Nei quattro anni che separano questo nuovo lavoro da The Something Rain, i Tindersticks non si sono mai fermati avendo prodotto la sonorizzazione per Ypres, mostra sulla prima guerra mondiale dell’omonima città belga, la colonna sonora Les Salauds per il film Bastards dell’amica Claire Denis, ed il gradito dono Across Six Leap Years, a dimostrazione di una vena creativa che forse supera persino quella di inizio carriera. The Waiting Room è un lavoro ancora più cinematografico di quanto un disco del francofilo gruppo di Nottingham possa già essere di per sé, infatti ogni canzone presente è accompagnata da un cortometraggio che propone un contro punto di vista più aperto rispetto a quanto proposto su disco dalla band, gli undici lavori raggruppati insieme (faccio comunque notare che non si tratta di un concept album e che di conseguenza i video non hanno nessuna connessione tra loro) formano The Waiting Room Film Project, progetto prodotto in collaborazione con il festival del cortometraggio di Clermont-Ferrand sul quale al lavoro troviamo diversi registi indipendenti tra i quali, ovviamente, Claire Denis, oltre che il vincitore del César, Pierre Vinour, il fotografo Richard Dumas (sua la malinconica immagine in copertina), e lo stesso leader del gruppo Stuart Staples. Dopo tale premessa l’apertura con l’ottimo strumentale “Follow Me”, rilettura di uno dei temi del film Gli Ammutinati del Bounty del 1962, può risultare pressoché perfetta, anche perché il brano che segue, “Second Chance Man”, parte subito con la voce di Staples senza un’introduzione musicale, il che forse sarebbe stato troppo d’impatto in apertura di disco, in questo brano il cantato è accompagnato da una batteria spazzolata e da note d’organo che per quanto appena accennate sono capaci di scaldare molto, ad accrescerne ancora il sapore l’ottimo lavoro degli ottoni del collaboratore Julian Siegel che si comporta anche meglio in “Help Yourself”, un fosco Funk Swing in cui troviamo anche una splendida linea di basso oltre che uno Staples in gran spolvero. Tra questi due brani dimora il terzo singolo fin qui estratto, “Were We Once Lovers?”, che ha preceduto di pochi giorni l’uscita del disco, brano tra i più trascinanti del lotto, anche qui troviamo un gran lavoro di Dan McKinna al basso, una chitarra ben più vistosa che altrove, e, tanto per cambiare, un’altra ottima orchestrazione, drammatica e claustrofobica. Come spesso capita nei lavori della band non mancano ospiti, in questa occasione ne troveremo due, la prima che incontreremo sarà Lhasa de Sala (già ospitata per “Sometimes it Hurts” in Waiting for the Moon) in una registrazione del 2009, pochi mesi prima della sua prematura scomparsa, con un brano fin qui segretamente custodito, “Hey Lucinda”, dove da un invito ad uscire per bere qualcosa da parte della voce maschile nasce una riflessione che va ben oltre il rapporto uomo-donna, and these dirty little cigarettes we smoke/and the liquor it just throws/a plug where the feelings we should show dichiara la voce femminile, per poi offrirci un I only dance to remember how dancing used to feel nel momento, a livello strumentale, più spensierato. A questa piccola perla resa pubblica dopo sette anni segue un altro ottimo strumentale (gran lavoro del tastierista Dave Boulter, sempre, ma soprattutto in queste occasioni) , “Fear of Emptiness” col suo abbraccio ovattato ed avvolgente; e spetta ad un altro strumentale, il quasi meditativo “Planting Holes”, il compito di separare due dei momenti più tesi del disco: la title-track e “We Are Dreamers!”, il primo è un brano quasi a cappella dove il corposo baritono di Staples è accompagnato solo dalle poche note funeree di un organo che vanno a creare un’atmosfera decadente e dall’altissima emotività, nel secondo troviamo l’altra ospite del disco, Jehnny Beth delle Savages presta infatti la sua potenza e le sue sfumature alla feroce “We Are Dreamers!”, brano dall’altissima intensità, scuro, angosciante, minaccioso, che rappresenta indubbiamente un altro punto di altissimo livello di questo nuovo lavoro della band. Il disco va a terminare con la successiva “Like Only Lovers Can”, ballata romantica nel più classico stile del gruppo. The Waiting Room è un disco che cresce ascolto dopo ascolto e seppur meno audace del suo predecessore è un disco dei Tindersticks in tutto e per tutto, anzi, di più, forse siamo di fronte al perfetto autoritratto di una band che per l’ennesima volta si conferma, con un lavoro che trasuda dolore e romanticismo (come d’abitudine siamo dalle parti di Nick Cave e Leonard Cohen), ed è capace di trasmettere impeccabilmente e con forza e raffinatezza passionali tutto quel che ha da dire e da dare, incertezze (esistenziali) comprese.
