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Aldous Harding @ Spazio 211, Torino | 31.10.2017
Lo Spazio 211 di Torino ha ospitato martedì scorso l’artista neozelandese Aldous Harding, di ritorno in Italia dopo gli ottimi riscontri ottenuti durante le 3 date che in estate l’avevano vista calcare il nostro territorio per la prima volta nella sua carriera.
Dieci dischi da PAURA per un Halloween più nero che mai!
Più pesanti di una morte in famiglia.
She Owl – She Owl
Come nella migliore tradizione Neo Folk occidentale (non poteva essere altrimenti) nell’esordio della polistrumentista e cantastorie Jolanda Moletta con la band She Owl e il loro disco omonimo, tanto spazio è lasciato al simbolismo, al mistero della natura, al romanticismo e all’occultismo. Già nel nome scelto, l’indicazione di un animale come il gufo non fa altro che gonfiare di allegorie la sua opera. Animale enigmatico e dalla simbologia ambigua, il gufo è stato considerato negli anni emblema di oscurità, malaugurio e morte ma allo stesso tempo di chiaroveggenza e comprensione. Nel simbolismo celtico la dea della natura Gyffes aveva la sua forma ma il gufo connoterebbe anche il passaggio dalla vita alla morte, in altre parole una guida per gli uomini nei periodi di cambiamento oltre a essere depositaria di molta e antica saggezza. Nell’opera è la stessa Jolanda Moletta a prendere le sembianze della creatura, generando un legame simbiotico con la natura, gli alberi e tutti gli esseri viventi che affollano il bosco e instaurando con essa un dialogo pieno di magia. Per rendere al meglio questa necessità compositiva, la band si è affidata a diversi musicisti della Bay Area (Jolanda Moletta vive e lavora tra l’Europa e San Francisco) oltre che a Dave Mihaly, batterista della songwriter texana Jolie Holland e il risultato è una tracklist di dieci pezzi che suonano splendidamente come il rumore che accompagna una fiaba che scivola nel vento tra le fronde.
Pur essendo presente una strumentazione variegata (nel live la stessa artista suona tastiere, chitarra, autoharp, kalimba e percussioni) le canzoni scivolano via con naturalezza, attraverso una spina dorsale nervosa fatta di piano e voce. Quest’ultima non spicca per qualità, intensità, e neanche per una timbrica particolarmente originale eppure riesce a vibrare perfetta dentro le note, nella sua cupezza, nei suoi sospiri e negli acuti intensi. La sezione ritmica è essenziale, martellante ma non specificatamente marziale e si limita a esaltare la portata emotiva della voce. Discorso simile per il piano che però alterna momenti più enfatici con altri d’atmosfera. Tutto questo genera una proposta precisa eppure variegata e differenziata con cura, tra Vocal Jazz in stile Ella Fitzgerald o Nina Simone (“Hide and Seek”) però con uno spirito da Patti Smith, rimandi quasi gotici di memoria Siouxie e un Pop da camera degno del Michael Andrews di Donnie Darko (“December”). Una sorta di Nico (“Nightingale”) in chiave più vitale e moderna, tra l’Art Pop etereo di Bat For Lashes (“Fisherman Queen”) e il Dark Cabaret dei Dresden Dolls (“Over The Bones”, “December”, “Belong”) anche per una certa similitudine vocale con Amanda Palmer.
Un disco denso di ottime canzoni, con un obiettivo preciso, un’inequivocabile necessità espressiva che forse pecca, non tanto (o non soltanto) per la scarsissima originalità ma piuttosto per una certa piattezza sonora. Questo sia nella parte strumentale (del resto penso che sia lecito aspettarsi di più da artisti che suonino tastiere, chitarre, autoharp, kalimba e percussioni) e sia nella vocalità, che, in quanto a timbro non eccelle anzi pare arrancare forse per l’eccessiva necessità di toccare le note più evocative che la musica richieda; ma anche in quanto a composizione pura che si dimostra poco coraggiosa e convenzionalmente sempre a metà tra la vivacità, la gioia, la spensieratezza e l’angoscia, la tristezza, la decadenza. She-Owl è stato un ottimo modo per passare qualche ora del mio tempo ma difficilmente andrà a custodirsi in uno dei cassetti della mia memoria.
