Esce il 5 febbraio 2016 per IRMA Records il nuovo album degli Heathens dal titolo Alpha. Un lavoro maturo che sintetizza due emozioni apparentemente ben distinte come rabbia e malinconia. Al centro del concept la critica verso lo sconsiderato utilizzo di strumenti come internet e mass media, in grado di generare informazione pilotata e distorta.
Registrato e prodotto da Tommaso Mantelli (Captain Mantell) nel suo GrooveStudio, Alpha è un viaggio sonoro e immaginifico verso atmosfere che uniscono Radiohead e Massive Attack, Knife e certa IDM mitteleuropea, visioni alla Lynch e Von Trier, letture di Louis-Ferdinand Céline e Bertrand Russel. Oltre l’importante e decisivo apporto di Mantelli, il disco vede la partecipazione di altri artisti e amici della band: Nicola Manzan (Bologna Violenta), Anna Carazzai (Lume, Love in Elevator) e George Koulermos (Technogod, y:dk).
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Alpha: il nuovo album degli Heathens
I Bologna Violenta lavorano ad un nuovo disco
Dopo lo split in collaborazione con i Dogs for Breakfast, i Bologna Violenta non hanno tradito le aspettative degli ascoltatori e stanno lavorando al loro primo disco. A partire da quest’anno la one-man-band composta da Nicola Manzan si è trasformata in un duo dopo l’ingresso del batterista Alessandro Vagnoni. L’annuncio compare sulla loro pagina Facebook:
“Incredibile a dirsi, ma ci sono varie cose in uscita per i prossimi mesi. Forse anche il disco nuovo, ma più avanti, visto che comunque non è finito. Bervismo in ripartenza.”
Captain Mantell – Bliss
Immaginate un viaggio. Ma mica un viaggio qualunque. Immaginate un viaggio nello spazio, di attraversare galassie ed imbattervi in una supernova, evitare buchi neri e sfiorare una nana rossa, il tutto mentre state inseguendo un ufo. Poi immaginate di tornare indietro, di trovare un pianeta Terra irriconoscibile, e di dover andare a ritroso con la memoria, alla ricerca del ricordo di ciò che non esiste più. Il tema del viaggio. Il tema del ritorno. Il tema della ricerca. È questa la trama nella quale si intreccia il filo conduttore che lega gli album dei Captain Mantell, band capitanata da Tommaso Mantelli (ex bassista de Il Teatro Degli Orrori), il cui nome ricorda quello del Capitano Thomas F. Mantell Jr, il primo (e spero unico) pilota morto durante l’inseguimento di un ufo. Bliss è l’ultimo lavoro della band, e narra proprio del ritorno del Capitano sulla Terra, pianeta ormai irriconoscibile ai suoi occhi. Da qui la necessità di scavare nei ricordi alla ricerca delle proprie origini, che in musica si traduce con il ritorno da parte dei membri della band (Tommaso Mantelli, Sergio Pomante, Mauro Franceschini) alle loro origini musicali, il che comporta decisamente la ricerca di nuove sonorità rispetto agli album precedenti. Dall’Electro Punk si passa quindi al Rock, che rimane alla base dell’intero disco, ma che si arricchisce di numerose sfumature e contaminazioni. Ed è così che si percepiscono, solo per citarne alcuni, elementi di Rockabilly (“With My Mess Around”, “Dead Man’s Hand”), per poi passare a pezzi che evocano il buon vecchio Blues (“The Ending Hours”). Ovviamente vengono chiamate in causa anche sezioni ritmiche veloci e ossessive, per non fare torto al Punk (“Ugly Boy”), e c’è poi l’introduzione del sax, che inevitabilmente conferisce al tutto quel retrogusto di Jazz. Il livello d’attenzione durante l’ascolto è altissimo, il disco non scende mai di tono, è un continuo susseguirsi di eventi sonori che non ammettono nessuna distrazione. Un disco dal ritmo incalzante, dalle movenze sensuali, vuoi per la presenza di certi riff che si ripetono con un fare ammaliante (“Love/Hate” e “To Keep You In Me”) quasi fossero le fasi di un corteggiamento in musica, vuoi per la voce di Tommaso Mantelli, prima profonda, poi sporca, poi cattiva (“The Day We Waited For”). Numerosissime anche le collaborazioni presenti nel disco, tra le quali nominiamo Liam McKahey che mette a disposizione la sua voce per “Side On” e Nicola Manzan che si è occupato degli arrangiamenti di “The Ending Hour”, “To Keep You In Me” e “First Easy Come, Then Easy Go”. Un lavoro corposo (14 brani all’appello) e ben curato (anche a livello di grafica in copertina e booklet), ed una ricerca di sonorità vasta ed attenta, dove non sono ammesse le ripetizioni. Un gran bel lavoro di ricerca delle proprie origini, musicali e non. Un gran bel risultato per le nostre orecchie.