Nick Cave Tag Archive
Soundgarden + Nine Inch Nails
Non sono un grande frequentatore di concerti, ne faccio uno o due grossi all’anno se capita e se ne vale la pena (per intenderci nel 2013 ho visto solo Nick Cave a Roma) e quando vado ad un concerto, grande o piccolo che sia, più che alle sonorità o alla tecnica dei musicisti, sono interessato ai movimenti delle masse, guardo i particolari in generale, le sfumature, le situazioni, insomma sono attratto da tutto ciò che un artista da al suo pubblico e di come riesce a farlo muovere, ballare o cantare sotto il palco. Di Franco Battiato ad esempio mi piace molto il cambio di ritmo che riesce a dare ai suoi concerti, di Nick Cave il modo in cui ha coinvolto il pubblico tanto da frantumare con i suoi movimenti la rigidità della platea già dalle prime note. Detto questo, la prima cosa che balza agli occhi in un concerto nordamericano è che una volta superate le barriere d’ingresso si può finalmente bere!!!!!!!!!
In nord America il proibizionismo è stato abolito negli anni 30 e in Canada non c’è mai stato, ma qui per i bevitori di alcolici la vita è dura. Non si può bere fuori dai locali, non puoi andare in giro con una bottiglia in mano (a meno che essa non sia coperta) e se putacaso ti beccano a bere in un parco con un minore di 21 a meno di 50 metri da te…sei spacciato. Quindi, superate le transenne, mi appare come una fonte per un assetato nel deserto l’omino delle birre (per chi si stesse chiedendo, “Ma allora se ho meno di 21 anni e sono a in America niente concerti???” tranquilli per gli infanti e le signore in dolce attesa, c’è una sezione con ingresso autonomo apposta….). Detto questo, ci avviamo ai nostri posti e girando gli sguardi notiamo che il Molson Ampithetre non c’entra nulla con l’anfiteatro Parco della Musica a Roma. Ma, ok, noi abbiamo Renzo Piano e 20 secoli di storia dell’architettura alle spalle, loro altre cose anche se è vero che non conosco un architetto canadese degno di nota.
Una altra cosa che mi ha colpito è l’enorme mole di stand (birre, sandwich, merchandising e varie) che noto intorno a me. Non è che in Europa non ce ne siano, ma un numero cosi esagerato di solito se è abituati a vederlo nei festival. Ma si sa, qui fanno tutto in grande. Appena ci sediamo ai nostri posti, decido di farmi un giro, e noto con piacere che le facce, gli sguardi e le sensazioni sono le stesse che da noi. Dopo l’ennesima birra bevuta (finalmente camminando!!!!) ecco che parte il primo gruppo. Francamente io non sono un appassionato di Nine Inch Nails e non ho neanche potuto documentarmi come faccio di solito prima di un concerto, ma un’acustica cosi impietosa non l’avevo mai sentita neanche nei peggiori bar del centro Abruzzo. Quindi il live passa, almeno per me, in modo anonimo, anche se noto con piacere che il pubblico comincia a scaldarsi e a muoversi.
Decido quindi di tornare al bar, ancora e sempre alla ricerca di nuove cose e mentre stavo cercando di spiegare ad un’italo canadese che Trapani e Palermo non sono la stessa cosa, sento con piacere che i Soundgarden hanno cominciato il loro concerto. Tornato al mio posto, si sente che l’acustica è migliorata di molto, anche se non è ai livelli a cui sono abituato. Lo spettacolo è piacevole e bello e dalle prime note si capisce che sarà una bella serata, anche perché i Soundgarden, anche se non coinvolgenti come speravo, reggono bene il palco, grazie ad un perfetto mix tra musica e luci, scure per i pezzi più elettronici e lenti e forti, appariscenti e colorate per i brani Rock. Insomma una bella serata, in cui ho apprezzato in modo particolare come dice Vincent Vega in Pulp Fiction, “quelle piccole differenze tra noi e loro……….”
