continua della struttura dei brani dimostra buone capacità tecniche dei membri dei Glass Cosmos. “New Shores” miscela atmosfere tipicamente New Wave con accelerazioni tipiche del Punk melodico, anche la voce gioca moltissimo nel cambio di stile. Emozionalità senza confini. Non parliamo certamente di novità, ma piuttosto di sperimentazione nel mescolare i generi in maniera efficace, nel creare delle cose nuove utilizzando cose vecchie, i Glass Cosmos sono dei maestri in questo. Catalogare in un genere musicale questo disco è impossibile, nell’ascolto ho trovato dentro veramente di tutto, Disguise of the Species come contenitore ben fatto di moltissimi generi. “Chrono” esce come singolo ed è indubbiamente il pezzo più importante dell’intero supporto, carico di passione e rabbia sentimentale da vendere. Diventa familiare sin dal primo ascolto, fatta eccezione per la voce sembrerebbe di ascoltare un brano dei Cure di Boodflowers.

Ho trovato nei Glass Cosmos una valida band da competizione internazionale, qualcosa di puramente valevole da mandare in giro per il mondo, una maggiore personalizzazione del sound gioverebbe parecchio alla personalità del gruppo. Bene, finalmente qualcosa di diverso, qualcosa che esce fuori dagli schemi indipendenti italiani che sono maldestramente monopolizzati dalle solite stanche venti band. Questo disco ha un sapore internazionale, culliamoci i Glass Cosmos come fossero delle future Rock Star della musica mondiale, le capacità ci sono tutte, adesso spetta al carattere scrivere le sorti artistiche di questi ragazzi.

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Winter Severity Index – Slanting Ray

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Quel che una volta era un quartetto tutto al femminile, ora, nel 2014, troviamo a trainare la carretta la sola Simona Ferrucci, anima e corpo del progetto Winter Severity Index. Slanting Ray è la conseguenza dell’estro dell’artista, stavolta accompagnata da Alessandra Romeo (già con Bohemien, No Fun e Cat Fud) al synth e alle tastiere. Presenza meno fissa è quella di Giovanni Stax che suona il basso in ambito live. Il duo romano ci propone un cupo Dark Wave i cui background sono ovviamente The Cure, Siouxie and the Banshees e Joy Division, il tutto in una salsa più minimale, ma non per questo meno avvolgente ed intrigante. Le canzoni di Slanting Ray ci faranno precipitare in un baratro oscuro, in una galleria priva di via d’uscita, dove disperazione e paranoia troveranno terreno fertile per dar vita ai nostri incubi più reconditi. Non importa che le atmosfere siano sognanti (“At Least The Snow”), opprimenti (“A Sudden Cold”) o persino più ritmate, sfruttando la regalità di un sassofono, fatto usuale anche per i The Cure (“Ordinary Love”),non si perde mai la cognizione dell’amore/odio viscerale da cui sono venite fuori queste dieci perle nere sanguinolente.

La voce di Simona è perfetta per il genere: la timbrica presenta parecchi picchi crepuscolari, rarissime aperture celestiali, come in “Lighting Ratio” ad esempio, e taglia via ogni linea melodica nella penultima “Compulsion”, optando per uno sbalorditivo cantato/parlato. La ricercatezza e la morbosità del sound delle Winter Severity Index è un qualcosa a cui molti di noi non sono ancora preparati, il disco si fa ascoltare a momenti con eccessiva fatica ed una volta concluso difficilmente si ha ancora la voglia di ricominciarlo daccapo. E’ principalmente rivolto agli amanti della corrente nata negli anni 80. Chi non è incluso nella cerchia degli adepti della Dark Wave si senta libero di passare oltre.

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Fedora Saura – La Via della Salute

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Vengono dalla Svizzera i Fedora Saura, “cavallina storna da corsa e quintetto di musica contemporanea”. Picchiano e spiazzano, gridano e ballano, e il tutto è così dannatamente fuori di testa da risultare quasi affascinante. Ritmi sghembi, suoni grezzi, violenti e giocosi, e la voce: una voce che è vera protagonista, quella voce così gaberiana che foss’anche solo per il timbro ci piazzerebbe nel cervello il termine teatro-canzone, ma che in realtà si avvicina più a certe declamazioni salmodianti à la CCCP, come bene fanno notare nella loro cartella stampa. Le nove tracce de La Via della Salute s’affastellano dense e ariose allo stesso tempo: coagulate nel risultare grevi all’ascolto, pesanti come macigni nel loro incedere in vortici dal minutaggio oltraggioso, ma aperte nell’afflato ironico, nel suono ruvido e spezzato, nella parsimonia di strumenti e arrangiamenti che le rende pungenti come aghi e affilate come denti di cane.

