Da Sassari arrivano The Scunned Guests, quartetto composto da Gianni Senes, potente voce della band, Paolo Vodret al basso, Pietro Marongiu a completare la sezione ritmica e Marco Calisai alla chitarra. Il loro sound spazia in tutto l’universo Alternative Rock, toccando note che richiamano alla mente Led Zeppelin, Faith No More, Nirvana, Pearl Jam, Beatles e tanti altri. Trovate The Scunned Guests – “Sogno e Son Desto” di seguito e in homepage per tutta la settimana.
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Aa. Vv. – Son of a Gun A Tribute to Kurt Cobain
Il cinque aprile di venti anni fa muore, apparentemente sparandosi una fucilata alla testa, quello che è innegabilmente uno tra i personaggi più importanti, influenti, sfrontati e idolatrati che la storia del Rock ricordi, uno di quei loser (al fianco di Ian Curtis, Elliott Smith e pochi altri) capaci di affascinare intere generazioni per decenni e anche oltre. Per l’occasione, Big Red Agency e RuSsU (Totale Apatia) in collaborazione con La Città della Musica e Rock House, hanno promosso questa raccolta di cover, reinterpretate da band e musicisti lombardi, per ringraziare Kurt per quello che ci ha consegnato. Tutto fantastico, in apparenza, ma poi ci tocca stendere una recensione di questo lavoro, cercando di tirare fuori tutto il cinismo possibile trattandosi di rievocare un personaggio a noi tanto caro e scomparso in circostanze così atroci. Come si può discorrere in modo ostile di un tributo a un’artista come Kurt Cobain? Infatti, non è quello che farò, perché la scelta di mettere insieme questi diciannove riarrangiamenti da parte di Big Red Agency e gli altri è totalmente comprensibile, gradito e, la quasi generale assenza di desiderio di speculazione mi spinge ad accettare con ancor più appagamento questa pura voglia di ricordare e omaggiare attraverso le note dei Nirvana.
Come abbiamo accennato, però, l’album è fatto non solo di parole dei Nirvana, ma di canzoni della grande band di Aberdeen rivisitate da nostrane formazioni lombarde, non tutte in grado di rileggere con sensibilità nuova quei brani, mantenendone inalterata l’intensità emotiva. La scelta condivisa dalla maggior parte delle band è di non stravolgere eccessivamente lo stile originale, forse mostrandosi saggi o spaventati dagli ovvi paragoni, e quindi, per lo più, la tendenza è sottolineare chi l’aspetto Punk (Andead), chi quello Rock (Mad Penguins, Marydolls, Str8t), chi quello Alternative (Cronofobia, Nessuno, Pay) e chi quello Lo Fi (Il Re Tarantola) della band regina assoluta del Grunge. Diverse le formazioni che provano ad aggiornare con raffinata adeguatezza al presente le note di Cobain, alcune riuscendoci in pieno e altre meno ma comunque palesando una buona dose di coraggio che non deve essere trascurata. Discrete le scelte di Hey! Amber, Incomprensibile Fc mentre ottima è la selezione del brano da parte dei 36 Stanze che offrono una versione Crossover di “Tourette’s”, cosi come non dispiacciono l’intima rivisitazione di “Rape Me” di RuSsU e “Serve the Servants” in chiave Rock’n Roll dei Seddy Mellory. Passando al peggio ascoltato nella compilation, dispiace dover citare le due brutte trasposizioni Rock scialbissimo e Hard Rock dei Deizy e dei Blackline e disturba addirittura lo stile e la timbrica irriverente, in senso cattivo, dei Malena cosi come la “Sliver” dei Totale Apatia che quasi annienta la potenza intrinseca del brano originale. Per fortuna ci pensano prima i Korova Milk Bar con una splendida “Drain You” a risollevare il livello e poi i Matmata con “Dumb”.
Un lavoro senza troppe ambizioni che non ci regala molte positive chiavi di lettura, ma quantomeno pone l’accento su una grande formazione a tratti troppo bistrattata ma che invece ha saputo fare della semplicità e del minimalismo rabbioso una forza capace di resistere al tempo. Un lavoro che aiuterà i più distratti a ricordare di un perdente che il tempo ci ha insegnato a riconoscere come un grande uomo oltre che un immenso artista.