Soundgarden Setlist:
Searching With My Good Eye Closed
Spoonman
Flower
Outshined
Black Hole Sun
Jesus Christ Pose
The Day I Tried to Live
My Wave
Superunknown
Blow Up the Outside World
Fell on Black Days
A Thousand Days Before
Rusty Cage
Beyond the Wheel
Nine Inch Nails Setlist:
Copy of A
Sanctified
Came Back Haunted
1,000,000
March of the Pigs
Piggy
Terrible Lie
Closer
Gave Up
Me, I’m Not
Find My Way
The Great Destroyer
Eraser
Wish
Only
The Hand That Feeds
Head Like a Hole
Encore:
Hurt
gianCarlo Onorato / Cristiano Godano – Ex Live
In breve: gianCarlo Onorato, musicista, pittore e scrittore, scrive un libro, un saggio sui generis che è una sorta di autobiografia attraverso istantanee fatte di musica e canzoni: “Ex – Semi di Musica Vivifica”. Il passo dalla penna alla chitarra è brevissimo, e presto Onorato si trova in giro per l’Italia a portare sui palchi un concerto/reading ispirato al suo libro, in compagnia di Cristiano Godano, cantante dei Marlene Kuntz, che lo affianca come un doppelganger dialogante. Ed ecco poi che il concerto si trasforma in disco, tutto registrato dal vivo nella data alla Latteria Artigianale Molloy di Brescia, nel dicembre 2013. Il disco è un esperimento interessante, che unisce in scaletta brani di Onorato e dei Marlene Kuntz, oltre a cover di pezzi di Lou Reed, Velvet Underground, Beck, Neil Young, Nick Cave, il tutto inframmezzato da brevi reading tratti dal libro. La grande vittoria del duo è quella di riuscire a miscelare tutto senza troppi scossoni, complice un organico ridotto all’osso (oltre ai due cantanti, troviamo solo tre musicisti ad accompagnare con mano leggera il percorso, tra chitarre umide, pianoforti, percussioni varie, organi, batteria…). Il mood del disco è sommesso, sussurrato, tra scariche sensuali e malinconie tiepide, in una pasta che la registrazione dal vivo aiuta a rendere “vera”, perfetta nelle sue imperfezioni infinitesimali (scusate l’ossimoro). Le canzoni prendono forma nel buio, scintillano nella mani di Onorato e del suo doppio, che le rigirano, le accarezzano, le mangiano e le risputano sottovoce, ma se è un bisbiglio, è comunque carico, appassionante, cosciente (“Perfect Day”). I reading scivolano, alternando al loro interno passaggi più riusciti (l’iniziale “Non Già il Suono Organizzato”) a brani meno coerenti, ma non per questo privi di fascino (“Chitarra Fender Telecaster”) – e la voce di Onorato si presta con dolcezza alla narrazione e alla sua atmosfera.
Un disco da provare, per farsi un piccolo viaggio organizzato nel mondo interiore di gianCarlo Onorato. E ammettendo pure che questo viaggio non abbia un valore universale (potremmo discuterne), è pur sempre vero che il racconto ne esce solido, compatto e piacevole. E magari, alla fine, scoprirete di esserne più conquistati di quanto avreste pensato prima di ascoltarlo. Non sarebbe una sensazione bellissima?
Lydia Lunch & Cypress Groove – A Fistful of Desert Blues
With too much patience and too much pain
I’m going to the mountain with the fire spirit
To make amends for all of me
And the fire will stop
The Gun Club- Fire Spirit (Fire Of Love, Ruby Records, 1981)
Attraversare più di tre decenni di carriera, vissuti pericolosamente e sempre da borderline, adottando come modus vivendi un’insaziabile sete di malsanità e depravazioni di ogni genere. Raschiare il fondo del proprio inconscio, fino quasi all’autodistruzione e poterlo raccontare è fortuna di pochi. A vederla adesso Lydia Lunch, ultracinquantenne, voce ruvida, viso anfibio e consumato, sembra non aver perso quella nevrastenia creativa, che le permette di evolversi continuamente nelle forme sonore più disparate. Quest’anno si presenta nelle vesti di blues woman mortifera, accompagnata dal chitarrista Cypress Groove, alias Tony Chmelik. L’incontro tra i due avviene durante il funerale di Jeffrey Lee Pierce ugola dei grandissimi Gun Club, passato quasi inosservato in vita, morto di emorragia cerebrale nel marzo del 1996 a soli trentasei anni dopo un’esistenza segnata da alcol, droga e malattia. Cypress Groove di nazionalità britannica, collaborò con Pierce quando viveva a Londra, a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Per pura casualità nella sua mansarda Chmelik ritrova alcuni nastri con bozze di canzoni registrate da Pierce prima di morire e decide di contattare alcuni dei suoi più cari amici (Nick Cave, Mick Harvey, Debbie Harry, Mark Lanegan, David E. Edwards ed appunto la Lunch) per formare un’iper band: The Jeffrey Lee Pierce Project e sviluppare quei frammenti sonori.
