Tornano (finalmente!) i Marlene Kuntz con nuovo materiale inedito. Accantonata l’esperienza Pansonica e i conseguenti live, il gruppo piemontese ha dato alle stampe Lunga Attesa, titolo che esprime a pieno i sentimenti dei fan che aspettavano tale momento da mesi. Purtroppo proprio la lunga attesa ha tradito le speranze di molti. Probabilmente anche le mie, che seguo i Marlene da tempi di Catartica e che li avrò visti live almeno trenta volte spingendomi spesso anche in altre regioni della nostra penisola. L’impressione che si ha ascoltando il cd è quella di un lavoro che potrebbe funzionare molto meglio dal vivo, in quanto siamo di fronte a una produzione fin troppo “perfetta”. E allora direte: “perché ti lamenti?”. Semplicemente perché la cosa più bella dei Marlene Kuntz sono sempre state le chitarre un po’ sporche, forse grezze nelle sonorità ma che non avevano mai (finora) mancato di emozionare. Se Lunga Attesa fosse uscito dalla mente di un partecipante a un talent show probabilmente si sarebbe potuto gridare al miracolo ma citando il titolo di uno dei pezzi qui non c’è “niente di nuovo”. O per lo meno di inascoltato in precedenza. Manca forse l’ispirazione o la volontà di proseguire un discorso che è stato iniziato ormai più di vent’anni fa con il già citato “Catartica”. Un disco un po’ “aspro” nei contenuti, sebbene molto maturo dal punto di vista delle liriche sempre molto oniriche di Cristiano Godano che almeno da questo punto di vista ha dato il meglio di sé. Non manca qualche episodio felice anche sotto il profilo musicale (“Un Po’ di Requie” e “Fecondità” sono fra i migliori brani incisi finora dai Marlene) ma pur sempre troppo poco per uno che vede in Tesio & co. gli alfieri del Rock italiano, ormai povero nei contenuti e nella sostanza. Peccato perché con Nella Tua Luce avevano toccato il top del top della loro carriera. Probabilmente è anche questo uno dei problemi che ha contribuito a far di Lunga Attesa un disco che, almeno per quanto mi riguarda, è lontano anni luce dalla sufficienza, ma sono pronto a rinnovare la mia fiducia al gruppo piemontese acquistando per primo (quando uscirà) il prossimo lavoro. Intanto riprendo dall’archivio Il Vile, mi riascolto a massimo volume “Ape Regina” e “Retrattile”. Altri tempi (purtroppo!)…
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Savages – Adore Life
Le Savages sono una band londinese, benché la cantante Jehnny Beth, pseudonimo di Camille Berthomier, sia in realtà francese, attiva ormai dal 2011. Dopo aver ottenuto discreta attenzione e successo con l’esordio, Silence Yourself del 2013, tentano di fare il grande balzo in avanti con la loro seconda fatica, Adore Life. L’intento della band è quello di prendere il Noise Rock di inizio anni 90 ed il Post Punk anni 80, shakerarli, attualizzarli al 2016 ed elaborarli in forma personale; tant’è che all’ascolto, se volessimo fare dei paragoni, le somiglianze più evidenti sono quelle con i Sonic Youth e Siuxsie & the Banshees e proprio al cantato di Siouxsie Siux si ispira la Berthomier. Proprio in questo tentativo di attualizzazione risiedono sia i (molti) pregi che i difetti del disco e dell’intera band. Parliamoci francamente: i revival non mi piacciono e non mi sono mai piaciuti. Esiste una sottilissima linea che li separa dalla semplice ispirazione/ammirazione; se la si sorpassa, si rischia un vero e proprio disastro citazionistico che può piacere unicamente a qualche appassionato del genere e gettare un “buon” disco nel grande calderone del cult. Benché all’interno di Adore Life le Savages rasentino spesso questo rischio, riescono a non superare quella linea. Il loro secondo album è palesemente un buon disco, coinvolgente, energico e rivolto alla conquista di un pubblico il più ampio possibile. Ciò che c’è di più positivo è poi proprio da ricercarsi nei brani che più nettamente si liberano dallo stile retrò e riescono a suonare attuali; il primo caso è “Adore”, scelto come secondo singolo; pezzo nel quale la band decide di abbassare la velocità in favore della ricerca di un vero e proprio climax emotivo ascendente all’interno della canzone. Apprezzabile, da chi ha dimestichezza con la lingua d’Albione, anche la profondità del testo; nota di demerito invece per il video: sembra strano che per un pezzo di questo tipo non si sia riusciti a fare qualcosa di meglio. Non che sia brutto, per carità, ma sicuramente mi aspettavo di più, dato anche che non mi sembra che alla band manchino le risorse. La prestazione più riuscita è poi da ricercarsi nella traccia otto, misteriosamente non ancora scelta dalla band come singolo, “Surrender”, che più di ogni altro brano dell’album si conforma al significato della parola “canzone”. Divertente, dotata di tiro, coinvolgente ed ispirata. Tutto ciò che invece manca in “I Need Something New”, la traccia meno riuscita che rasenta il limite del fastidioso a causa della sua monotonia e ridondanza. Anche l’ultimo brano “Mechanics”, benché sia evidente che avrebbe dovuto mostrare un lato differente della band, non riesce ad emergere e, schiacciato forse anche da un minutaggio eccessivo, finisce ben presto nel dimenticatoio. Escludendo queste due note fuori registro, il disco è compattamente positivo, risulta divertente, ed ogni brano è evidentemente studiato con attenzione, in modo da risaltare la sua musicalità. Una produzione assolutamente all’altezza ed un suono impeccabile e scelto con cura fanno da contorno ad un album la cui valutazione non può che andare ampiamente sopra la sufficienza. Le Savages si apprestano ad affrontare un tour europeo di promozione dell’album che dovrebbe toccare l’Italia ad aprile. Per loro il 2016 dovrebbe essere l’anno della consacrazione.