Vostok – Vostok
Si può dire tutto dei livornesi Vostok ma non che brillino per unicità. Basta infatti digitare il loro nome su un qualsiasi motore di ricerca per trovare almeno cinque omonimi sparsi tra Russia, Inghilterra, America e addirittura Italia (un duo pugliese di cui abbiamo recensito l’album di debutto Lo Spazio Dell’Assenza più o meno un anno fa). Leggendo nella loro biografia che questi Vostok nascono dalla voglia del chitarrista e del batterista di dar vita a qualcosa di nuovo, mi sento rincuorato e affronto l’ascolto con un piglio fiducioso. Vane speranze che si dissolvono al cospetto del riff iniziale di “Solo un’Ora” piuttosto simile a “School” dei Nirvana. Comunque intravedo del buono, nascosto, nemmeno troppo bene, sotto pelle. Queste buone sensazioni sono tutte espresse nelle prime cinque canzoni, dove il valore aggiunto è l’ispirazione, figlia non solo della band-icona di Kurt Cobain, ma anche dei Seaweed (pargoli dimenticati ingiustamente della corrente Grunge) e dei più rinomati Queens Of The Stone Age. Un po’ come se Seattle rivivesse vent’anni dopo in Toscana. E poi mi perdoneranno se l’attacco di “Sui Tuoi Passi” mi ricorda simpaticamente “Teenage Lobotomy” dei Ramones, anche se poi il brano si sviluppa in modo totalmente differente. Il Rock ‘N’ Roll del singolo “Baudelaire”, la perfetta armonia tra suoni acustici ed elettrici di “Eva” e la vena poetica de “La Sindrome di Danuz” (sei come neve che il sole on teme, versi semplici eppure di forte impatto) ci prendono per mano e ci conducono alla fine della prima parte del disco.
Se si concludesse qui e fosse un EP sarebbe da 7 pieno. Purtroppo non è così e le altre cinque tracce sono più deboli, mancano di coraggio e finiscono per darsi la zappa sui piedi, facendo abbassare il voto complessivo. L’esordio dei Vostok ci mostra un progetto che sa di work in progress, colmo di cose interessanti e dell’impegno per realizzarle al meglio. Magari se le idee non fossero così appannate si andrebbe ben oltre la sufficienza. Alla prossima puntata.
Il Re Tarantola – Il Nostro Tabacco Sa d’Amore
Ho ascoltato un paio di volte questo nuovo lavoro de Il Re Tarantola senza Emma Filtrino, con la quale aveva realizzato le prime cose, e subito mi sono immaginato un personaggio simpatico e un po’ svampito, una specie di amicone che a trent’anni non sa che diavolo fare nella vita oltre ad essere felice e fregarsene. Poi ho udito ancora e mi sono cascate le braccia, ritrovandomi di nuovo tra le orecchie uno di quei grossolani gruppi indie italiani madrelingua; di quelli che non si capisce bene cosa dicano e sputano frasi a effetto di quelle che piacciono a un pubblico sempre meno attento alla sostanza e sempre più all’apparenza. Poi ho origliato ancora, ho capito che Il Nostro Tabacco Sa d’Amore (che richiama il precedente del 2011 Il Nostro Amore Sa di Tabacco) stava diventando una specie di droga per me e ho deciso che dovevo capire meglio questo stranissimo cantautore bresciano.
Il suo mix di Lo-Fi e Punk/Grunge attitude mette insieme con naturalezza i Nirvana e Daniel Johnston ma il cocktail che ne viene fuori è talmente sconclusionato e strampalato da avere un sapore del tutto nuovo. Come dice lo stesso Re in un brano, copia tanto male che sembra originale e le parole rendono perfettamente l’idea, alimentando anche il dubbio lecito se tutto sia ricercato con intelligenza o frutto di eccessi di spontaneità. Il Re Tarantola non suona semplicemente Lo-Fi ma ha la bassa fedeltà che scorre come un virus nelle vene; si registra i dischi in casa (anche se registrazione e mixing di questo sono stati fatti dallo stesso Manuel Bonzi al Castello di Gera studio di Breno), dischi che scrive per conto suo e fa lo stesso per video e quant’altro. Inseguendo una nuova tradizione indie italiota, alla bassa fedeltà aggiunge uno stile vocale che chiamare canto è un eufemismo, aggiunge qualche parola che richiami l’attualità mediatica, si atteggia a fiero perdente, gioca con le parole, con ironia e divertimento eppure suona più sincero di ogni Officina della Camomilla o Dente che possiate aver ascoltato negli ultimi tempi.