In quell’occasione la Lunch e Chmelik, registrarono insieme l’ottimo brano Country Noir “St Mark Place”, riproposto nella loro ultima fatica A Fistful Of Desert Blues. Le undici tracce proposte da questo sodalizio funereo, navigano sulle coordinate di un Desert Blues, torbido e sanguinante, sorretto perfettamente dalla voce della Vestale Nera, dalla chitarra dolente di Chmelik e dallo spirito di Ramblin ‘ Pierce. Il paesaggio che ne viene fuori rimanda alle epopee western più crepuscolari di Sam Peckinpah, colme d’inquietudine e peccato; il viaggio attraverso questo deserto dell’anima costa fatica e si rischia di morire di sete o assaliti da un branco di sciacalli puzzolenti e affamati.
Fa da apripista l’ipnotica “Sandpit” dal sapore iberico, “ Devil Winds” incanta con il suo Folk sulfureo e deviato. In “I’ ll Be Damned “ la litania orchestrata dai due tocca vertici di pathos altissimi, “Jericho “ e “Tuscaloosa” sono i brani migliori, ritmati e movimentati dove soprattutto nella chitarra l’influenza di Pierce fa sentire tutto il suo peso. Insomma per i fan più accaniti della Lunch e gli estimatori dei Gun Club, è un album imperdibile. Carico di un misticismo sciamanico e desolante, il disco ci trasporta attraverso un flusso di coscienza rivelatore, dove si cela nascosta la verità più grande; l’amore.
Rockambula vi racconta il Primavera Sound in diretta. Noi ci saremo!
Da giovedì 29 a sabato 31 maggio torna l’appuntamento ormai consueto al Parc del Forum con quello che è uno dei festival più importanti d’Europa, il Primavera Sound Festival di Barcellona. Dalla prima edizione del 2001 al PobleEspanyol di una sola giornata e una line-up che contava una decina di artisti si è passati negli anni alla formula della tre giorni, che propone in totale oltre 200 live show, e ad una seconda edizione in Portogallo, nella cornice della città di Porto. Il Primavera Sound si è contraddistinto negli anni per una proposta musicale eclettica che lascia spazio agli amanti di ogni genere, con un occhio di riguardo per le novità degne di attenzione, che in ogni edizione hanno affiancato grandi nomi quali Patti Smith, Wilco, Nick Cave, Neil Young, My Bloody Valentine, PJ Harvey, Pet Shop Boys, solo per citarne alcuni.
Quest’anno, per quanto riguarda i soli headliner, si esibiranno Arcade Fire, Pixies, Nine Inch Nails, Mogwai, Queens of The Stone Age, The National, Slowdive, Caetano Veloso, Kendrik Lamar. Anche per quanto riguarda gli eventi musicali Barcellona si conferma un contesto mediterraneo atipico, per la capacità di gestire un evento paragonabile a Glastonbury o a festival d’oltreoceano del calibro di Lollapalooza e Coachella, ma soprattutto per la volontà di investire in eventi culturali come questo, imprescindibili per poter comprendere l’evoluzione del panorama musicale mondiale. Quest’anno Rockambula presenzierà all’evento, a partire da mercoledì 28, giornata in cui il palco ATP sarà già attivo e tra gli altri si esibiranno i Temples, una bella rivelazione del 2014. Gli eventi collaterali al festival inizieranno infatti da oggi e dureranno fino a mercoledì 4 giugno, nei club della città catalana e al Forum stesso. Nei giorni del festival cercheremo di districarci tra gli undici spazi in cui si susseguiranno le performances, nel tentativo di raccontarvi il più possibile di ciò che l’edizione 2014 del Primavera Sound offrirà. In attesa di un intenso live report, seguiteci sulla pagina facebook di Rockambula per aggiornamenti in tempo reale e testimonianze fotografiche dei live show!