Sta tutta qui, credo, la dicotomia del disco, che ce lo fa amare/odiare (“amare” forse è più che altro iperbole, “odiare” s’avvicina di più alla realtà, al fastidio urticante che questo disco emana). Ma non è certo un disco da buttare, anzi: questo fastidio, questa grana grossa che ci disturba è, forse, lo schiaffo che i Fedora Saura vogliono infliggerci. “Un’opera anti-cristiana e anti-capitalistica”, ci dicono, mentre la loro cavalcata sghemba ci disturba e, insieme, sottilmente, ci aggancia e ci incanta, e al terzo, quarto, quinto coraggiosissimo ascolto riesce persino a intrigarci, a farsi attendere, come un desiderio sotterraneo che mai ammetteremmo di provare. Stanno fuori dal tempo e dal mondo, i Fedora Saura, e fuori dal tempo e dal mondo suonano una musica ai limiti, non certo adatta a tutti i palati, ma che a quelli più avvezzi a masticare spigolosità  può anche ricordare gusti sublimi e dimenticati, di un’integrità d’altri tempi.

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Versailles – Vrslls

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Non so se si possa definire realmente un incontro/scontro, come amano descriversi i Versailles nella loro biografia, quello fra Damiano Simoncini (Maria Antonietta, Young Wrists, Damien*) e Manu Magnini (Container 47, Key-Lectric, Scanners), perché il duo pare essere sempre in perfetta sintonia. Più veloci ed incazzati dei francesi Chevreuil e degli Stooges di Iggy Pop, in sole sette canzoni i Versailles riescono a condensare tutto il senso del Rock ‘n ‘Roll! Quando con solo voce, chitarra e batteria si riesce ad arrivare a questi livelli creativi si potrebbe persino gridare al miracolo, tant’è che basta sentire l’iniziale “Summer Pain” affinché il pogo possa iniziare (se messa in play in un qualsiasi Club Rock). “(T)rap to the E. Y. A. H.” è invece una preghiera onirica e visionaria in cui la chitarra sposa alla perfezione i ritmi della batteria ed i versi cantati/recitati ossessivi della voce. Di diversa impostazione sono invece “Honey, We’re Ready to Funck!” (in cui i due ragazzi sembrano aver studiato alla perfezione i dischi degli Mc5 e degli X) e “Everybodytalks For Free” che forse si ispira un po’ troppo alla mitica “I Wanna be Your Dog” degli Stooges, che sicuramente avrete avuto modo di ascoltare anche in film quali Trainspotting, Lock & Stock – Pazzi Scatenati, Transporter 3, Il Corvo 2 ed in tanti altri che ora non mi soggiungono. “Find the Enemy” sembra invece un potenziale brano dei Marlene Kuntz in salsa Punk (concedetemi questo ossimoro), mentre “BLahBlahBlah” riporta alla memoria i Dead Kennedys di Jello Biafra. Il duo pesarese ci dà dentro fino alla conclusione del “Vrslls Ep” che purtroppo arriva con “Bring the Noise” (che non c’entra nulla con l’omonimo brano dei Public Enemy) forse a volere dimostrare che il futuro della musica italiana può e deve guardare a quanto fatto anche quarant’anni fa in America. E non è detto che ad ispirarsi al passato o a gruppi come i Sonic Youth si perda sempre il confronto. Ascoltare per credere!

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In.Visible – HaveYouEverBeen?

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Un progetto solista dall’esito Elettro Pop che nasce da ispirazioni Rock di spessore. In.Visible è lo pseudonimo di Andrea Morsero, già attivo nella scena underground italiana come batterista e DJ.
Il primo singolo estratto espone in maniera abbastanza completa ciò che bisogna aspettarsi da HaveYouEverBeen?. “Leather” è un tuffo di testa nell’elettronica ritmata degli anni 80, che comporta in sé l’alto rischio di essere un tuffo nel vuoto se nel frattempo sono trascorsi tre decenni e soprattutto se non si è Dave Gahan. L’ispirazione che Morsero trae dalla faccia più danzereccia dei Depeche Mode è palese, oserei dire un po’ sfacciata, a cui lui sembra però avere poco da aggiungere.