Il Re Tarantola è divertente senza doversi necessariamente atteggiare a profondo conoscitore della vita e senza doversi mostrare come un nuovo poeta maledetto per poveri senza cultura. È sincero e inadeguato, realmente imperfetto tanto che in certi momenti pare quasi di ascoltare dei perfetti incompetenti, gente che con la musica c’entra poco, anche se le melodie e le canzoni e i ritornelli e tutto quanto sono di un’amenità unica. Cosa c’è di eccezionale nella musica de Il Re Tarantola non è facile da dirsi. Di sicuro non bastano i testi evocativi, malinconici, spesso sbagliati anche nella forma (eppisodi al posto di episodi non si può sentire) e non è troppo originale la formula Folk/Lo-Fi che unisce chitarrine, tastiere e rullanti eppure ha un che di difficilmente riscontrabile in ogni altra nuova proposta. Un suono talmente genuino che riesce a trasformarsi in pura piacevolezza, la stessa avvenenza che riesci a vedere quando senti un bimbo incespicare nelle sue prime parole. Nirvana abbiamo detto e tanto Daniel Johnston e poi Folk e chitarre taglienti e fastidiose come in un certo Psych Garage Rock anni Sessanta tutto in uno stile semplice e assolutamente inoffensivo, totalmente depurato da ogni possibile violenza o aggressività sonica. Ascoltatelo per bene, è molto più di uno scarso cantante o pessimo musicista che non sa scrivere testi impegnati, immaginifici e cool. Molto più che un tizio che canta e suona male sparando cazzate che mettono allegria. Potrebbe anche essere una nuova via per l’Indie italiano, una strada da scoprire facendo retromarcia e prendendo coscienza dei propri limiti, con naturalezza, scoprendosi meno di quello che noi stessi vogliamo credere.
Son of a Gun: Tributo a Kurt Cobain
8 Aprile 1994….non c’erano ancora i telefonini e facebook..i tg italiani si “accorgono” dei Nirvana prima con l’overdose e il ricovero a Roma di Kurt Cobain dopo l’ultima apparizione televisiva a “Tunnel” su RAI3 e poco dopo danno la notizia che segna un’intera generazione…5 Aprile 2014, saranno passati 20 anni dalla morte di Kurt Cobain e per l’occasione ecco la compilation dal titolo Son of a Gun. Una raccolta di cover, reinterpretate da band e musicisti lombardi per ringraziare Kurt per quello che ci ha lasciato. L’ uscita è prevista per aprile 2014, promossa da Big Red Agency e RuSsU (Totale Apatia) in collaborazione con La città della Musica e Rock House. La compilation verrà distribuita all’ingresso nelle 3 serate di “showcase” previste:
VENERDI 4 APRILE – ROCK N ROLL – MILANO
SABATO 5 APRILE – LATTERIA MOLLOY – BRESCIA
DOMENICA 13 APRILE – MIDIAN – CREMONA
Seguite tutti gli aggiornamenti sulla pagina Facebook : “SON OF A GUN” a tribute to Kurt Cobain.
LISTA BANDS
1–ANDEAD –- Territorial Pissing
2–BLACKLINE – You Know You’re Right
3–CRONOFOBIA – Spank Thru
4–DEIZY – In Bloom
5–36 STANZE – Tourette’s
6–HEY! AMBER – About a Girl
7–KOROVA MILK BAR – Drain You
8–IL RE TARANTOLA – Even in His Youth
9–INCOMPRENSIBILE FC – Very Ape
10—MAD PENGUINS – Scentless apprentice—
11–MALENA – Lithium
12–MARYDOLLS – Heart Shaped Box
13–MATMATA – Dumb
14–NESSUNO – Mexican Seafood
15–PAY – On a Plain
16–RuSsU – Rape me
17-SEDDY MELLORY – Serve the servants
18–Str8t Cut – Aneurysm
19–TOTALE APATIA – Sliver
Lotus Syndrome – Iride
Questo Ep dei ternani Lotus Syndrome suona in maniera decisamente imperfetta, pena per le mie orecchie, è pieno di difetti, sviste, omissioni, imprecisioni e chi più ne ha più ne metta. Nella loro biografia si autodefiniscono un gruppo dalle trame Post Grunge e Alternative non considerando che il Post Grunge è tutt’altra cosa (chi come me ha vissuto in pieno l’epoca Grunge sa cosa voglio intendere). Per quanto riguarda l’Alternative non è ben chiaro il campo in cui vogliano inserirsi. Tra le influenze leggo Foo Fighters, Muse, Afterhours, Verdena. Ma che diamine! La prima band citata ha un certo Dave Grohl (ex Nirvana) nel gruppo, la seconda vive ormai nell’Olimpo del Rock mondiale e le ultime due sono fra i colossi del mondo Indie italiano. Possibile quindi che miscelando tutti questi talentuosi musicisti come risultato abbiamo soltanto cinque brani male effettati e dai ritmi decisamente incoerenti? Non basta possedere ed emulare la discografia completa dei propri idoli, non basta comporre senza una propria personalità, bisogna mettere le proprie maledette idee nella musica. Eppure le prime note di chitarra della traccia che dà il titolo all’Ep, “Iride”, lasciava presagire qualcosa di ottima fattura, ma poi, si sa, è facile perdersi per la strada soprattutto quando si esagerare a dismisura con gli effetti delle chitarre, il rischio è quello di ledere l’ascolto di una voce molto Indie che non sfigurerebbe in occasione di concerti molto (grandi) importanti (si ha l’impressione di un ottimo risultato live piuttosto che in studio).