Rivoluzioni musicali in mostra alle OGR di Torino
Quando si parla di musica, ognuno ha senza dubbio i propri riferimenti, i propri miti, le stelle polari che lo guideranno lungo il corso della propria esistenza ,in lungo e in largo, a destra e manca, forever and ever, “finché morte non vi separi”. Alcuni di questi miti, però, non fanno solo parte del nostro universo musicale, ma sono delle vere e proprie pietre miliari della storia della musica, simbolo di un’ epoca, esempio per le generazioni future ed esponenti di rivoluzioni che hanno deviato il corso della storia stesso. Ed è proprio a questi Dei dell’Olimpo musicale che fa riferimento Alberto Campo, curatore della mostra fotografica Transformers – Ritratti di Musicisti Rivoluzionari, allestita presso i Cantieri OGR di Torino e visitabile dal 28 settembre al 3 novembre 2013. Il filo conduttore che la caratterizza è quello della “Trasformazione”, tema tanto caro alle ex Officine Grandi Riparazioni Ferroviarie (una delle ultime testimonianze della storia industriale della città), oggetto di un recente restauro che le ha restituite alla popolazione torinese sottoforma di “Cantieri Culturali”, sede di eventi musicali, teatrali, mostre, fiere ecc.
Ed eccoli allora sfilare uno per uno i Grandi della musica, in una serie di scatti che li ritrae durante la loro vita di artisti (con una predilezione per quelli realizzati durante gli eventi live) e di comuni mortali; un richiamo all’idea della “Trasformazione” come trapasso dalla dimensione pubblica a quella privata. Le fotografie sono attinte dal vasto bacino messo a disposizione da Getty Images, ed abbracciano sessant’anni di musica (dall’avvento del Pop negli anni ’50 all’era del web e delle tecnologie digitali odierne); il sottofondo musicale è una lunga colonna sonora composta da canzoni-simbolo degli artisti considerati. Campo fa cominciare tutto con Elvis (e come dargli torto!), opportunamente inserito nella sezione “Origini della Specie” e fotografato durante una delle sue celebri mosse di bacino. La seconda tappa porta il titolo de “l’Invasione Britannica” ed i protagonisti non potevano che essere Beatles e Rolling Stones, considerati perennemente in antitesi. Gli anni ‘60 si tingono anche di Folk e dei ritratti di un giovanissimo Bob Dylan, che con la sua “Blowin’ in the Wind”, cantata come inno di chiusura dei comizi di Martin Luther King, diviene il rappresentante della “Canzoni di protesta”, mentre Miles Davis e James Brown lo sono del Jazz e del Soul-Funky nella sezione “Black Power”. Si conclude un decennio e ne comincia uno nuovo, segnato dall’ “Utopia Hippie” che vede i suoi massimi esponenti nei Doors e in Jimi Hendrix (immortalato mentre dà fuoco alla chitarra elettrica durante il festival di Monterey), mentre il Transformer per eccellenza, David Bowie (nelle vesti di Ziggy Stardust) trova posto nella sezione “Rock a Teatro” insieme alla primissima formazione dei Velvet Underground (fotografati con l’immancabile Andy Warhol ), quella di cui faceva parte anche la splendida Femme Fatale Nico, immortalata in un primo piano stupendo, mentre indossa una maglietta riportante la scritta Fragile. Nella sezione “gli Outsider” si piazzano Tom Waits e Frank Zappa, mentre l’unico artista italiano preso in considerazione, Ennio Morricone, non poteva che collocarsi nella sezione “la Musica Come in un Film”. Passano gli anni, cambia il modo di far musica, che diventa “definitivamente prodotto dal vivo su larga scala”: Led Zeppelin e Pink Floyd sono esempio dell’ avvento dei grandi concerti che riempiono gli stadi. Dall’altro capo del mondo, sempre in quegli anni, “One Love”, Bob Marley si faceva portavoce di un nuovo genere musicale: il Reggae. Altra rivoluzione musicale degna di nota in quegli anni è il Punk, rappresentato nella sua forma più grezza dai Sex Pistols (lo scatto che ritrae Johnny Rotten nel tentativo di armeggiare un paio di forbici enorme parla da sé) e nella sua forma più colta da Patti Smith, la sacerdotessa del Rock che sembra non aver alterato con gli anni l’espressione che ha in volto mentre canta. Gli anni ‘80 sono quelli dell’ Hip Hop dei Beastie Boys, del re e della regina del Pop: Michael Jackson e Madonna. Gli anni ’90 segnano una frattura col decennio precedente grazie all’avvento del Grunge e dei Nirvana: il primo piano di Kurt Kobain troneggia in sala (forse è una delle immagini più belle della mostra), mentre ha in mano la chitarra che riporta la scritta “Vandalism: beautiful as a rock in a cop’s face”. La mostra arriva fino ai giorni nostri, e si conclude con l’ “Evoluzione della Rockstar” verso una musica sperimentale e ricercata, i cui esponenti sono rappresentati da Björk e Radiohead (riconoscere una foto scattata durante il loro ultimo tour del 2012 ti fa sentire fiero di esserci stato) per chiudersi definitivamente con l’avvento della musica elettronica dei Kraftwerk e dei Daft Punk nella sezione “Technologia”.