The Tablets – The Tablets
Si può combinare il Pop statunitense anni 60 di Merrilee Rush & The Turnabouts o The Ronettes con sonorità marcatamente moderne, quasi figlie di certi anni 90, compatte e ossessionanti? A questo ci pensa la messicana Liz Godoy, che prendendo il via appunto dal Pop Garage dei sixties, scorre attraverso le atmosfere Darkwave e Gothic degli 80, tra Cure, Cocteau Twins, Nick Cave, The Go Go’s e Siouxie fino a sfociare nelle grintose chitarre Shoegaze di fine Ottanta e inizio Novanta di The Jesus and Mary Chain per intenderci e nel Pop Alternativo, rumoroso, elettronico, psichedelico e sperimentale di Stereolab o Tv on the Radio. Tutto questo fatto con una cura maniacale del dettaglio che non si trasforma mai in eccesso stilistico ma che anzi, talvolta, suona come una ricerca voluta della nota imperfetta. L’album omonimo targato The Tablets è uno spettacolare esempio di Dream Pop sintetico, basato su liriche profondamente appassionate e melodie morbidissime, tutto sullo sfondo di ritmiche meccaniche e personali. Liz Godoy prende a prestito la lezione che una certa Nico ha lasciato al mondo e cerca la strada per rinnovarne i fasti e il risultato non è molto lontano da quanto probabilmente sperato.
The Tablets è un disco bellissimo, che poteva essere eccelso se solo la voce di Liz Godoy avesse avuto un regalo più grande da madre natura e se la vena artistica della stessa si fosse trovata in un particolare stato di grazia. Un album seducente perché mette insieme con naturalezza mondi apparentemente lontani anni luce e che recupera, almeno con questa sua capacità di rinnovare, i grandissimi limiti della composizione pura, delle melodie, degli arrangiamenti non sempre troppo interessanti e spesso quasi grossolani. Difficile giudicare un disco come questo perché mostrare al mondo dell’arte musicale una possibile strada per il futuro è già di per sé meritevole di apprezzamento ma non solo ciò siamo tenuti a stimare e quindi c’è un’orrenda ma necessaria strada della sufficienza da tracciare, per inquadrare con onestà un disco che non dovrebbe comunque essere ignorato.
20,000 Days on Earth, il film su Nick Cave
20,000 giorni sulla terra, ovvero 56 anni..di chi? Del “King Ink” chiaramente, Nick Cave. È questo il titolo del docu-film per la regia di Iain Forsyth e Jane Pollard presentato a gennaio al Sundance Film Festival che si è portato a casa due bei premi, uno per la miglior regia rivolta ai documentari ed uno per il miglior montaggio. 20,00 Days on Earth ci porta per 24 ore all’interno della vita del musicista, scrittore, sceneggiatore, attore, marito, padre… what else? Inoltre segue tutta la fase di creazione dell’ultimo lavoro dei suoi Bad Seeds, Push the Sky Away. Il film ha debuttato in Europa alla Berlinale una decina di giorni fa ma a noi comuni mortali toccherà aspettare, citando il sito ufficiale del film in questione later, this year; intanto la clip ufficiale di soli 51 secondi. Nell’attesa accontentiamoci!
Diaframma 06/12/2013
Sempre pieno di grinta Federico Fiumani con i suoi Diaframma è tornato il 6 Dicembre a calcare un palco in terre abruzzesi, più precisamente quello del Tipografia di Pescara. Ad aprire la serata sono stati gli Edith Aufn, gruppo influenzato da Sigur Ròs, Kyuss, Nick Cave, Radiohead, Mark Lanegan (e chi più ne ha più ne metta) che ha già un discreto curriculum di esperienze alle spalle ma che non ancora riesce a sfondare nell’Olimpo del Rock italiano. La loro esibizione passa comunque veloce perché tutti erano lì per vedere il grande gruppo fiorentino che gira in lungo e in largo l’Italia da trentacinque anni attraversando stili che vanno dal Dark al Post New Wave, dal Punk al Rock.