Turbolento, il secondo album dei Mondo Naif
E’ uscito Turbolento, il secondo album dei Mondo Naif. Il suono ruvido e roccioso delle chitarre si risolve in mari di quiete. I testi richiamano le atmosfere oniriche dell’allucinazione affrontando i temi del sogno lucido, dell’abisso e della negazione, in un disco che è (perché vuole essere) duale. Le parole le capite perché sono in italiano. Prodotto, registrato e miscelato presso il GrooveStudio di Casale Sul Sile (TV) da Capitan Tommaso Mantelli, il lavoro è impreziosito dalla partecipazione di turbo Sergio Zags Pomante (Captain Mantell) che ha cavalcato il vento a bordo del suo sax in “Aquilone”, turbo Nicola Manzan (Bologna Violenta) che con le frecce dei suoi archi ha reso l’Inferno di Belfagor un posto più bervista, turbo Alberto Piccolo (Glincolti) che impugnando la sua chitarra ha introdotto il flamentico mondo degli Inferi in Vexilla Regis Prodeunt Inferni e ci ha reso uomini liberi con gli assoli
Nicola Manzan (Bologna Violenta)
Sta girando l’Italia in lungo e in largo per il tour legato al suo ultimo album. Si porta dietro un’esibizione live dal forte impatto emotivo. Dopo aver partecipato al concerto tenutosi a Torino, era inevitabile porsi delle domande su Uno Bianca. A domande fatte, Bologna Violenta (Nicola Manzan) risponde. Eccovi serviti.
Ciao Nicola, cominciamo dal principio. Com’è nata l’idea di Uno Bianca? Voglio dire, in Italia purtroppo si sono verificati un gran numero di fatti di cronaca nera. Come mai la scelta degli avvenimenti legati proprio ai fratelli Savi?
La scelta è ricaduta su questi fatti perchè si sono svolti in larga parte a Bologna e provincia (per quanto la banda abbia operato anche lungo la costa adriatica fino a Pesaro). Volevo fare un disco su Bologna, un po’ come era successo nel 2005 con il mio primo album. Lì era più una questione di istinto, di sensazioni trasformate in musica, filtrate attraverso l’immaginario dei film poliziotteschi degli anni Settanta (ma con sonorità moderne, ovviamente). Qui il lavoro è stato diverso, sentivo il bisogno di raccontare Bologna, ma volevo farlo partendo da una storia vera che secondo me ha sconvolto e cambiato sotto molti aspetti la città di Bologna e le persone che ci vivono.
Ti sei dovuto documentare molto per la realizzazione di questo album? Di che tipo di materiale ti sei servito per poter riscrivere in musica questa storia? Hai trovato difficoltà nel reperirlo?
Ho cominciato ad interessarmi a questa storia una decina di anni fa e quando mi sono messo al lavoro per scrivere e registrare il disco mi sono reso conto di avere parecchio materiale utile senza dover impazzire per reperire molte altre informazioni. Tengo anche a precisare che il mio intento è sempre stato, fin dall’inizio, quello di “sonorizzare” i peggiori crimini della banda, quindi la cosa fondamentale per me era capire come si erano svolti i fatti per poter poi creare una sorta di sceneggiatura che sarebbe diventata la struttura del pezzo. Quindi mi sono concentrato più che altro sulla ricerca di libri o documenti con fonti attendibili che raccontassero cos’era successo (o cosa si presume possa essere successo) e poco altro. Non mi è mai interessato affrontare tutte le questioni e le ipotesi riguardanti le azioni della banda (qui le teorie si sprecano), per me l’importante era mettere in musica dei momenti di follia e terrore.
Nelle tue esibizioni live di Uno Bianca la musica è accompagnata da immagini, scritte e video essenziali, molto diversi da quelli che accompagnano le esibizioni dei tuoi precedenti pezzi. Una formula che aiuta a descrivere i fatti e a meglio comprendere la tragicità degli eventi, senza però far passare in secondo piano la musica. Più che un concerto i tuoi live sono una sorta di esperienza multisensoriale dal forte valore emotivo. Ci racconti com’è nata l’idea di un live di questo tipo?