“Tempo Artificiale” è invece una piccola gemma lasciata lì, gettata in mezzo ad altri quattro pezzi che potrebbero essere ampiamente migliorati con pochi ma significativi ritocchi (magari con la supervisione di un esperto produttore), magari con qualche controcanto, perché la totale assenza di cori (o seconde voci) si fa notare (così come quella di assoli di basso o batteria) e incide anch’essa parecchio sul giudizio complessivo, ma come dico sempre: “Non dai complimenti si cresce, ma dalle sole critiche…”.
In fondo un passo falso può capitare a tutti, anche ai migliori.
Musica e Cinema: Control
Control (UK, USA, Australia, Giappone)
Anno 2007
Durata 122 min
Regia Anton Corbijn
La vita del frontalist dei Joy Division Ian Curtis (Sam Riley), tratta dal libro biografico “Touching from a Distance”, in italia pubblicato da Giunti editore con il titolo “Cosi vicino, cosi lontano” (permettetemi un off-topic, tradurre “toccandosi da lontano” con un titolo che richiama in modo palese un film di Wenders, è semplicemente senza senso) di Deborah Woodruff Curtis, moglie di Ian (Samantha Morton), è descritta, almeno all’inizio, come quella di un adolescente normale. Va, abbastanza svogliatamente a scuola, ha un migliore amico, a cui frega la ragazza che poi diventerà sua moglie, è fruitore dei concerti delle allora emergenti band britanniche Alternative, la sua camera è piena di dischi e di poster dei suoi idoli ed è tifoso del Manchester City. Si sposa, ha una bambina e un lavoro, in un grigio ufficio di collocamento, canta nel suo gruppo per locali e pub di Manchester e dintorni, via via più importanti, fino alle soglie di una tournèe negli Usa che potrebbe consacrarlo.
Come ogni opera biografica che si rispetti, il film rappresenta uno spaccato di quei anni (fine anni Settanta inizio anni Ottanta britannici). Ma a differenza di altre opere del cinema inglese anche recente, non ci sono riferimenti politici e/o sociali in quella che resta uno dei periodi più tumultuosi della storia inglese, ossia l’ascesa della Thatcher e del neoliberismo che tanti squassi provocarono, soprattutto nel nord-ovest dell’Inghilterra da dove Curtis veniva. Invece gli accenni a quell’epoca riguardano solo l’ambiente musicale underground del tempo. E non potrebbe essere altrimenti dato che la sua vita e il suo mondo, la sua arte e la sua estrema sensibilità sono al centro di tutta la pellicola. Il rapporto con la moglie e l’amante Annick (Alexandra Maria Lara) rappresenta in modo molto chiaro e paradossale l’affresco di questo poeta maledetto moderno; cioè il non sapersi staccare da nulla che lui ama, quasi in maniera spasmodica, dai suoi affetti. Ai più, un tale comportamento sembrerebbe egoistico ma qui viene descritto come un estremo gesto di ipersensibilità che lo porterà alla fine all’autodistruzione.
