Nirvana Tag Archive

Le Superclassifiche di Rockambula: Top Ten anni Ottanta

Written by Articoli

80

Esiste un decennio più controverso degli anni 80? Ed esiste un modo peggiore di iniziare un articolo che con due domande retoriche? Ovviamente (altrimenti non sarebbe una domanda retorica) la risposta è no in entrambi i casi.

Gli anni Ottanta per gli ultra trentenni come me sono gli anni più straordinari che ci siano, quelli vissuti nel pieno della fanciullezza ma che avremmo navigato magicamente anche nella decade seguente, per l’ovvio ritardo con il quale il nostro paese ne ripresentava le tendenze, anche cinematografiche e musicali. È stato per noi il decennio ammaliante che ci ha fatto diventare quello che siamo, straordinario e favoloso perché, pur se ben saldo nella memoria, ha un sapore di tempi antichi, passati, andati per sempre. Dieci anni in sospeso, ambigui che nella musica ma anche nel cinema, nella moda, nel costume, nella politica, in tutto insomma, hanno toccato gli estremi più lontani che si potessero immaginare.

Erano gli anni di “Video Killed the Radio Star” e quelli di “Luna”, di “Enola Gay” e di “Gioca Jouer”, di Falco e Miguel Bosè, di “Vamos a la Playa” e “Vacanze romane”, gli anni di Raf, di Madonna e i Duran Duran, di “Take on me” e Gianna Nannini, de “La Bamba” (la canzone), Nick Kamen e Jovanotti che faceva il verso ai rapper americani e poi Francesco Salvi con le sue canzoni ultratrash. Gli anni 80 sono stati per molti la decade trash per eccellenza e anche se tanta della sua spazzatura oggi è considerata oggetto di culto, fu anche un decennio colmo di musica eccezionale. La nostra classifica prova a darvene un esempio.

Al primo posto si piazza Bleach l’album che non solo ci consegnò una delle più grandi band e dei più amati, imitati e adorati cantanti di sempre, una leggenda vera ma pose anche le basi per una delle ultime rivoluzioni del Rock che esplose poi nei 90. Subito dietro i Sonic Youth, capaci di prendere l’eredità dei Velvet Underground e adattarla ai nuovi tempi (grazie anche all’esperienza con Glenn Branca e Rhys Chatam) e un’altra formazione clamorosa, The Smiths, tra le più rappresentative del suo tempo grazie anche a un frontman dal fascino indiscusso. Buon piazzamento per Curtis e il suo Closer, ponte metaforico tra due diverse epoche e ottima doppietta per gli eredi (in parte) Cure con Disintegration e Pornography. Sorprende la presenza di ben due dischi italiani i quali, se certamente non avranno avuto un ruolo primario nella storia della musica mondiale, per il nostro paese hanno suonato come uno stravolgimento incredibile della realtà. Due album profondamente diversi ma dalla potenza espressiva non dissimile, Affinità-divergenze fra il Compagno Togliatti e Noi del Conseguimento della Maggiore Età dei CCCP e Franco Battiato con La Voce del Padrone. Chiudono altre due sorprese, Tom Waits e i Dinosaur Jr mentre restano purtroppo fuori dalla top ten a malincuore e per pochissime preferenze di differenza capolavori come Zen Arcade (Hüsker Dü), The Stone Roses, The Joshua Tree (U2), Thriller (Michael Jackson), i Duran Duran che disperdono i voti tra Rio e l’omonimo e tanti altri. Peccato anche per l’assenza di Pixies, Talking Heads e Metallica ma le classifiche sono sempre difficili.

Diteci voi, chi non doveva mancare? Chi non avremmo dovuto inserire? E vi piace il primo posto?

1. Nirvana – Bleach

2. Sonic Youth – Daydream Nation

3. The Smiths – The Queen Is Dead

4. The Cure – Disintegration

5. Joy Division – Closer

6. CCCP – Affinità-divergenze fra il Compagno Togliatti e Noi del Conseguimento della Maggiore Età

7. Franco Battiato – La Voce del Padrone

8. The Cure – Pornography

9. Dinosaur Jr – You’re Living All Over Me

10. Tom Waits – Rain Dogs

Read More

Hola La Poyana! – A Tiny Collection of Songs About Problems Relating to the Opposite Sex

Written by Recensioni

Raffaele Badas meglio noto come Hola La Poyana! torna dopo l’esordio di sole cinque tracce dello scorso anno che ottenne un buon successo di pubblico e di critica. Le note per la stampa indicano invece per questo disco: “Hola la Poyana è la ricerca dell’intensità attraverso pochi ed essenziali strumenti: chitarra, voce e stomp box, come nella tradizione Blues americana. Vibrazioni acustich epregne di metallico ardore”. Mai parole furono più giuste essendo noi di fronte a una sorta di one man band che non fa mai rimpiangere la quasi totale assenza di altri strumenti.