Devo innanzitutto dire che avrei voluto avere i visual anche per i tour precedenti, ma alla fine per un motivo o per un altro (a dire la verità sono tantissimi fattori messi insieme) non sono mai riuscito a mandare in porto questo aspetto dei live. Per questo disco, però, la questione “visual” non poteva essere ignorata. Non a caso anche nel disco si trova una guida all’ascolto in cui vengono raccontati i vari episodi, dando così la possibilità all’ascoltatore di poter capire cosa stia succedendo a livello musicale. Quindi ho deciso di creare un video per ogni pezzo del disco, ma non volevo fare dei videoclip veri e propri (anche perché le immagini di repertorio non sono comunque moltissime), mi interessava più che altro raccontare attraverso poche immagini, poche parole e alcuni simboli ricorrenti (come i flash degli spari e le croci). Se non ci fossero i visual penso che nessuno capirebbe cosa sto facendo durante i concerti, i pezzi sarebbero fini a se stessi e ci sarebbe addirittura il rischio che venissero ascoltati con le stesse “intenzioni” di quelli dei dischi precedenti, dandone una interpretazione grottesca e quindi sbagliata. I video della seconda parte del concerto (i cui suono appunto pezzi presi dai dischi precedenti) sono addirittura spesso più truci di quelli di Uno Bianca, ma tutto sommato vengono vissuti con più leggerezza dalla gente.
Uno Bianca è stato oggetto di critiche per una sbagliata interpretazione dei tuoi intenti; se ne è parlato molto sul web. Te l’aspettavi una cosa del genere? Cosa hai pensato quando hai letto l’articolo in questione su “Il Resto del Carlino”?
Ho pensato che a questo mondo non c’è proprio speranza… L’articolo (quello che ho condiviso su Facebook è solo uno dei tre usciti anche sul cartaceo) è stato scritto dopo essere stato un’ora al telefono con uno dei loro giornalisti a cui ho spiegato per filo e per segno tutto di me, del mio progetto e di quello che ho fatto nella vita, giusto per non lasciare delle zone d’ombra. Però niente da fare, evidentemente avevano già deciso tutto prima di contattarmi e nonostante io abbia mandato il disco alla redazione del giornale, è palese che l’articolo fosse in pratica tutto già scritto prima ancora di contattarmi. Come è palese che nessuno ha ascoltato gli mp3 che ho mandato. Questi articoli poi hanno sollevato degli strascichi di polemiche molto fastidiose, a dirla tutta. Io ho solo raccontato in musica una storia, ma evidentemente questa cosa non si può fare. Davvero non capisco.
Questa è una domanda personalissima, o forse no. Nelle tue produzioni musicali ti sei quasi totalmente discostato dal concetto di “canzone”. In Uno Bianca i testi sono quasi del tutto assenti. Tuttavia ho sempre avuto difficoltà a scollegare totalmente la tua musica dalle parole, perché non immagini la quantità di parole che viene fuori dalla mia penna dall’ascolto di Bologna Violenta. Come la mettiamo con questo aspetto della tua musica?
Eh… bella domanda… Penso che il tutto nasca dal fatto che sono cresciuto con la musica classica, soprattutto quella sinfonica e da camera (quindi molto poco cantata) e non sono mai stato molto legato ai testi delle canzoni. Mi sono sempre perso nell’ascolto dei suoni più che nel capire il significato dei testi. Quando devo fare musica mia non mi viene mai l’idea di metterci una voce o un testo per così dire “tradizionali”. Non amo cantare (e non riesco a ricordare i testi delle canzoni), ma mi piace mettere delle piccole parti parlate per dare un senso più compiuto a ciò che sto cercando di comunicare (vedi ad esempio “Morte” o “Maledetta del Demonio). Nell’ultimo disco ci sono poche parole, ma c’è la guida all’ascolto che è comunque una parte fondamentale dell’intero lavoro. Come dire, di testi ce ne sono, a volte sono poche parole, ma devo dire che spesso celano dei mondi molto più grandi di quello che può sembrare. Forse è semplicemente perché nella vita tendo ad essere logorroico, quindi nella mia musica cerco di essere sintetico.
Forse è troppo presto per parlare di bilanci, Uno Bianca è uscito da poco e tu sei a metà del Tour di promozione. In ogni caso, te la senti di dirci come sta andando? Si tratta di utopie o di piccole soddisfazioni?
Penso di poter tranquillamente parlare di grandi soddisfazioni. Il disco, pur nella sua complessità, piace molto alla gente e i concerti sono un momento molto forte, in cui il pubblico se ne sta in silenzio per quasi un’ora a guardare con attenzione e a subire la violenza che esce dall’impianto. Spesso a fine concerto scattano dei lunghi applausi a cui non sono davvero abituato e questo mi fa pensare di aver fatto un buon lavoro, che nonostante sia lontano da quello che la gente ascolta normalmente, riesce comunque ad arrivare al cuore di è presente al concerto.
C’è un’esibizione live che più ti ha emozionato finora o alla quale tieni particolarmente?