Cosi come per l’ambiente che lo circonda, anche gli altri personaggi risultano schiacciati dalla sua figura: il suo gruppo quasi scompare, Tony Wilson è trattato come una comparsa, i genitori sono dipinti in modo anonimo e asettico. L’unico che emerge un pochino è il manager dei Joy Division, ma forse più per la bravura dell’attore che lo intrpreta (Toby Kebbel) che per altro. Il rapporto con la malattia, incontrata casualmente e che sarà fonte del brano “She Lost Control” e l’abuso di psicofarmaci per curarsi, anche in questo caso, quasi non traspaiono nel film, quasi come scelta di far emergere ancor di più le sue debolezze e i suoi tormenti. La sua musica, poi, è l’elemento centrale del film. Non a caso la regia è curata da Anton Corbijn, qui al suo primo lungometraggio, che proviene dai video musicali (“Atmosphere” dei Joy Division, “Heart-shaped Box” dei Nirvana e “Straight to You” di Nick Cave and Bad Seeds, sono solo alcuni dei video che ha diretto), dal già citato sonoro (i brani sono realmente suonati e cantati dagli attori, escluse le sole “Love Will Tear us Apart” e “Atmosphere”, mentre sono presenti, nella colonna sonora, brani di The Killers, Bowie, Sex Pistols e New Order, spesso risalenti, quando possibile, all’epoca dei fatti), alla scelta del bianco e nero, fino alla lentezza della regia, non fa altro che amplificare il senso di cupezza del personaggio Ian Curtis.
Il regista sceglie di far passare l’ultima notte di Ian , ascoltando l’album The Idiot di Iggy Pop e soprattutto vedendo il film “La Ballata di Stroszek” di Hezog che ci sentiamo vivamente di consigliare. Control è quindi come un bel film, che sicuramente piace e piacerà ai fan dei Joy Division o degli ambienti musicali alternativi, ma sarà difficilmente apprezzato da chi certi ambienti non li conosce non li frequenta o non li ha mai frequentati.
Il film completo in lingua originale
Albedo 22/02/2014
Confesso che per me la serata inizia piena di malumori. Ed è noto ai più che di una fanciulla con le paturnie di sabato sera c’è da aver paura come di una mina inesplosa.
È la prima occasione che ho di ascoltarli dal vivo, questi Albedo. Singolare combinazione quella tra quattro milanesi ed una etichetta abruzzese. I ragazzi sono reduci da un live a Vasto. L’Abruzzo è diventato per loro una seconda casa grazie al terzo album, Lezioni di Anatomia, uscito per V4V Records. Sono ben assortiti, vanno dallo stesso parrucchiere. Un amico mi fa notare la spiccata somiglianza del batterista con Dave Grohl. È quantomeno un buon auspicio. Scoprirò più tardi da lui stesso che ogni volta in cui si suona prima o poi arriva qualcuno che gli fa questa osservazione. Qualche giorno dopo il live leggerò anche che gli Albedo sono coinvolti nel progetto When I Was an Alien, la compilation di cover dei Nirvana che uscirà il 5 aprile per Inconsapevole Records per il ventesimo anniversario della morte di Kurt Cobain. Insomma, non ci siamo inventati niente.
Da un po’ di anni a questa parte inizio a sentirmi troppo vecchia per fare un sacco di cose, ma mai per infilarmi in una scatola di decibel 2×2. Grazie al direttore artistico, Massimo Bonfigli, il Gala Caffè di Martinsicuro rappresenta un contesto atipico, in cui la programmazione, svincolata da agenzie di booking, è interessante e variegata.
Ok, mi fido.
Suoni fluidi e possenti. Primordiali, niente affatto articolati. Ciò nonostante i pezzi si susseguono con arrangiamenti sofisticati, e la voce riverberata di Raniero Federico Neri fonde il tutto rendendolo mai banale.
I brani di Lezioni di Anatomia – concept album fatto di metafore del corpo umano, si potrebbe definirlo un viaggio interiore in ogni accezione del termine – si alternano a quelli dei due precedenti album. Li distinguo nettamente, con quelle melodie nervose. Quest’ultimo album risulta invece un lavoro più intimista, ma senza perdere di spessore. Il songwriting è tagliente e curato, incollato ad atmosfere Post Rock di vocazione anni 90.
La decisione di rendere disponibile in free download tutti i loro dischi la dice lunga sull’approccio degli Albedo al mondo della musica. E a vederli mi sembra che questi ragazzi siano qui semplicemente perché a suonare insieme si divertono proprio un sacco, e che venga loro spontaneo quanto lo sia il calcetto del martedì per altri appartenenti al genere maschile.
Dammi qualcosa che possa nutrirmi davvero, ascolto in “Stomaco”. La stessa sorpresa che si prova quando l’oroscopo ci azzecca e la stessa ingenua sensazione che stiano parlando proprio con me. Che poi è quella che ci fa affezionare ad un pezzo. E mettici pure che io stasera ho le paturnie.