A parte l’accoppiata chitarra e voce, infatti, si possono sentire soltanto una cassa, delle piccole percussioni ed un violoncello. A volte un po’ Nick Drake, a volte un po’ Beck e talvolta persino un po’ sua maestà “slow hand” Eric Clapton, qui ci troviamo di fronte a un esempio netto di musica nuda e spoglia che sa sempre emozionare agendo in maniera un po’ timida ma convincente. Tra le influenze principali si trovano però anche tracce del blues di Skip James e di Mississippi Fred McDowell, delle ballate Country di Neil Young, del Folk strumentale di John Fahey e persino alcune divagazioni più spiccatamente Indie Rock, il tutto accompagnato da testi in parte ironici e in parte malinconici.

Musica genuina e spontanea quindi che viene dal cuore, come lo era il Grunge degli Alice in Chains (ma qui non troverete però nulla di loro), per questo lavoro registrato egregiamente da Piergiorgio Boi e prodotto in uno stile lo-fi ma molto gradevole da Simone Sedda. Di grande impatto anche la capacità vocale di mr. Badas, impeccabile nella sua pronuncia inglese tanto da sembrare un ibrido fra un Dave Grohl (Nirvana, Foo Fighters) e un Bon Iver. Da pochi giorni è partito il tour dell’artista che lo porterà in giro per tutta la penisola italiana per tre mesi. Se dovesse passare dalle vostre parti occhio quindi a non lasciarvelo sfuggire! Vi potreste pentire della vostra eventuale assenza!

Read More

Mr Boonekamp – Turn Off Fake Reality

Written by Recensioni

Il Veneto è da sempre una regione incubatrice per band emergenti e non, che abbracciano i suoni del Grunge e del Punk. Oggi è la volta dei Mr Boonekamp, quartetto di giovanotti veneziani che dopo alcune vicissitudini, periodi bui e cambio di formazione, si presentano, orami già da qualche mese, con un secondo album dal titolo Turn Off Fake Reality. Scorrendo velocemente tra le dieci tracce si percepisce subito una forte influenza proveniente della cultura cinematografica horror degli anni 80, tanto che molti dei personaggi descritti potrebbero benissimo essere grotteschi protagonisti di qualche serie splatter un po’ datata, scampati a qualche epidemia apocalittica “Splatters”, in preda a manie da stalker “Jeremy The Stalker”o rincorsi da mostri plasticosi “Tremors”.

Musicalmente il background dei veneziani è,anche in questo caso,marcatamente old school, con un sound figlio legittimo delle sonorità Grunge dei Nirvana e dei Soudgarden, a tratti però decisamente più violento e rumoroso. L’energià e l’impatto rappresentano i cardini del gruppo  e pervadono tutti i brani, non c’è spazio per sentimentalismi e fughe romantiche per campi bagnati dalla rugiada, tutto è duro, incazzato, sballato quanto basta. Non mancano poi pezzi  come “Problem” e “A Culple of Bitches” definibili come ibridi Rock, che fanno dell’accelerazione e della velocità del Punk il loro fulcro. Vocalmente sono nuovamente i Nirvana icreditori assoluti del gruppo, e Francesco,voce e chitarra, si avvicina molto col suo cantato a quella pasta vocale un po’malata e ubriaca che cotraddistingueva  Kobain. Turn Off Fake Reality è a conti fatti un disco che pesca dal passato, in quel  calderone dell’underground sudicio e sporco degli anni 80,  adatto ai maleodoranti locali, spesso malfrequentati di una periferia metropolitana.  A tratti ironico e grottesco e a tratti eccessivamente autoreferenziale “Boonekamp World”, sulla carta ha molti numeri, ma in fondo non colpisce e spicca per grandi novità. Decisamente adatto a chi sulla propria cartà d’identità, alla voce occupazione, preferirebbe mettere pogatore selvaggio e molesto ad attento e sodfisticato ascoltatore musicale.

Read More

Rivoluzioni musicali in mostra alle OGR di Torino

Written by Articoli

Quando si parla di musica, ognuno ha senza dubbio i propri riferimenti, i propri miti, le stelle polari che lo guideranno lungo il corso della propria esistenza ,in lungo e in largo, a destra e manca, forever and ever, “finché morte non vi separi”. Alcuni di questi miti, però, non fanno solo parte del nostro universo musicale, ma sono delle vere e proprie pietre miliari della storia della musica, simbolo di un’ epoca, esempio per le generazioni future ed esponenti di rivoluzioni che hanno deviato il corso della storia stesso.  Ed è proprio a questi Dei dell’Olimpo musicale che fa riferimento Alberto Campo, curatore della mostra fotografica Transformers – Ritratti di Musicisti Rivoluzionari, allestita presso i Cantieri OGR di Torino e visitabile dal 28 settembre al 3 novembre 2013. Il filo conduttore che la caratterizza è quello della “Trasformazione”, tema tanto caro alle ex Officine Grandi Riparazioni Ferroviarie (una delle ultime testimonianze della storia industriale della città), oggetto di un recente restauro che le ha restituite alla popolazione torinese sottoforma di “Cantieri Culturali”, sede di eventi musicali, teatrali, mostre, fiere ecc.