Questa è una domanda difficile… Ogni data è speciale per molti motivi e devo dire che questo tour mi sta portando anche in posti dove non avevo mai suonato, trovando un forte riscontro di pubblico anche nelle serate nei posti meno tradizionali. Le prime date, quelle all’interno del Woodworm Festival sono state molto impegnative da un punto di vista emotivo, almeno per me, visto che non sapevo assolutamente cosa avrebbe recepito il pubblico e se sarebbe piaciuto il nuovo spettacolo.
Rileggendo una tua intervista di un paio d’anni fa su Rockambula, ho sorriso di fronte alla tua risposta alla domanda “La tua paura più grande?” (Cito: Ho paura che tutto possa cambiare da un momento all’altro e dover ripartire. Di nuovo (…) Vorrei un po’ di tranquillità). Sei riuscito a trovare la tranquillità che ti eri augurato qualche tempo fa?
Ricordo quell’intervista e ad oggi non mi sembra che le cose siano molto cambiate. C’è da dire che sto lavorando molto, quindi il periodo è assolutamente positivo, ma ho anche capito che quel tipo di tranquillità che ricercavo un paio di anni fa non è ancora così vicino come pensavo. Però molte cose sono cambiate nel frattempo, ho un’idea più chiara di chi sono e di cosa voglio e posso fare nella vita, quindi sono più tranquillo da questo punto di vista. Mi sono anche reso conto che le ripartenze fanno parte della mia vita (e penso anche di quella di molti), quindi ogni volta vado avanti senza pensare troppo al passato o a quello che è stato e cerco di dare il meglio ogni giorno.
Hai già nuovi programmi per il “post” Uno Bianca? Ci sono già dei progetti futuri in ballo?
Ho sempre molte idee che mi girano in testa, e sto anche pensando al “post” Uno Bianca, ovviamente. Attualmente sono impegnato su parecchi fronti, collaborando con vari artisti come arrangiatore, violinista o produttore, quindi tra il tour e questi vari lavori non ho molto tempo per pensare al futuro di Bologna Violenta, ma sto già cominciando a raccogliere materiale per quello che potrebbe essere il prossimo disco.
Grazie mille Nicola. Per concludere, c’è qualcosa che non ti ho chiesto, alla quale ti sarebbe piaciuto rispondere?
Grazie mille a te per lo spazio che mi hai concesso. Tengo solo a precisare che non uso synth e tastiere varie per ricreare il suono degli archi. Faccio delle lunghe session di registrazione in cui registro tutti gli strumenti. Giusto perché qualcuno parla di “tastiere” riferendosi agli archi…
Bologna Violenta 15/03/2014
Il 15 marzo era una data che aspettavo da molto tempo; da almeno due anni infatti (a meno che la memoria non mi faccia brutti scherzi) Nicola Manzan alias Bologna Violenta non si faceva vedere da queste parti. A dare un ulteriore valore a questo week-end si è aggiunta, inoltre, la visita inaspettata in uno special guest ti tutto rispetto con il quale ho il piacere di avere in comune parte del patrimonio genetico, ma questa è un’altra storia. Come spesso accade mi trovavo al Blah Blah, ed il pubblico che animava i portici e l’interno del locale, quella sera, era davvero molto variegato: abbigliamenti “normali” affiancati a look sovversivi da pirata, con comparse sporadiche di chiome dal colore cangiante, dal blu elettrico al rosso vivo.
Mi sento comunque di dire che il colore predominante era il nero, nella sua variante di nero con borchie. Anch’ io per l’occasione ho deciso di sfoderare il mio finto pellame da combattimento lasciando però le borchie a casa; non avrei mai voluto esagerare con la sobrietà. Tra i look “estremi” che mi circondano, vince il primo premio quello del tizio capellone e cotonato che mi ritrovo davanti durante il concerto, e che per l’occasione ho deciso di ribattezzare “Mufasa” (chi come me ha passato parte dell’infanzia a piangere durante la visione del Re Leone sa di cosa parlo). Il concerto è aperto dai Seitanist, ma l’attesa è tutta per Bologna Violenta che presto si palesa sul palco carico di strumenti accompagnato da Nunzia, carichissima anche lei. Un brevissimo soundcheck per Nicola, e poi subito si riparte.