Tuttavia l’anima cantautorale di Fiumani si fa spesso viva in maniera onirica ed acida, con la sua timbrica inconfondibile, aiutato da una sezione ritmica (Luca Cantasano e Lorenzo Moretto rispettivamente al basso e alla batteria) e da una seconda chitarra, Edoardo Daidone, che non gli ruba mai lo spazio da leader assoluto e che anzi riesce a ritagliarsi anch’essa un ruolo di rilievo. La formazione a quattro è ormai una solida realtà, brevettata già in precedenti concerti, ma per il sottoscritto è stata la prima occasione per ammirarla live. Il locale è pieno di fan che lo seguono da sempre, che ripetono a squarciagola le liriche delle canzoni, che però rimangono fermi ed impassibili quasi in adorazione del proprio idolo musicale. Quando vai a un concerto dei Diaframma sei già sicuro di ciò che trovi, ma l’occasione di ascoltare le canzoni del nuovo album Preso nel Vortice alternate alle grandi hit quali “L’Odore delle Rose” e “Blu Petrolio” che rispettivamente aprono e chiudono il concerto è davvero ghiotta. Trova spazio anche una graditissima sorpresa, “Venus” dei Television di Tom Verlaine, Fred Smith, Billy Ficca e Richard LLoyd, da sempre uno dei gruppi più apprezzati e stimati da Fiumani. Rimane quindi da chiedersi se ci sarà mai qualcuno in grado di raccogliere l’eredità musicale che la band fiorentina sta lasciando nel corso degli anni…
Tuttavia i Diaframma sono ancora lì a deliziarci con i loro capolavori sonori e di fermarsi non ci pensano proprio! Anzi…
Di recente hanno persino pubblicato una versione in vinile con allegato cd del loro grande classico Siberia che nel lontano 1984 aprì le porte ad un’intera generazione di musicisti che da anni cercavano invano di imporre l’Indie Rock al grande pubblico. L’edizione è stata stampata in sole 999 copie e perciò negli anni diventerà sicuramente un prezioso oggetto da collezionismo da non farsi quindi sfuggire! A fine concerto da segnalare che Federico Fiumani si è prestato volentieri anche a firmare autografi (solo al sottoscritto almeno una ventina!) e a fare foto e a scambiare due chiacchiere con tutti coloro che lo hanno atteso. Grande conclusione di una serata perfetta passata in compagnia del nostro direttore Riccardo, della sua fidanzata, di due loro amici e del mio fido compagno di avventure (e disavventure) concertistiche Carlo. Ma questi sono solo fatti miei, per cui ora prendete il cd di Preso nel Vortice e lasciatevi deliziare dalle sue note!
Nick Cave & The Bad Seeds 27/11/2013
L’Auditorium Parco della Musica a Roma sappiamo tutti che posto è. Anche se non siete mai entrati porta con se quell’aurea istituzionale di palco da grande concerto, una struttura all’avanguardia nel cuore benestante di Roma. Insomma, la fama lo precede. Acustica da paura, radica di non so quale legno ovunque e le mitiche poltroncine larghe e imbottite dove gustarsi comodamente il concerto. Il tutto in un amabile atmosfera perbenista, quasi da teatro dell’opera, il cui ordine poco c’entra con i mostri che hanno dominato questo palco mercoledì scorso: Nick Cave & The Bad Seeds.
Alle 21,30 ero sistemato comodamente in galleria, sul mio divanetto, ad attenderne l’entrata in scena. La sala Santa Cecilia ormai colma, in visibilio, avida di placare l’ansia che precede l’attesa dell’evento. Ed ecco che poco dopo assopiscono le luci, le urla e i fischi della folla si fanno sempre più ampi e insistenti a scaricare l’entusiasmo, all’improvviso un flash ed eccolo, con la sua camminata irriverente, fare la sua comparsa sul palco Cave seguito dai suoi Bad Seeds. Un veloce saluto, il tempo di prendere lo strumento, e subito si parte con “We No Who U R” primo singolo estratto dal suo ultimo lavoro Push the Sky Away. Un pezzo particolarmente malinconico, forse fra i più belli dell’album. Subito mi sale la pelle d’oca e vorrei balzare giù in platea dalla galleria. Ma non si può, avevo già provato ad eludere le hostess senza successo allo scopo si stare in piedi in platea. Che tristezza penso: questo posto è troppo “ordinato”, non è adatto ad una rockstar. Riconnetto il cervello sul palco, Cave teatralmente, come suo solito, si atteggia come fosse Sinatra e prosegue con “Jubilee Street”, testo critico contro chiesa e benpensanti che di giorno pregano Dio e di notte vanno a mignotte. E proprio mentre intona il ritornello prende e si lancia giù dal palco creando scompiglio. Tutti si alzano dalle comode poltrone e lo vanno a stringere. Un momento epico, dove questo grande uomo cerca e stabilisce un rapporto sentimentale col suo pubblico e lo trova. Cave è così: mentre tira fuori i suoi demoni e te li sbatte in faccia ha bisogno del contatto. Per tutto il concerto tocca il pubblico, lo guarda negli occhi come se si nutrisse della loro energia. Un rapporto vero, senza filtri. Da lì in poi lo spazio sotto il palco si riempie, per tutta la durata del concerto gente che sale e scende dal palco abbracciandolo, baciandolo, stringendolo, e lui da spazio a tutti e ricambia creando momenti comici che esaltano l’emozione dei temerari del palco. Un grande.