Ed eccoli allora sfilare uno per uno i Grandi della musica, in una serie di scatti che li ritrae durante la loro vita di artisti (con una predilezione per quelli realizzati durante gli eventi live) e di comuni mortali; un richiamo all’idea della “Trasformazione” come trapasso dalla dimensione pubblica a quella privata. Le fotografie sono attinte dal vasto bacino messo a disposizione da Getty Images, ed abbracciano sessant’anni di musica (dall’avvento del Pop negli anni ’50 all’era del web e delle tecnologie digitali odierne); il sottofondo musicale è una lunga colonna sonora composta da canzoni-simbolo degli artisti considerati. Campo fa cominciare tutto con Elvis (e come dargli torto!), opportunamente inserito nella sezione “Origini della Specie” e fotografato durante una delle sue celebri mosse di bacino. La seconda tappa porta il titolo de “l’Invasione Britannica” ed i protagonisti non potevano che essere Beatles e Rolling Stones, considerati perennemente in antitesi. Gli anni ‘60 si tingono anche di Folk e dei ritratti di un giovanissimo Bob Dylan, che con la sua “Blowin’ in the Wind”, cantata come inno di chiusura dei comizi di Martin Luther King, diviene il rappresentante della “Canzoni di protesta”, mentre Miles Davis e James Brown lo sono del Jazz e del Soul-Funky nella sezione “Black Power”. Si conclude un decennio e ne comincia uno nuovo, segnato dall’ “Utopia Hippie” che vede i suoi massimi esponenti nei Doors e in Jimi Hendrix (immortalato mentre dà fuoco alla chitarra elettrica durante il festival di Monterey), mentre il Transformer per eccellenza, David Bowie (nelle vesti di Ziggy Stardust) trova posto nella sezione “Rock a Teatro” insieme alla primissima formazione dei  Velvet Underground (fotografati con l’immancabile Andy Warhol ), quella di cui faceva parte anche la splendida Femme Fatale Nico, immortalata in un primo piano stupendo, mentre indossa una maglietta riportante la scritta Fragile. Nella sezione “gli Outsider” si piazzano Tom Waits e Frank Zappa, mentre l’unico artista italiano preso in considerazione, Ennio Morricone, non poteva che collocarsi nella sezione “la Musica Come in un Film”. Passano gli anni, cambia il modo di far musica, che diventa “definitivamente prodotto dal vivo su larga scala”: Led Zeppelin e Pink Floyd sono esempio dell’ avvento dei grandi concerti che riempiono gli stadi. Dall’altro capo del mondo, sempre in quegli anni, “One Love”, Bob Marley si faceva portavoce di un nuovo genere musicale: il  Reggae. Altra rivoluzione musicale degna di nota in quegli anni è il Punk, rappresentato nella sua forma più grezza dai Sex Pistols (lo scatto che ritrae Johnny Rotten nel tentativo di armeggiare un paio di forbici enorme parla da sé) e nella sua forma più colta da Patti Smith, la sacerdotessa del Rock che sembra non aver alterato con gli anni l’espressione che ha in volto mentre canta. Gli anni ‘80 sono quelli dell’ Hip Hop dei Beastie Boys, del re e della regina del Pop: Michael Jackson e Madonna. Gli anni ’90 segnano una frattura col decennio precedente grazie all’avvento del Grunge e dei Nirvana: il primo piano di Kurt Kobain troneggia in sala (forse è una delle immagini più belle della mostra), mentre ha in mano la chitarra che riporta la scritta “Vandalism: beautiful as a rock in a cop’s face”. La mostra arriva fino ai giorni nostri, e si conclude con l’ “Evoluzione della Rockstar” verso una musica sperimentale e ricercata, i cui esponenti sono rappresentati da Björk e Radiohead (riconoscere una foto scattata durante il loro ultimo tour del 2012 ti fa sentire fiero di esserci stato) per chiudersi definitivamente con l’avvento della musica elettronica dei Kraftwerk e dei Daft Punk nella sezione “Technologia”.

I grandi assenti? Tanti, ognuno sicuramente troverà qualche suo “mito” mancante all’appello. In ogni caso, non è un buon motivo per privarsi di questa mostra, che non è una semplice esposizione fotografica, ma un viaggio visivo e sonoro indietro nel tempo, verso tappe della storia e rivoluzioni musicali compiute dai musicisti che tanto amiamo. Allacciate le cinture, si parte.