Uno Bianca, l’ultimo album di Manzan, viene suonato per intero, senza interruzione: 27 brani di pura violenza emotiva per raccontare uno dei peggiori fatti di cronaca nera avvenuti in Italia, accompagnati da immagini di repertorio, video di quegli anni e scritte essenziali che meglio aiutano a descrivere i fatti e a comprendere la tragicità degli eventi. Si tratta di video minimalisti, essenziali nella loro forma, di contorno alla vera protagonista che rimane sempre e comunque la musica, che da sola riesce davvero a narrare e ad esprimere tutta l’angoscia, la violenza ed il terrore legato a quegli anni tristissimi. Terminata la performance legata ad Uno Bianca, Manzan procede con alcuni pezzi memorabili tratti dagli ultimi suoi due album; in questo caso i video di accompagnamento alla musica si fanno decisamente più espliciti sia nelle immagini che nei contenuti (Manzan non ti perdonerò mai per avermi fatto assistere alla decapitazione di un toro! Sappilo!). Terminato il concerto, Mufasa ed il suo branco assalgono BV con le loro domande. Io passo a salutare Nunzia nell’area “merch” e subito dopo raggiungo anch’io il mio branco. Mentre mi perdo in un interminabile monologo interiore di cui questo live report è figlio, penso che stavolta Manzan abbia superato sé stesso dando vita non solo and un album degno di nota, ma mettendo in scena un vero e proprio “spettacolo” dal forte valore emotivo, capace di coinvolgere anche i meno amanti del genere; un qualcosa che va oltre un semplice concerto, e che è legato in qualche modo col concetto di Memoria, per non dimenticare ciò che è stato, per fare in modo che non accada più.
Lili Refrain
Una promessa, ecco cosa è Lili Refrain; una ragazza dalle mille doti che è riuscita, attraverso la sua musica, a estirpare ed emanare il lato più oscuro e creativo della sua persona. L’artista è riuscita in poco tempo a pizzicare l’attenzione dei critici e degli appassionati. Tra una chiacchiera e l’altra siamo riusciti a scoprire particolari davvero interessanti oltre ai dietro le quinte delle canzoni di Kawax.
Ciao Lili e benvenuta su Rockambula. Direi di iniziare questa intervista raccontandoci un po’ di te: chi è Lili, quando e come è nata artisticamente, da chi è influenzata e quali sono le sue aspirazioni?
Ciao a te e grazie per questo spazio! Ho sempre ascoltato moltissima musica fin dalla primissima infanzia ed ho sempre associato a questo linguaggio la più potente forma di comunicazione, libertà ed evasione. Ho trovato recentemente delle foto di quando ero piccola e imbracciavo molto spesso una chitarra immaginaria facendo finta di suonarla, credo tutto sia iniziato da lì. Ho sostituito l’immaginazione con una chitarra in legno, corde e anima all’età di tredici anni e pur non avendo mai studiato questo strumento non me ne sono mai più separata. Lili è diventata una parte di me nel 2007 dopo diversi anni passati a suonare la chitarra in diverse band, ha iniziato a prendere il sopravvento in tutti quei momenti in cui emozioni, pensieri e visioni hanno avuto la forte urgenza di uscire fuori, da quel momento è nato il mio progetto solista e ho iniziato a mescolare differenti generi tra loro creando il mio personalissimo diario di bordo musicale. A livello di influenze sonore c’è sicuramente il blues, la psichedelia, il metal, la musica classica e anche un po’ di quel teatro sperimentale dove la voce assume un ruolo prettamente gestuale. Le miei aspirazioni sono quelle di continuare ad ascoltare e fare musica a 360°
Kawax è il tuo nuovo album; per qualcuno le tematiche sono parse come un continuo di quelle del disco 9. Ma a parer tuo quali sono le principali differenze tra i due dischi in generale?
9 è un album molto più barocco e complesso dal punto di vista compositivo rispetto a Kawax, è decisamente più virtuoso a livello tecnico e anche un po’ dimostrativo in un certo senso. Dopo due anni dall’uscita del primissimo disco autoprodotto, avevo l’esigenza di spingere al massimo livello le potenzialità compositive della stratificazione sonora senza mai sfociare nel Noise, lasciando molto spazio alla melodia e ripercorrendo volutamente quella che è stata la mia iniziazione musicale. Non a caso è un album pregno di citazioni che omaggiano alcuni dei miei punti di riferimento soprattutto in campo chitarristico. Kawax vede la luce tre anni dopo, nel mentre si sono susseguiti centinaia di live sia in Italia che in Europa e sono accadute anche moltissime cose nella mia vita privata.
È un disco che nasce da esigenze totalmente diverse e durante un periodo abbastanza buio in cui ho vissuto dolorose separazioni. La necessità che mi ha portato a questo album è stata estremamente viscerale e meno cervellotica, visto il bisogno estremo di esorcizzare in modo più immediato e diretto ciò che mi è capitato in questi ultimi anni. Anche a livello sonoro sono due album molto differenti, Kawax si porta sicuramente dietro tutto il bagaglio dei numerosi concerti fatti prima della sua uscita e i brani eseguiti evocano molto di più le atmosfere del live rispetto a 9.
Come nasce un pezzo di Lili Refrain, hai qualcosa che ti da inspirazione?