“L’Amore è un Livido” parla di esercizi di stile per sembrare migliori. Vengo da una settimana piena di cose del genere. Dios mio, allora esistono ancora uomini in grado di capirmi. L’ascolto è ormai in discesa. Mi perdo in ogni parola e poi mi godo le morbide code strumentali.
Se per tutta la durata del live non mi sono sembrati affatto Indie (nell’accezione modaiola del termine) loro mi confermano il ripudio per la categoria chiudendo con “La musica è una merda”, che fa parte del periodo incazzato. E invece guardo voi poveri scemi deficienti, v’improvvisate gay, intellettuali irriverenti, mettete i dischi a palla nei club post londinesi, lasciatemelo dire che non lo sapete fare. Ne rido di cuore. Sindrome pre-mestruale definitivamente archiviata.
In tutto ciò, giuro che l’intensità degli Albedo on stage l’avrei percepita anche in condizioni umorali regolari. Non si sfugge dal cantautorato efficace, quello che ti parla all’orecchio delle complesse sfumature dei rapporti interpersonali, ma anche del quotidiano rendendolo poesia. Abbinato ad una ricchezza di suono, chitarre ed elettronica che si incastrano in dettagli e sfumature, diventa un episodio decisamente da tenere d’occhio.
E poi c’è poco da obiettare contro il lato emozionale di un live show. Se passi la settimana successiva con la discografia in loop vuol dire che i ragazzi hanno fatto il loro sporco lavoro.
The Box – The Box
I The Box, in un solo anno di vita registrano il loro primo omonimo disco, un disco fresco nelle intenzioni ma dal sound forzatamente old school riadattato ai giorni nostri. Per loro stessa ammissione sono forti le influenze di mostri sacri come Alice in Chains, Nirvana e Foo Fighters, il Grunge classicone per intendersi meglio e questo sicuramente risulta positivo per la riuscita tecnica del disco. Le sonorità ultra consumate di questo genere non stravolgono più di tanto le intenzioni pacate di un ascoltatore medio. L’impatto è violento perché a ogni modo i pezzi sono tirati tantissimo. Non si muore certamente di noia durante l’ascolto di The Box. Non si muore di noia neanche durante la visione del film di Richard Kelly da cui penso la band si sia ispirata. Almeno credo perché reperire notizie sul gruppo non è roba facile se non fosse per un profilo facebook da cui riesco a capire qualcosa. Ma tanto a noi interessa la musica, le informazioni non sono (per forza) necessarie. “Silence” apre il supporto in maniera proponibile, con le chitarre spezzate alla Placebo e la voce che si spacca il culo per alzare forte il pezzo. Molto emozionale e teenager style il finale portato al galoppo dalle chitarre inesauribili. Prima parlavamo delle influenze dei Nirvana che tornano prepotenti e invadenti soprattutto in “Trains” (linee vocali) e “Hypno-Love” dove la mente consiglia subito la nirvaniana “Dumb”. Ma non parliamo di plagio, solamente di forti ricordi. Rock melodico in “Regaining Mood”, quasi un pezzo sdolcinato anni Novanta. L’effetto è comunque positivo; voglia di amare.
Il disco inizia a scaldarsi mantenendo sempre un atteggiamento Grunge, la batteria picchia forte accompagnata da un basso martellante in “Home”, le chitarre sterzano Stoner. Le decisioni dei The Box sono sempre più chiare, il loro inno di battaglia grida Grunge Forever! Ma assolutamente non si accettano sperimentazioni, tutto deve rimanere incontaminato e maledettamente demodè, vietato allargare gli orizzonti. Ascoltare “W-Hole-Rdl” per rendersi conto delle finalità artistiche della band. The Box trova una collocazione positiva nei miei ascolti ma tutto potrebbe finire improvvisamente, niente vuole ricordare questo disco, neanche una personalissima nota da parte della band. Come dire che The Box suona bene ma alla fine cosa ci rimane? Tutto sembra già stato proposto e riproposto fino allo svenimento, manca d’inventiva e sinceramente un esordio discografico dovrebbe avere ben altri scopi. Questo lavoro rimane ben suonato e confezionato ma lo stimolo decisivo viene a mancare proprio nel momento del bisogno. Un buon disco di Grunge classico e niente di più. Per stupire serve ben altro e credo in un prossimo riordino delle idee. Tutto sommato se non cercate niente di esclusivo questo disco potrebbe fare al caso vostro, bravi musicisti che al momento non vogliono osare. Kurt Cobain alive. E non è comunque poco.