Fonti: http://www.ogr-crt.it/events/transformers-ritratti-musicisti-rivoluzionari/

Read More

The Martha’s Vineyard Ferries – Mass Grave

Written by Recensioni

Grandi nomi si celano dietro quello un po’ strampalato (poi si spiegherà tutto) del progetto statunitense The Martha’s Vineyard Ferries, trio dalla potenza e dal sound unico. Ci sono la voce e la chitarra di Elisha Wiesner, già con Kahoots discreta e misconosciuta band Alt Rock del nuovo millennio. Poi c’è il basso di un certo Bob Weston. Proprio lui. Uno dei tre Shellac, tra le più grandi band Post Hardcore mai scese sul pianeta terra e la creatura più nota del genio di Steve Albini. Bob Weston, tecnico degli strumenti nel capolavoro dei Nirvana, In Utero e membro, oltre dei già citati, anche di Crush Senior, basso e tromba, Mission of Burma, tape manipulation e loops dal 2002 e Volcano Suns, basso dall’87 al 92. A chiudere il trio meraviglioso Chris Brokaw, batterista e membro di band come Come, Consonant, Dirtmusic, Empty House Cooperative, The New Year, Pullman, Snares & Kites e soprattutto Codeine, una delle più clamorose stupefazioni dello Slowcore.

La nascita della band è delle più banali che si possano trovare cercando nelle biografie dei loro colleghi. “Tutto iniziò come uno scherzo”. Sono parole che accompagnano un’infinità di progetti e anche in questo caso calzano a pennello. Tutto iniziò come uno scherzo e divenne una cosa seria quando, nel 2010, per la Sick Room Records, The Martha’s Vineyard Ferries tirò fuori il primo Ep, In The Pound. E la storia comincia. La cosa più ovvia che ci si possa aspettare, viste le premesse, è che la musica gettata in questa fossa comune sonica sia un avvicendarsi delle diverse esperienze antecedenti dei tre membri ed effettivamente sono svariati gli elementi che possiamo riscontrare nei brani che accomunano stilisticamente i The Martha’s Vineyard Ferries ora alla potenza grezza del Post Hardcore di Shellac (“Wrist Full Of Holes”), ora alle ossessioni ritmiche dello Slowcore dei Codeine (“One White Swan”). E lo stesso ragionamento è replicabile per ognuna delle formazioni tirate in ballo nell’introduzione alla recensione. Eppure il sound che disegnano i tre yankee finisce per somigliare a tutto senza sembrare nulla di preciso. In talune circostanze pare di assistere alla prigionia soffocante di uno spirito Punk Hardcore (“Parachute” e la fantastica “Blonde on Blood”, una cavalcata elettrica verso la morte) nelle gabbie liquide e mentali del Folk psichedelico (“Wrist Full Of Holes”, “One White Swan”) e del Pop (“She’s a Fucking Angel (From Fucking Heaven)”, “Look Up”). Ogni brano è essenziale, potente e semplice allo stesso tempo, con tanti riff assolutamente lineari e per nulla sperimentali, ritmiche al limite dell’ossessione ripetitiva e melodie vocali spesso azzeccatissime, tanto che non sfigurerebbero in brani più delicatamente democratici. Molto interessanti anche i passaggi più complessi (“Ramon And Sage”, “One White Swan”) nei quali la musica mostra una maggiore varietà e la voce scende in territori abissali e inquietanti, abbandonando le tonalità più alte che caratterizzano i pezzi di più facile ascolto e impatto sul pubblico più sobrio. Un disco straordinariamente robusto che ha il solo grande demerito di avere una durata eccessivamente ridotta (circa ventidue minuti), la quale finisce per mettere sotto i riflettori altre debolezze come la spaccatura netta tra le scelte mainstream di alcuni brani e gli interramenti nelle oscurità dell’Alt Rock più angosciante. Inoltre, è molto stimolante la scelta di dare una vena psichedelica alle chitarre (vedi opening track) ma la stessa non è quasi mai proposta con efficacia. Il sound, nella sua globalità, sembra avvolto in una nebbia, come se ci fosse una patina di note a oscurare l’udito; questo rende necessario diversi ripetuti ascolti affinché sparisca o meglio si trasformi in qualcosa di apprezzabile e non restare un chiaro difetto.

Un gran disco, un bel pugno a un certo modo di suonare oggi che però poteva essere una bomba, con un po’ di coraggio in più. Stavo dimenticando. The Martha’s Vineyard è semplicemente il nome dell’isola di Elisha, raggiungibile solo tramite traghetti (ferries). Come vi dicevo, anche in questo caso, basta aspettare per far sparire la nebbia che sia sonora, di comprensione o che quella fisica, fresca e bagnata che immagino possa levarsi al mattino sulle rive di un’isola del Massachusetts.