Solitamente quando sento l’esigenza di scrivere un brano significa che c’è qualcosa che non va. Quando si è felici non si è molto ispirati perché tutte le energie sono convogliate a gustarsi quel determinato momento di gioia, io per lo meno cerco di gustarmeli un bel po’ quando capitano. Un mio brano nasce quindi da momenti meno luminosi, più riflessivi e scomodi emotivamente al punto da sentire la necessità di tirarli fuori in qualche modo, è un atto necessario, è come un esorcismo. Mi chiudo in una stanza e non esco finché non sono esausta, è una grande fortuna per me che in quella stanza ci sia un amplificatore e una chitarra, sarebbe potuto andarmi molto peggio!
In Kawax troviamo anche la partecipazione di alcuni ospiti d’ eccezione: gli Inferno Sci-Fi Grind’n’Roll; come è nato l’ incontro e perché hai scelto proprio loro?
Gli Inferno li conosco da moltissimi anni, soprattutto Valerio Fisik che oltre ad essere un chitarrista è anche l’eccellente fonico con il quale ho registrato tutti e tre gli album che ho prodotto fino ad ora. Due anni fa abbiamo deciso di partire insieme per un lungo tour in Europa e ci siamo tutti profondamente legati, la loro presenza era d’obbligo in quest’album, soprattutto in “Tragos” che molto spesso abbiamo eseguito insieme dal vivo proprio durante il tour. Oltre a loro ci sono anche altri due ospiti d’eccezione che sono Valerio Diamanti, il batterista dei Dispo che suona la batteria in “Baptism of Fire” e Nicola Manzan aka Bologna Violenta che ha impreziosito il brano finale con degli splendidi archi.
Anche la copertina di Kawax è interessante, chi l’ha realizzata e perché hai scelto proprio quell’immagine?
Il disegno è opera di un’artista argentina che vive da anni a Roma e di cui ho sempre apprezzato moltissimo il lavoro, si tratta di Fernanda Veron che ho avuto modo di conoscere molto più a fondo grazie alla collaborazione con questo album. L’immagine rappresenta un sogno che ho avuto in un momento piuttosto difficile, avevo da poco perso mio padre e sono sprofondata in uno stato abbastanza buio d’esistenza, è una sorta di minotauro che è venuto a trovarmi nel tentativo di indicarmi l’uscita dal labirinto. E’ un’immagine per me molto evocativa, potente e anche estremamente positiva perché mi ha permesso di attivarmi e smuovere ciò che sembrava irrimediabilmente pietrificato in quel determinato frangente.
Invece della Subsound Records e Sangue Dischi cosa ci dici, come è nata la collaborazione?
Davide e Luca sono due persone che apprezzo e stimo moltissimo ed è per me motivo di estremo giubilo averli insieme in questo viaggio. Con Davide desideravo collaborare da tempo perché ritengo che con la Subsound faccia davvero un eccellente lavoro e avere una label che ti sostiene così tanto lavorando costantemente insieme è qualcosa di meraviglioso per un musicista, soprattutto per me che non avendo un gruppo ho sempre provveduto a tutto per conto mio. Luca lo conosco da anni e abbiamo condiviso palchi e collaborazioni, era diverso tempo che mi proponeva di fare uscire un disco con la sua etichetta e alla fine ce l’abbiamo fatta, questo è il mio primo vinile ed è una soddisfazione pazzesca!
Una domanda a bruciapelo: nella recensione ho detto che molto probabilmente i film sulle streghe di Dario Argento con una colonna sonora alla Lili Refrain avrebbero fatto ugualmente una bella figura, ritrovandosi un interessante tocco sinistro diversamente inquietante rispetto a quello dei Goblin. Tu cosa ne pensi?
Non saprei, non riesco proprio ad immaginarmelo un Argento senza Goblin! Ricordo che da piccola quando mi capitava di ascoltare la colonna sonora di Suspiria e senza mai aver visto il film, mi cacavo sotto in una maniera incredibile! Mi faceva una paura pazzesca quel disco!
Non credo che la mia musica abbia lo stesso effetto terrificante… ma grazie per l’associazione!
Parlando della tua teatralità cosa ci dici? A chi ti rifai per questa?
Quando suono dal vivo sento la necessità di tener separata la mia vita ordinaria da quella stra-ordinaria vissuta durante un concerto. Ho bisogno di rievocare e rivivere determinate sensazioni per eseguire un brano in tutta la sua essenza. È questo il motivo per il quale Lili Refrain ha il suo trucco guerrigliero, i suoi simboli e il suo abito di scena. Se non lo facessi e non assumessi un “ponte” tra me e la mia musica, rischierei di perdermi a lungo andare, di compiere dei gesti meccanici privi di “anima”. Più che teatralità si tratta quasi di un vero atto sciamanico, ma in fondo i concerti dal vivo non sono forse uno dei più potenti rituali collettivi che ci capita di celebrare?
