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What’s up on Bandcamp? || marzo 2018
I consigli di Rockambula dalla piattaforma più amata dall’indie.
Lydia Lunch & Philippe Petit – Taste Our Voodoo
Taste Our Voodoo: dopo Twist of Fate (2010) ed In Comfort (2011), terza testimonianza tangibile del proficuo e duraturo sodalizio artistico tra la statunitense Lydia Lunch (al secolo Lydia Anne Koch, musicista No Wave, attrice, poetessa ed interprete dal curriculum pressoché sterminato), ed il poliedrico dj e sound artist d’oltralpe Philippe Petit. Il doppio LP, registrato dal vivo (Marsiglia e Berlino) nell’arco temporale di oltre due anni e mezzo, annovera al suo interno quattro suite dal sapore post-apocalittico (due per disco: “Voodoo I”, “Voodoo II”, “Voodoo III”, “Voodoo IV”), la cui durata oltrepassa prepotentemente il limite estremo dei venti minuti. Scelta in un certo senso obbligata, considerando che una segmentazione temporale “canonica” soffocherebbe inevitabilmente l’intero concept dell’album, privandolo della sua naturale impostazione progressiva e quindi della linfa vitale che lo alimenta da vicino.
Ma veniamo al dunque. Taste Our Voodoo (limitato a sole 299 copie), rappresenta quanto di più distante dall’accezione capitalistica del termine “industria” (secondo i rigidissimi dettami del manifesto No Wave, movimento artistico newyorkese nato sul finire degli anni settanta in seno alla sottocultura Punk dell’epoca con l’intento di rigettare gli elementi più spregiudicatamente commerciali troppo spesso insiti nella coeva scena musicale New Wave). A tal proposito risulta particolarmente esplicativa ed illuminante la seguente citazione, estrapolata dal pensiero della stessa Lydia Lunch: “Voglio essere umiliata se qualcosa di quello che faccio dovesse diventare un successo commerciale”). Erudita manifestazione artistica costituita da disturbanti ed ossessive textures Electro Ambient (scevre dal benché minimo accenno di struttura organica/melodica) e maniacale recitazione di stampo puramente teatralistico, complesso ed incalzante viaggio emozionale dove le armonie dissonanti ed oniriche del talentuoso Petit (ottenute mediante il sapiente utilizzo di sintetizzatori ed impulsi elettronici, strumentazione acustica – come violini e fisarmoniche, ad esempio – effettistica al limite del più fosco esoterismo e campionamenti da vinile) si intersecano alla perfezione con l’atonalità e l’isteria del nichilismo vocale, come sempre irriverente (“dio è una bomba, dio è un proiettile!”), ideologicamente rivoluzionario (“la libertà è un’allucinazione”), languido, scurrile, sognante. Un progetto alquanto esigente, prolisso ed ambizioso, geometricamente imperfetto, senza dubbio alieno per i non avvezzi a soluzioni formali sperimentali ed avanguardistiche.
Miranda – Asylum: Brain Check After Dinner
Il trio fiorentino ritorna prepotente e lo fa a quattro anni di distanza dal precedente Growing Heads Above The Roof, con Asylum: Brain Check After Dinner, un concept album per folli, reclusi, e per tutti quelli che sentono il bisogno di trovare una via d’uscita non convenzionale alla monotonia della quotidianità.
Il disco si apre con Suicide Watch e Being Ed Bunker in cui il ritmo scandito dalla voce e dalla batteria sembrano ricordare marce e grida di rivolta, mentre contemporaneamente i suoni sintetizzati, ripetitivi e stridenti cerchino invece di avvertire l’ascoltatore che potrebbe impazzire.
Loop allarmanti, suoni glitch e caos organizzato prendono il sopravvento nel finale di Mohamed Bouazizi ed in Nothing Better Than a Morning Fuck dove pare trovarsi di fronte ad una catena di montaggio che improvvisamente va in tilt. Arabs On The Run Psycomelette si caratterizza per un inizio dolce come i campanelli che strimpellano ninna nanne per bambini, per poi svelare tutta la rabbia punk nel finale. Di cattive abitudini si parla invece in Bring Drug And Food ed in Holy Ravioli In A Drug Free Zone, quest’ultima caratterizzata da una voce hip-hop ed un contorno distorto e caotico. Un mix insolito e ben riuscito. Conclude il disco Tecnocratic Chinese Flue, più quieta rispetto alle altre tracce, ma comunque sia alienante.
Diciamo che il passato carcerario dei componenti in questi 11 brani si è fatto sentire, come anche la loro insanità mentale, in quanto dopo l’ascolto dell’intero album ci si chiede se durante le registrazioni non fossero stati in preda ad un delirio psicotico. I Miranda sono spregiudicati, sporchi ed irriverenti, pronti a regalare allucinazioni distorte ed emicrania patologiche a tutte le persone sane di mente.