Read More

Gronge – Cremone Gigante Per Soli Adulti

Written by Recensioni

Doversi confrontare con il passato non è mai facile e se poi questo arriva dagli anni 90 ecco che la faccenda si complica. Gronge, questi sconosciuti ai molti che riemergono dagli anni del Grunge dei Nirvana e del lolita Pop della Britney con un album del 1992 mai edito, Cremone Gigante Per Soli Adulti. La faccenda, dicevamo, è complessa sotto molti punti di vista. Gli anni passati, ben ventiquattro, che rendono questo lavoro quasi un reperto di archeologia musicale riportato alla luce non si sa per quale motivo. Il genere, Gronge non è una persona, una band, un mondo ma un concetto di musica sperimentale e provocatoria. La musica, difficile da passare sotto una lente analitica perchè contaminata fino al midollo, sregolata, guidata da un approccio teatrale che raggiunge picchi grotteschi al limite, pure per il più ardito Pirandello. In tutto questo marasma l’unico punto saldo è la voce di Tiziana Lo Conte, che nonostante rimanga ingabbiata nelle logiche non logiche di Cremone e votata al rumore piuttosto che alla melodia, ci porta per mano con personalità per tutti i ventiquattro brani dell’album. Tiziana ha un timbro che si avvicina, per molti aspetti, a quello di Antonella Ruggiero ma che, nell’adattarsi alle turbolenze melodiche, viene usato in modo più moderno e schizzofrenico. Chiarite le premesse è facile capire che preferirei astenermi dal dare un giudizio su questo gruppo romano che fin dal 1989, anno di fondazione, ha percorso con tenacia la via dell’autoproduzione cercando di uscire da schemi e logiche preconfezionate.

Questi pionieri, forse, dadaisti visionari del loro tempo, ascoltati alcuni decenni dopo perdono l’aura trasgressiva e provocatoria e il loro Punk Noise misto a Pop denaturato con qualche pennellata New Wave non sconvolge il mio animo. Direte, sbagliato decontestualizzare, soprattutto per un disco che affonda la sua ragion d’essere nella critica feroce alla sua contemporaneità; dico sì con riserva in quanto Gronge nel momento in cui decide di editare il disco si mette alla mercè di noi ascoltatori, che abbiamo orecchie abituate ad altre sonorità e gusti definiti su altri modelli. Probabilmente se fosse uscito nell’anno di realizzazione sarebbe stato tutta un altra storia e avrebbe avuto un altro e alto valore culturale, pezzi come “Era Moderna”, “Ticket” e “Metropolis” e la stessa tracklist “Cremone Gigante Per Soli Adulti” avrebbero avuto un’impronta più decisiva sui ricordi delle generazioni future e sulla musica italiana in generale.

Le chitarre impazzite, il Punk e il sapore della patina vintage non sempre fanno “figo” e lasciano a chi resta un nostalgico dei tempi che furono e agli appassionati una raccolta postuma dall’allure del vorrei ma non posso.

Read More

Daushasha – Canzoni Dal Fosso

Written by Recensioni

Ascolto: durante la preparazione della cena di un lunedì. Località: il mio paese. Umore: da sereno a nostalgico poi tendente all’inquietudine violenta.

Complimenti ai Daushasha: complimenti perché mi hanno provocato un moto spontaneo di vergogna. Anch’io ascoltavo e andavo ai concerti dei Modena City Ramblers: avete presente quei tipi sotto il palco tutti scompigliati con i denti viola, vestiti come se si fossero tuffati nell’armadio al buio? Io ero così, come molti di voi che state leggendo, non lo negate; ero uno di quei ragazzi che stava più al centro sociale a dividere il pasto con i cani che a casa. Nel loro comunicato stampa dichiarano di rifarsi, tra gli altri,  a De Andrè: davvero? Non mi pare che Canzoni Dal Fosso sia un disco memorabile, anzi: melodie semplici al limite dell’infantilismo,  insistito e strumentale richiamo al vino e alle droghe leggere come se fossero i primi musicisti a sballarsi un po’, temi da sagra di paese senza però le meravigliose storie di poesia del paese. A parte il fatto di proporre uno stile che sembra uscito dal Cretaceo, a parte il fatto di rifare il verso ai Modena e agli Yo Yo Mundi, senza averne capacità di arrangiamento e intuizioni testuali. A parte la chitarra distorta come nemmeno in In Utero dei Nirvana. A parte tutto, non si può dire che ti ispiri a De Andrè e poi scrivere: “buona sera, voglio sbatterti ancora, birra chiara e gandja e poi tra le tue lenzuola” oppure il memorabile “e quando tra cinquantanni anni le rughe solcheranno il tuo viso, tu sarai proprio un gran cesso ma la campagna sarà bella lo stesso“. I pezzi migliori di questo disco sono quelli cantati in russo, solo perché non conosco il russo.

Dori Ghezzi, citali per diffamazione: non si può, ogni volta che chiunque voglia darsi un tono poetico, dire che ci si ispira  a De Andrè. Ci vuole la poesia, prima.