Ho notato alcuni show sul tuo canale Facebook, hai seguito un criterio per scegliere le date in cui suonare? Riuscirai a venire anche a Napoli?
Magari! Napoli è una città che adoro! La prima volta che ci sono stata sapevo esattamente dove andare ed era incredibile dato il mio pessimo senso d’orientamento, era come se la città stessa mi guidasse, spero di tornarci molto presto! Riguardo al criterio della scelta della date è del tutto punk, non ho alcuna agenzia alle spalle, le date le trovo quasi sempre da sola e dopo sette anni di e-mail mandate nell’ovunque e una quantità industriale di concerti sparsi in tutta Italia, ho la soddisfazione di ricevere spesso richieste da parte di chi organizza i live, l’abilità sta poi nell’unire i pezzi mancanti per creare un viaggio sensato, soprattutto quando si viaggia in treno! Insomma, dipende un po’ da cosa capita ma a Napoli conto di tornarci presto, anche perché ho un album nuovo da presentare!
Ho notato nei tuoi lavori che strizzi un po’ l’occhio all’esoterismo. Se è un tuo interesse come è nato, cosa ti ha fatto scattare la molla?
Esoterismo è un termine forse un po’ troppo abusato e delle volte viene chiamato in causa rischiando di confondere un po’ le idee.
Per quel che mi riguarda ho un’attività onirica decisamente molto intensa che mi ha portato a fare diverse ricerche nel tentativo di interpretare i simboli che mi apparivano di volta in volta. Ci sono una miriade di cose che conosciamo senza sapere di conoscere e non c’è nulla di esoterico o magico in tutto ciò, si tratta di qualcosa di atavico, impresso nel nostro DNA dai tempi dei tempi, solo che abbiamo bisogno di input per destare la nostra memoria o almeno questo è quello che capita a me… i miei lavori sono profondamente connessi alla mia vita personale, ai miei sogni e credo di strizzare l’occhiolino molto più a loro che non ad altro.
Bene Lili, l’intervista si chiude qui, concludi come meglio ti pare…
Grazie ancora per quest’intervista Vincenzo, concludo lasciando un po’ di link dove è possibile ascoltare ciò che faccio e trovare tutte le date aggiornate dei miei prossimi concerti:
http://lilirefrain.blogspot.it/
http://lilirefrain.bandcamp.com/album/lili-refrain
https://www.facebook.com/lilirefrain
http://www.youtube.com/shippinghead
http://subsoundrecords.it/
http://sanguedischi.com/
Non tutto può essere giornalismo, ovvero, come essere superficiali su Il Resto del Carlino.
Non tutto può essere giornalismo e quello che stiamo per illustrarvi crediamo proprio che non lo sia. Solo l’altro ieri è apparsa, sulle pagine web del noto quotidiano nazionale, una news che noi fagocitatori di Rock non potevamo certo far passare inosservata (la trovate qui). Titolo “Non tutto può essere rock”. L’argomento è Bologna Violenta e il suo ultimo album Uno Bianca. Il giornalista è Beppe Boni. La sua non è una recensione ma una pseudo accusa che parte dall’idea che Nicola Manzan (alias BV ma forse lui non lo sa) abbia voluto semplicemente spettacolarizzare un evento drammatico. Accusa che sfiora il ridicolo e che finisce per diventare lo strumento che smaschera l’impreparazione del giornalista, almeno in ambito musicale.
Parla del disco Uno Bianca Tour (ma che c’entra il termine tour?) e poi scrive:”I parenti delle vittime per loro ammissione sapevano e non sapevano”; ma che diavolo di informazione è questa? Scrive ancora:”esce tragicamente dal buon gusto dato che sulla scena, quella vera, ci sono 24 morti e 102 feriti, i brani sono solo strumentali.” Ora, fermo restando che non capisco perché trattare un evento tragico in musica sia uscire dal buon gusto, che diavolo vuol dire che i brani sono strumentali?
Probabilmente se il dott. Boni avesse davvero ascoltato l’album in questione ne avrebbe colto il trasporto e la violenza emotiva nel raccontare in musica tale immane tragedia, cosa che molto probabilmente le generazioni che non hanno vissuto quegli anni di orrore sono riusciti a fare. Ma questo richiede tempo, passione e una sensibilità che va oltre il semplice titolo di un disco. Non tutto può essere rock, è vero, ma nulla può essere trattato con superficialità, almeno da un giornalista.
