Noise-Pop Tag Archive

Singapore Sling – The Tower of Foronicity

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Se al nome Singapore Sling la prima cosa che avete associato è l’omonimo cocktail a base di gin dal colore “frocissimo”, mi dispiace dirvelo ma avete un grosso problema che non vi aiuterà a immergervi e farvi seppellire vivi dal sound claustrofobico di questi cinque islandesi. All’attivo da inizio millennio e con cinque album alle spalle tra cui l’ultimo (Never Forever) datato 2011, la formazione capitanata da Henrik Baldvin Bjornsson torna a tuonare il proprio malessere esistenziale riuscendo a pareggiare, anzi superare, i livelli di Perversity, Desperation and Death e Must Be Destroyed. Meno legato all’Indie Rock degli esordi, pur mantenendo pura l’anima Neo Psych, The Tower of Foronicity gioca col Noise Pop e l’Alt Rock stile Pavement, gonfiandone la parte ritmica con le ossessioni Post Punk di Jesus and Mary Chain e le linee melodiche con shoegaziani echi di My Bloody Valentine.

A tutto questo, va ad aggiungersi una buona dose di folle spirito Psychobilly che riuscirà anche a richiamare lo spirito di un indimenticato Lux Interior (tranquilli, non è morto), nonché qualche venatura Folk/Country/Blues desertica e sabbiosa, ricolma di ritmiche e melodie mantriche che molti di voi avranno apprezzato nell’esordio capolavoro (Dead Magick) di un’altra band di Reykjavik, i Dead Skeletons. Il paragone non è per niente azzardato giacché proprio Henrik Baldvin Bjornsson è anche leader del suddetto progetto nel quale ha esasperato il lato lisergico e meditativo proprio dei Singapore Sling.

Dodici tracce surreali e cupe come un brutto sogno, in cui chitarre, tastiere, voce e sezione ritmica costruiscono un’oscura tela dalla quale vi sarà difficile tirarvi fuori e poi un sound inconfondibile, riverberato, effettato e lontano, proprio come quella parte della vostra anima dove risiedono gli incubi.

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Echo Bench – Echo Bench

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Siamo in Israele, crepuscolo della civiltà, terra sacra nota per aver dato vita alle religioni monoteiste più influenti del pianeta e ai conflitti più sanguinari della storia dell’umanità ma, di certo,non per aver contribuito in maniera interessante all’evoluzione della scena musicale. Però è proprio dal Vicino Oriente che arriva quest’album cazzuto, diretto, oscuro ma nello stesso tempo piacevolmente orecchiabile grazie a una line-up classica ed essenziale. Shahar Yahalom al basso, Alex Levy alla batteria, voce e chitarra Noga Shatz: loro sono le Echo Bench, tre ragazze che senza mezzi termini fondono abilmente Noise, Post-Punk e un tocco di Pop smaliziato costruendo un sound dall’atmosfera magnetica, a tratti rarefatta ed equilibrata. Suoni scarni, grezzi e lievemente offuscati s’intrecciano alla voce tanto infantile quanto pungente della Shatz che richiama l’enfasi teatrale e disperata di Siouxsie, l’isterismo un po’ addolcito di Lydia Lunch e la carica energica di Exene Cervenka; insomma, ciò che di meglio il gentil sesso abbia mai offerto alla musica Rock. Quest’album d’esordio si apre con l’ammaliante “The Same Mistake” brano dall’incedere quasi meccanico, una sonorità nostalgica e trasognata che stride con la traccia successiva, “Out of The Blue” (la mia preferita), dall’indole imprevedibile e discontinua che con la sua schizofrenia No-Wave ha suscitato in me più di un brivido. Singolare la track numero tre, “High Noon” riempita da un riff penetrante che richiama sensuali sonorità esotiche che con disinvoltura si mescolano ad un soft e personalissimo Psychobilly. L’album procede con coerente attitudine Garage-Noise (“After Party” e “High Roller”) e spirito da Riot Girl fino all’ultima funerea traccia “Flesh a Bone”, il cui basso alla Steve Severin orchestra un teatrino oscuro e ipnotico. Echo Bench è un album che, in fin dei conti, concede poco spazio alla novità, un esordio carico di riferimenti a un passato estremamente sfaccettato, dal retrogusto anni ottanta ma non per questo privo di qualità e intuizioni creative. Disco finemente retrò testimone di un talento destinato a imboccare, si spera, una strada del tutto personale.Non a caso ci ha creduto anche Colin Newman leader dei Wire, che, colpito dal loro stile, ha recentemente realizzato un remix di “French”, nona traccia dell’album.

Artefice di questa brillante scoperta è l’etichetta discografica italiana V4V che, con cinica ironia, amadefinirsi indipeRdente e vi da la possibilità di scaricare gratuitamente dal sito l’intero album di Echo Bench.

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My Bloody Valentine – M B V

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Il ritorno della band di Kevin Shields.
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She Said Destroy! – Conflicting Landscapes

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Batteria grezza, distorsioni a palla su strumenti e voci, filastrocche di Pop rumoroso e scarno fino alle ossa, con quella noia sporca che fa tanto riot grrl: il duo bolognese She Said Destroy! è perfetto per sfondare in quella scena Lo-Fi/Noise che vive di canzoni vuote ma rumorose, che si nutre più di attitudine che di “ciccia” musicale, di intenzione che di soluzioni nuove.

Un ep di quattro tracce (tra cui una cover di Gwen Stefani) che però suonano come un’unica, lunga traccia di 12 minuti e qualcosa. Le due She Said Destroy! sanno come si scrive e si suona il Noise facendolo sembrare Pop (o il contrario), e scommetto che sanno anche come gestire il palco, ma con questo Conflicting Landscapes non riescono a cambiarmi la giornata. E che cos’altro si chiede, ad un disco?

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