Read More

Insect Kin – The Faster, Louder, Loser EP (Canzoni Sull’Orlo di Una Crisi)

Written by Recensioni

Aprendosi con un’irresistibile sensazione di  voragine che si spalanca sotto i piedi con l’intento proprio di fagocitarti interamente nel suo stomaco sonico “Pretty Little Cuties”, “The Faster, Louder, Loser EP” (Canzoni Sull’Orlo di Una Crisi) –  il ritorno ematico dei milanesi Insect Kin – mette subito bianco su nero le sue intenzioni di non passare “inosservato”, un marcato contrasto che si mette a zeppa tra tantissime pubblicazioni vanesie e il tenore idiosincratico di suoni senza suono, sei tracce più una bonus track che giocano un ruolo elettrico che mette sull’attenti chiunque. Lapilli Grunge, saette Stoner e giugulari ingrossate come tubi di gomma, bypassano un effetto di lacerazione, ossessione e disagio come modalità di espressione, un disco che ti carica come pochi e come altrettanto pochi bastona il giusto.

Più che una crisi riversata su canzoni si potrebbe ridefinire una sete spasmodica di libertà elettrica, una iperveloce precisione maniacale a scansionare e costringere l’ascolto a fare i conti con i carichi e le nervature di un Rock ibrido, che non si assoggetta ai diktat fashion ma morde e sbava di suo, con la bellissima forza della schiettezza di un canzoniere issato su barricate di pedaliere e ampli infuocati e fumanti: watt e cuore dolorante, pogo e tremori a dispersione, rabbia e fretta di urlare al massimo del punteggio, una straordinaria pagina rock che gli Insect Kin griffano come una maledetta profezia col jack.

Nirvana, ombre desertiche, limature Verdeniche e sangue offuscato sono le singolarità della verve d’ascolto della formazione meneghina, una rigogliosa giungla di distorsori e poetica svenata che trova mentalmente una suo pathos elaborato, qui la leggerezza non si sa cosa sia effettivamente, tutto spacca e a volte placa come la tenerissima “Saint-Exupery”, il resto della miccia è innescato nella baldanzosità grunge della titletrack, nella stizzosità punkyes “Moondog Coronation Ball” o nelle ecchimosi bluastre che “(The dDscent)” ti lascia come un succhiotto dato da un’amante in sifilide acuta.

Gli Insect Kin sono tornati sulle scene per espandere il loro voluminoso essere, uno dei registrati più toccanti e belli che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi, specie quando transita sullo stereo la bellissima tracotanza di un brano che sembra l’anima indomita di un guerriero sulle rovine del mondo “#Revolutionoutofstok”.

Read More

Pig Tails – So What

Written by Recensioni

Due ragazzi di Mantova. Solo due. Niente basso, niente seconda chitarra. Un organico ridotto all’osso, col cantante che suona anche la chitarra e il batterista. Questi sono i Pig Tails, che hanno dato alla luce So What, il loro full lenght composto di dieci tracce, oscillanti tutte tra il Punk americano e il Grunge anni ’90. Energia da vendere, indubbiamente, come si intuisce già da “Spitfire”, brano modellato sulle sonorità Garage con chitarre anni ’70 e un retrogusto pop, un po’ alla White Stripes.

È con la title-track “So What”, però, che si delinea meglio lo stile del duo: un bel Punk’n’Roll graffiante, su cui si muove la linea vocale dalla timbrica chiara seppure urlata. Particolarmente interessante in questa traccia è la perizia strumentale: i due ragazzi sono davvero molto bravi anche nella ricerca timbrica. “Papercut” e “The Revolution” sono profondamente in debito con i primissimi album dei Green Day quelli delle distorsioni, dei pantaloni al ginocchio e delle scarpe da skater, non certo quella copia patinata di loro stessi che sono ora. Con l’intro di “I Promise”, invece si evidenzia un certo gusto per la dissonanza che ricorda le esperienze del Grunge dei Nirvana di Incesticide, con un cantato più trascinato che lanciato: la ballad finisce però presto per diventare un po’ noiosa e ripetitiva, meritandosi in poco tempo l’etichetta di pezzo meno riuscito del disco.

Per fortuna parte “Stonecutter II” con il suo bel riffone Seventies: il brano potrebbe non essere davvero nulla di speciale, ma gli effetti usati alla voce allontanano dall’Hard Rock tradizionale e lo stacco improvviso che muove verso il Grind rendono la canzone ulteriormente originale. Lo stesso si può dire della successiva “We Can’t Fall”, mentre con “Too Bad” si torna al classico Punk-Rock. La chitarra di “Reptiles” richiama di nuovo il Grunge, ma quello degli Alice in Chains questa volta, e il disco si chiude con un nuovo richiamo ai Green Day, con la tripartita “I’ll Be Here”.

I Pig-Tails giocano con la forma canzone, scombinando le canoniche relazioni e apparizioni delle strutture strofiche e dei ritornelli, mescolando i generi, allargando le maglie di compenetrazione degli stili. Solo sono due e sembrano tanti e hanno i numeri per poter dire qualcosa. L’impressione è che, al momento, stiano esplorando un terreno in cui già molto è stato detto così tutto suona già sentito, ma l’augurio è quello di individuare un taglio più personale, che, supportato dall’indubbia capacità tecnica, non potrà far altro che portare un po’ di fortuna.