Nuovo disco work in progress per Bologna Violenta
Non c’è ancora una data d’uscita né un titolo, ma Nicola Manzan alias Bologna Violenta dice di non preoccuparsi: ha cominciato a lavorare al suo nuovo album e promette del “terrore puro”. Sulla sua pagina facebook annuncia inoltre che ha ufficialmente richiesto alla Biblioteca di Rimini la fotografia che farà da copertina al suo nuovo lavoro. Si susseguono uno dopo l’altro gli indizi che rendono più curiosa l’attesa. Armatevi di pazienza, bisognerà attendere ancora.
Marydolls – La Calma
Dolcezza monolitica e giugulare espansa, una “fabbrica di membrane oscure” per una serie di incredibili attimi di elettrica santità. Tutto questo nel secondo album dei bresciani Marydolls che hanno poi la sfrontatezza di chiamarlo La Calma alla faccia della gradevole sensazione. Un disco che pesa sia di suono che di lirica, una condizione sonora che fa fuoco attraverso un profondo smarrimento di luce, disco che attraversa i Verdena come un raggio di laser e li infilza nelle provocazioni della sintomatologia malata del Grunge, undici tracce che tra pomposità amperiche e pugni riflessivi di “umanità semplice” scardinano e sconvolgono qualsiasi volontà a mettere in moto un minimo sindacale di pace interiore.
Il trio in questione mette in primo piano una buona dose di genialità nel non ricadere nei copia incolla che spesso il genere mette come tranello, usa malinconie e scatti d’ira con gli stessi pesi dell’intensità emotiva, spinge su pedaliere e ritmi con l’urgenza di chi è padrone assoluto della naturalezze elettrica e s’innesta nelle impennate della propria personalità rock come una forza scura e impenetrabile; sfarzo micidiale nelle trombe che si sposano alla perfezione con le intemperie di chitarra elettrica “Non mi Passa”, tagliente nella speranza di sperare che monta piano piano “A Piedi Nudi”, sfacciati con i demoni Nirvanici che si agitano in “Animale”, “Tangenziale”, come affittuari del caos Pumpkinsiano “A Testa in Giu”, una tracklist perfetta, di gran gusto che regala anche gioielli acustico/elettrici tribali che raggelano il sangue sia per la strisciante tristezza di violoncello nella strepitosa “Luna” che nel ricordo dei fantasmi erranti dei Ritmo Tribale che dondolano tra “Docce” e “La Calma”.
Disco assolutamente da non perdere, non solo perché tra le trame si muovono nomi come quello di Nicola Manzan, ma anche perché questa matassa esplosiva presagisce con certezza, un di sicuro ed imminente capolavoro. Qua la mano!
Kill Your Boyfriend – Kill Your Boyfriend
Benvenuti nei deliri onirici dei veneti Kill Your Boyfriend, trio elasticizzato, che nel loro omonimo debutto garantiscono l’effetto straniante e accentuato di un bellissimo elettro-post rock e filamenti punk-wave, una digressione o meglio una imponente estensione di suoni, larsen, nenie e cosmique thing che desta attenzione nonché una buona e stralunata vertigine che si innesca sin dalla prima delle otto tracce in scaletta.
Dunque una prorompente onda color pece che si affaccia nella consapevolezza e tra le divagazioni della musica indipendente, un progetto sonico che vede in Marco Fontolan, Matteo Scarpa e Roberto Durante e nelle manipolazioni in fase di missaggio di Nicola Manzan (Bologna Violenta) la tiratura emozionale di un disco buio ma illuminato da accecanti ed impenetrabili flash di lontani anni Ottanta – ma di quelli svegli – sui quali si possono rileggere i sospiri malati di Joy Division, Jesus & Mary Chain, Velvet Underground, quel fustigato senso maledetto che – nonostante gli anni di mezzo – esponenzialmente seguita a crescere incredibilmente, diaboliche fitte nel cuore che questa formazione contribuisce a riprodurne i fasti e le convinzioni dentro un viaggio sonoro, notturno, a cinque stelle.
Con l’annaspo filettato di certi Sigue Sigue Sputnik che agitano la robotica di “Chester”, il disco comincia a macinare pazzie amplificate, nichilismi avanzati e coma vigili che si diffondono immediatamente nelle angolarità sintetiche di “Jacques” come negli inneschi ad ingranaggio cosmico che si fanno mantrici nelle volte di “Xavier”; è un esordio teso, stupendamente teso che attacca togliendo il fiato fino ad incantarti del tutto, togliendoti momentaneamente un pizzico di ragione mentale in una gemma ipnotica dai sapori orientali “Tetsuo”, traccia col numero sette del lotto che su fusioni psichedeliche e tratteggi etnici-elettronici ti domina e ti fa suo al pari di un amore sacrificale.
Già sapevano di avere tra le mani un piccolo capolavoro, ed ora è inutile dire che ci avevamo visto, pardon, sentito bene!