I grandi assenti? Tanti, ognuno sicuramente troverà qualche suo “mito” mancante all’appello. In ogni caso, non è un buon motivo per privarsi di questa mostra, che non è una semplice esposizione fotografica, ma un viaggio visivo e sonoro indietro nel tempo, verso tappe della storia e rivoluzioni musicali compiute dai musicisti che tanto amiamo. Allacciate le cinture, si parte.
Fonti: http://www.ogr-crt.it/events/transformers-ritratti-musicisti-rivoluzionari/
Powerdove – Do You Burn?
Veramente un disco complicatissimo questo Do You Burn? dei Powerdove, in altre parole Annie Lewandowski (voce e chitarra), Jason Hoopes (basso) e Alex Vittum (percussioni). Nati come depersonificazione artistica della vocalist, la formazione germogliata in California diventa un trio solo in seguito alle prove soliste del talento del Minnesota e, a pochi mesi dalla trasformazione (nel 2009), pubblica il primo full lenght intitolato Be Mine. A quattro anni di distanza la potenza creativa di Annie Lewandowski evolve fino al sound di Do You Burn? che si rafforza della presenza di Thomas Bonvalet (armonica, banjo, feet and hand clappin, concertina, ecc…) e di John Dieterich, attuale chitarrista della storica band Indie/Pop Noise di San Francisco Deerhoof e qui in veste anche di bassista. Oltre a queste partecipazioni eccellenti, l’album è pieno di altri ospiti che rafforzano il peso artistico di Do You Burn?. Si va dalla presenza in fase di registrazione di Ben Piekut, saggista, musicologo e insegnante per la Columbia University, fino alla palese influenza di Shelley Hirsch, tra le più importanti esecutrici vocali della moderna Big Apple, citata oltretutto, per non tenere la sua influenza troppo nascosta, all’interno del libretto, con la frase “ho voluto essere dentro la musica…dove sono i ragazzi.”
Un lavoro complesso dunque, eppure non eccessivamente ostico se non per i meri fruitori del mainstream. La classica forma canzone non è proposta in maniera lineare tuttavia, specie nella parte vocale; si possono percorrere parabole melodiche precise, eleganti, raffinate e ben tracciate. Le parti più sperimentali sono limitate a rumoristiche intromissioni soniche di strumentazione inusuale (“Fellow”, “Under Awnings”, “California”, “Wondering Jew”) o a intermezzi psichedelici e spiazzanti (“Aldeer Tree I“). Non mancano brani più classici, nei quali la voce si manifesta in tutta la sua bellezza e, sia la sezione ritmica sia le chitarre, creano atmosfere delicatamente gioiose e vibranti di vita (“Love Walked In”) anche nel loro essere pseudo cacofoniche alla maniera di Daniel Johnston o felici come la malinconia di un ricordo (“California”, Flapping Wings”, “Out Of The Water”). Non pochi i brani gravosi, nel senso emotivo del termine, quando la voce Annie Lewandowski, diventa la triste protagonista sul background di note minimali, scomposte come schegge impazzite e piangenti (“Red Can Of Paint”, “All Along The Eaves”, “Out Of The Rain”, “Wondering Jew”). Tutto il disco, inoltre, tiene sospesa un’aura magnetica che riporta la mente a una grande protagonista dell’avanguardia rock degli anni d’oro di New York City. Ascoltando la title track “Do You Burn?” non si può non rievocare la voce e l’impostazione cupa, dark, magicamente inquietante di Nico, leggendaria componente dei Velvet Underground, che qui appare nella nostra memoria più per i suoi lavori solisti come Desertshore.
Un’opera che dunque lega in maniera netta melodie e timbriche aggraziate, con atmosfere fosche e deliri Lo-fi/Glitch riuscendo a proporsi come qualcosa di multiforme senza creare alcun muro con ogni tipo di ascoltatore che voglia cimentarsi con Do You Burn?. La stessa durata dei pezzi (considerate che le tredici tracce sono divise in trentuno minuti) è evidentemente un elemento teso a non distogliere l’attenzione dell’ascoltatore e a non generare timore o sconforto. Do You Burn? è un disco che sa emozionare ma ha bisogno di uno spirito aperto che sappia accogliere il suo splendore per non restare solo un disco tra i tanti.