Read More

Il video della settimana: Mad Chickens – Gun in my Head

Written by Senza categoria

Chi sono le fantomatiche MAD CHICKENS?

Questa settimana potrete gustare sulla nostra home il loro video del brano “Gun in my Head” ma per chi volesse saperne di più ecco la loro Biografia.

Bella domanda, ce la siamo posta anche noi ma con scarsi risultati. Scherzi da nerd a parte, le Mad Chickens nascono nel 2004, con tanta voglia di suonare Punk, Noise e Grunge. I loro mentori sono gruppi che hanno tracciato le linee essenziali della storia del genere: Nirvana, Sonic Youth, Melvins, Marlene Kuntz e anche Verdena. Iniziano come cover band, ma ben presto si rendono conto che è ora di cacciare del proprio. Tocco femminile e voglia di misurarsi con le proprie capacità sono le parole chiave. I cambiamenti di line up sconvolgono il gruppo fra il 2005 e il 2006 (Noemi, sempre con noi, comunque) ma alla fine sembra esserci un momento di tregua e Leandro Partenza sembra gradire la loro follia e i pezzi che tirano fuori; dunque prende sotto contratto, nella sua Label Lady Music Records, le quattro ragazzacce. Nell’agosto 2007 presso l’Animal House Studio di Ferrara nasce il loro primo EP (masterizzato ad Aprile 2008 nella Red House Recordings di Ancona) di sei tracce, in memoria della bassista scomparsa, dal titolo Goodbye Butterfly. Viene distribuito dalla Jestrai Records e promosso da Lady Music Records. L’EP ha sonorità graffianti e arrabbiate, isteriche e rudi. L’estate del 2007 è però molto calda e non si ferma alla sola registrazione: partecipano infatti al MUSIC VILLAGE, l’evento che coinvolge ogni anno circa 500 musicisti emergenti. Le Mad non hanno vita facile e non amano annoiarsi. Ancora cambi di line up sconquassano gli equilibri della band: dopo varie peripezie arriva Nicola Santucci alla batteria. Si chiudono in sala prove per dar vita a Kill, Hermit!  Questa volta si tratta di un album di 12 tracce, caratterizzato da cura e passione. I pezzi variegati e di istinto sperimentale vengono registrati e missati da settembre 2011 presso lo Studio Wax di Roma, grazie al sapiente aiuto di due grandi fonici: Alessio Pindinelli e Fabio Galeone, che, con la loro passione e professionalità, hanno saputo aiutare e supportare la band da ogni punto di vista. Kill, Hermit! è la sintesi di un percorso irto di difficoltà e di gioie, di crescita musicale e personale. Molto diverso dall’EP, vede l’entrata in scena anche di altri strumenti (tastiera, clarinetto…).
Kill, Hermit! esce ufficialmente nel giugno 2012.
Maria Teresa lascia il gruppo e le Mad decidono di rimanere in tre.

Ecco quindi la formazione attuale:

Valeria Guagnozzi: Voce&Chitarra
Laura De Benedictis: Chitarra&Tastiere&Cori
Nicola Santucci: Batteria

Essere polli può sembrare da stupidi, ma è essere folli che fa la differenza.

 Nota: L’album è stato registrato e mixato in analogico presso lo studio Wax di Roma, e masterizzato in analogico presso l’Alphadept di Bologna da Andrea Suriani.

 

 

Read More

Kash – Full Of

Written by Recensioni

Anche se in ritardo ho scoperto i Kash, gruppo nato nel lontano 1997 e formato dal cantante Stefano Abbà, dal chitarrista Paride Lanciani e dal bassista Luigi Racca, che nel 2012 esce con un nuovo lavoro Full Of, registrato agli Oxygen Studios sotto la regia attenta di Steve Albini (Scott Weiland, Iggy & The Stooges) . Il 2012 è un anno particolarmente fortunato per il gruppo che intraprende un tour promozionale negli USA e in Inghilterra, suonando al BBQ Festival e ATP Festival e in generale con artisti importanti quali: Il Teatro degli Orrori, Marlene Kuntz, A Toys Orchestra, Love in Elevator, Dandy Wharrol e molti altri.
L’album Full Of si presenta sotto la forma di otto brani che genericamente potremmo racchiudere nello scaffale dell’Indie ma che in particolare mi ha fatto pensare a quel Grunge graffiato e malinconico che riconduce ai Nirvana. Al primo ascolto non si capisce bene il significato di questa musica, ma mentre ci si addentra in questo corridoio sonoro si percepisce la necessità di sgombrare la mente e di farci entrare brani come “Monster of Fire”, “Eagle”, “Hero of Lovers” e “Private War”, i cui significati non colpiscono subito la parte razionale della testa ma che alla fine figurano e raccontano quegli elementi reali dell’esistenza di ognuno di noi e cioè l’amore, la paura, i demoni interni, le battaglie del mondo, i colori della mente e gli angeli che ci proteggono.