Per chi volesse conoscere la scaletta eccola di seguito:
We No Who U R, Jubilee Street, Tupelo, Red Right Hand, Mermaids, The Weeping Song, From Her To Eternity, West Country Girl, People Ain’t No Good, Sad Waters, Into My Arms, Higgs Boson Blues, The Mercy Seat, Stagger Lee, Push the Sky Away, God Is in the House, Deanna, Papa Won’t Leave You, Henry, We Real Cool.
Un gran bel concerto, due ore e trenta più o meno, come c’era da aspettarselo, il cui apice, per me, è stato “From Her to Eternity”. Ad un certo punto credevo cascasse l’Auditorium. Galattici i Bad Seeds, magnifico Nick Cave, un vero e proprio spettacolo Rock a dimostrazione del fatto che ascoltare la musica in streaming non è un cazzo in confronto a quello che un Live e in questo caso degli artisti di questo calibro possono regalarci. Peccato per l’auditorium, la cattedrale della musica con le sue poltroncine è risultata poco adeguata ad ospitare un demonio sregolato del Rock!!!
Sarah Stride – S/t
Sarah Demagistri è Sarah Stride. Sarah Stride è Sarah Demagistri cantautrice milanese che da tanti anni calca la scena artistica e musicale italiana. Il progetto dunque nasce dalla voglia, dopo tanti anni di gavetta musicale, di far uscire finalmente un album tutto suo e questo accade anche grazie all’incontro e al connubio con i compagni di viaggio Alberto Turra, chitarra, William Nicastro, basso e Antonio Vastola, batteria.
Nel 2012 esce quindi l’album omonimo e di debutto Sarah Stride che si apre con il brano “Metallo”, scritto in collaborazione nientepopodimeno che con Melissa P. di “100 colpi di spazzola prima di andare a dormire”, che si presenta come un’apertura interessante e un brano Rock dalle tinte oscure. Si prosegue con “Eco Breve” e“Tra i Miei Gesti” brani dall’atmosfera non tanto felice cantati quasi alla maniera di Irene Grandi. “Prove di Volo” e “La Preda”oltre a un’estesa melanconia presentano immagini poetiche che sono il racconto di un percorso, di una crescita fatta di incontri e disillusioni, di perdite e di meraviglia, di dolcezza e determinazione ma soprattutto di confronto e di incessante dialogo che abbiamo con la realtà che ci circonda e con noi stessi. Il sesto brano “L’Indispensabile” a tratti ricorda invece la voce e lo stile di Giusy Ferreri, uscita da X-Factor qualche anno fa. Tinte squisitamente Dark si possono ascoltare in “Fuori da me”, con un bellissimo arrangiamento di archi del M° Turra, come per gli ottoni che si sentono in giro per l’album, che prosegue con “Casca la Terra” che riprende un po’ il gioco infantile, “Lasciamo che Sia” e la cover “Te lo Leggo Negli Occhi” di Endrigo/Bardotti. L’album omonimo si chiude quindi con i brani“Giò” e “Respira” dal sound preciso, noir e soprattutto compatto.
Un album di debutto interessante per le collaborazioni ma soprattutto per le tante citazioni simili a prestiti e ringraziamenti a Tory Amos, Antony And The Johnsons, Jeff Buckley, Nick Cave. Un album di debutto fatto anche di idee precise, dal gusto vocale squisitamente retrò anni sessanta o tipicamente progressive anni ottanta. Un album, infine, che si accompagna anche con un altro lavoro uscito nel 2013 Canta Ragazzina, nel quale Sara Demagistri reinterpreta cover come “La Notte”, “Non Esiste l’Amor”, “Pugni Chiusi” del più importante cantautorato maschile anni sessanta.