Ritmato sì, ma non abbastanza euforico da far scuotere le membra. Il fulcro attorno a cui far ruotare il resto sembra essere riservato alla voce, dal timbro ammiccante ma spesso ostentato e prevedibilmente effettato: le prime tracce scorrono via su tappeti sintetici su cui questa si sdraia comoda insieme alle seconde voci, in un susseguirsi di brani che nonostante alternino ritmi più serrati a ballad elettriche in una miscela gradevole fanno però fatica a trovare un angolino di memoria e di cuore in cui depositarsi. L’invadenza del cantato mi appare ormai indiscutibile quando mi sorprendo a godermi la strumentale “Stagen”. Sul finire del disco spunta invece fuori un ben più interessante lato New Wave del progetto, che scorre fluido grazie ad una sezione ritmica più marcata e le tonalità che scendono e si fanno un po’ da parte (“The Second Way”), oppure mostra una tendenza Romantic che evoca gli Ultravox, ma senza scendere nella mera citazione (“Feel”). È solo sull’ultima traccia che mi sembra di scoprire la naturale vocazione del timbro vocale di Morsero, sul più classico dei Rock melodici con crescendo di archi finale. In.Visible sembra più un saggio di tutte le facce che il progetto potrebbe assumere piuttosto che il risultato della scelta di una forma compiuta di espressione. Un background di tutto rispetto che senza qualche tocco reinterpretativo più audace rischia però di appiattirsi in un Pop senza molte vie d’uscita.

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MasCara – LUPI

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La prima cosa da dire di questo LUPI by MasCara sono belle parole relativamente all’artwork. Pulito, classy, semplice ed efficacissimo. Sorvoliamo giusto su qualche errore nella composizione interna, dove i testi di alcuni pezzi vengono scambiati di posto, e dove un paio di refusi disturbano la lettura delle liriche. Passiamo poi alle liriche, o meglio, per l’appunto, alla lettura delle stesse. C’è un gusto narrativo palpabile nelle dodici tracce del disco: la storia scorre fluida, e già dai titoli le visioni urbane quasi oniriche (“Macchine da Guerra”, “Cattedrali al Neon”, “Graffiti”, “Barricate”, “Gocce di Benzina”) si mischiano a tonalità più primitive e leggendarie (“Dei per Sempre”, “Isaac” – che echeggia vibrazioni bibliche -, “Falsa Età dell’Oro”, “Riti Ancestrali”), dandoci l’idea di un’epica distopica dalle sfumature varie e dai sapori intensi. All’ascolto i MasCara sorprendono per la fluidità e lo spessore della pasta sonora (aiutati al mix anche da un nome di punta quale Tommaso Colliva): chitarre, synth, bassi e batterie si fondono in soundscape estremamente riusciti ed affascinanti. Si rischia giusto qua e là un effetto già sentito (qualcosa alla Coldplay, qualcosa alla Ministri, per citare giusto le apparenze più facilmente intercettabili), ma è il rischio di andarsi ad infilare in questo tipo di proposta musicale.

La pecca maggiore di LUPI, a parer mio, sta però nella voce, e non tanto nel timbro o nelle capacità vocali di Lucantonio Fusaro, ma nella metrica, sghemba e scalena, claudicante. I testi vengono snocciolati sui brani in modi spesso storti, disequilibrati, qualche (rara) volta con risultati imbarazzanti, più spesso semplicemente facendo apparire i testi disorganici rispetto alle musiche, ai ritmi, alle fasi del pezzo. Questo non toglie certo al disco i suoi meriti, ma ne penalizza l’ascolto – o almeno così è accaduto al sottoscritto. Concludendo, LUPI è un disco maturo, di una band interessante, narrativamente e musicalmente. Per raggiungere le vette mi sento di consigliare una personalizzazione maggiore della proposta sonora e una cura dei testi che riesca a coniugare linea melodica e cuore pulsante delle canzoni senza affossare né l’una né l’altro. Ascolto consigliato in attesa di prove future, si spera più decisive.

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