La registrazione dell’album, inutile dirlo, è uno degli elementi più belli, perché nella sua apparente semplicità si scorge quell’incastonatura sempre molto precisa della batteria con la chitarra, della voce con il basso e della musica con l’anima. Tutti elementi nascosti magari sotto la vocalità sospirata, che comunque sottolinea in maniera evidente la cifra stilistica e l’intenzione musicale che si vuole imprimere nel disco, che diventa Rock sofferto soprattutto nell’ultimo brano “Blood of” come a voler salutare chi sta ascoltando riempiendolo di un qualcosa di etereo e di impossibile da catturare. Che questa sensazione sia musica? Nessuno può dirlo prima di aver ascoltato in silenzio.

 

Read More

Ventura – Ultima Necat

Written by Recensioni

Vengono da Losanna, Svizzera, questi tre reduci degli anni novanta nati nel 2003, che sembrano aver triturato e centrifugato una decade di Superchunk e Grunge, di Failure e Alt Rock, di Shellac e Nirvana prima di aver iniziato a vomitare la loro arte sulle nostre orecchie. Dopo diversi split pubblicano il loro primo album Pa Capona nel 2006 e il secondo (finalmente per l’Africantape) We Recruit nel 2010, anno in cui collaborano anche a un singolo per la stessa etichetta con David Yow (Jesus Lizard).

Nonostante la matrice Alternative Rock sia forte, evidente e sia un chiaro punto di forza dell’album, non mancano passaggi che sembrano invece richiamare addirittura al Black Metal. Già l’introduzione di “About to Dispair” sembra presagire paesaggi più variegati rispetto a un semplice revival di fine millennio. Le note gravi e poderose e le pause di quei secondi iniziali sembrano estrapolati da un’inesistente opera Atmospheric Black Metal degli Ulver più che dal terzo disco di una band svizzera che suona nel 2013 col mito di Cobain e soci nella testa. Black Metal che ritroveremo, in sfumature non facili da cogliere, anche in diversi passaggi successivi (“Intruder”, “Very Elephant Man”.)
Ovviamente non si pensi a un disco pieno delle più disparate e inaspettate influenze. O meglio, pieno delle più disparate e inaspettate sonorità. Cosi come nei lavori precedenti anche qui gli anni delle camicie a quadrettoni sono la parte preminente, evidenziata in quasi tutti i brani, sia più lenti, meditativi ed eterei  (“Little Wolf”, “Amputee”, “Exquisite & Subtle”) sia più veloci, carichi e pieni di vita (“Nothing Else Mattered”, “Corinne”).

Assolutamente eccelsa la potenza Post Hardcore e la vocalità Art Rock quando espresse in tutta la loro completezza (“Body Language”, “Amputee”).
Nonostante la ricchezza di spigolature, le chitarre distorte e taglienti , il sound dei Ventura, anche grazie alla voce pulita di Philippe Henchoz e alle ritmiche puntuali e mai ridondanti di Michael Bedelek (batteria) e Diego Gohring (basso) fa  della melodia un altro elemento che contraddistingue Ultima Necat. Basti pensare a un pezzo come “Very Elephant Man” che nella prima parte sembra un tripudio di esasperazioni soniche, con ritmiche sfalsate, voce quasi sovrastata dagli eccessi noise delle chitarre. Basta ascoltare come quello stesso pezzo riesce a trasformarsi nella seconda sezione diventando una goduria per le orecchie, sciogliendosi in una musicalità vellutata dettata sia dal ripetersi delle parole sia dalla semplicità delle sei corde che esplodono come in uno Shoegaze di stampo Alcest, una delle formazioni che più si avvicina ai Ventura. Stessa soavità leggiadra, stesse chitarre taglienti, stessa vicinanza con il Black Metal soprattutto nelle sue varianti Ambient e Shoegaze. L’unica differenza è che, se nei francesi questi fattori sono messi in bella mostra, i Ventura sembrano invece celare il tutto dietro quella nuvola anni novanta cui più volte ho fatto riferimento.

Già con l’opera prima degli Alcest, Souvenirs d’un Autre Monde c’erano state diverse controversie riguardo alla vicinanza della loro musica con il Black Metal; probabilmente allo stesso modo qualcuno potrebbe trovare azzardate le mie parole. Eppure ascoltate con attenzione queste nove tracce di Ultima Necat e forse vi convincerete di quello che dico.
Intanto l’ultima canzone è finita, ancora una volta. Omnes feriunt, ultima necat. L’ultima uccide, diceva Seneca (forse lui?!). Di certo non parlava di musica ma per non sbagliare faccio ripartire il disco e metto repeat, non voglio ascoltare ultimi brani oggi, meglio addormentarsi con la musica in testa.

Read More