Versailles – Vrslls
Non so se si possa definire realmente un incontro/scontro, come amano descriversi i Versailles nella loro biografia, quello fra Damiano Simoncini (Maria Antonietta, Young Wrists, Damien*) e Manu Magnini (Container 47, Key-Lectric, Scanners), perché il duo pare essere sempre in perfetta sintonia. Più veloci ed incazzati dei francesi Chevreuil e degli Stooges di Iggy Pop, in sole sette canzoni i Versailles riescono a condensare tutto il senso del Rock ‘n ‘Roll! Quando con solo voce, chitarra e batteria si riesce ad arrivare a questi livelli creativi si potrebbe persino gridare al miracolo, tant’è che basta sentire l’iniziale “Summer Pain” affinché il pogo possa iniziare (se messa in play in un qualsiasi Club Rock). “(T)rap to the E. Y. A. H.” è invece una preghiera onirica e visionaria in cui la chitarra sposa alla perfezione i ritmi della batteria ed i versi cantati/recitati ossessivi della voce. Di diversa impostazione sono invece “Honey, We’re Ready to Funck!” (in cui i due ragazzi sembrano aver studiato alla perfezione i dischi degli Mc5 e degli X) e “Everybodytalks For Free” che forse si ispira un po’ troppo alla mitica “I Wanna be Your Dog” degli Stooges, che sicuramente avrete avuto modo di ascoltare anche in film quali Trainspotting, Lock & Stock – Pazzi Scatenati, Transporter 3, Il Corvo 2 ed in tanti altri che ora non mi soggiungono. “Find the Enemy” sembra invece un potenziale brano dei Marlene Kuntz in salsa Punk (concedetemi questo ossimoro), mentre “BLahBlahBlah” riporta alla memoria i Dead Kennedys di Jello Biafra. Il duo pesarese ci dà dentro fino alla conclusione del “Vrslls Ep” che purtroppo arriva con “Bring the Noise” (che non c’entra nulla con l’omonimo brano dei Public Enemy) forse a volere dimostrare che il futuro della musica italiana può e deve guardare a quanto fatto anche quarant’anni fa in America. E non è detto che ad ispirarsi al passato o a gruppi come i Sonic Youth si perda sempre il confronto. Ascoltare per credere!
Swans – To Be Kind
Trent’anni e non sentirli. Incredibile ma vero: gli Swans si sono formati nel lontano 1983, quando, tra le vie newyorkesi, spopolava il movimento No Wave. In queste decadi i musicisti che hanno ruotato attorno al vero deus ex machina della band, Michael Gira, sono stati numerosissimi, tutti con uno stile proprio che andava ad aggiungere un qualcosa di personale alla musica del gruppo. Tra loro spicca sicuramente la fantomatica figura dell’ammaliante Jarboe, esile nell’aspetto eppure per nulla intimorita nel confrontarsi con i catacombali Neurosis, creando quel capolavoro che risponde al nome di Neurosis & Jarboe, nell’ottobre del 2003.
To Be Kind è, a dirla tutta, il terzo album della seconda vita discografica degli Swans, tornati nel 2010 con My Father Will Guide Me Up a Rope to The Sky, dopo ben 14 anni di assenza. Nonostante questo, il sound non ne ha minimamente risentito: anche quest’ultimo disco non si discosta dai predecessori e il crescendo claustrofobico di “Screen Shot” ce lo dimostra subito, nel suo incedere martellante. Ci trasmettono ansia, un’ansia che provoca dipendenza, che ci invoglia a tenere all’erta i nostri sensi, pronti all’impatto con gli oltre 12 minuti della successiva “Just A Little Boy (For Chester Burnett)”. La summa massima del disco è la mezz’ora abbondante di “Bring The Sun/Toussaint L’Ouverture”: armonie ipnotiche, litanie malate regolate ad arte come un mantra dal sapore di un rituale d’iniziazione. Forse sarà così, perché dopo “Some Things We Do” (sarebbe adattissima a fare da colonna sonora a un film horror), Gira e soci alzano il tiro, dividendo con un muro virtuale questa parte finale dell’album da quella appena passata. Le due canzoni portabandiera di questa nuova virata sono: “Kirsten Supine”, con l’incantevole voce di St. Vincent ad incastrarsi con quella del singer, proiettando dal nulla una spirale sonora indomabile, e “Oxygen”, i cui ritmi Math fanno da contraltare a uno Sludge Rock molto caro ai Melvins.
Ci hanno abituati bene i nostri amici Swans e con l’intensità di To Be Kind, continuano a camminare sulla retta via tracciata dal precedente The Seer. Tempo addietro Michael Gira affermava che: “I cigni sono maestosi, sono bellissime creature con un cattivo temperamento”. Da amante degli animali dico che il temperamento, buono o cattivo che sia, ci sta benissimo purché questi siano i risultati. Lunga vita ai cigni.
Aa. Vv. – Tutto da rifare. Un Omaggio ai Fluxus
“Quando non si può tornare indietro bisogna soltanto preoccuparsi del modo migliore per avanzare” scrive Coelho ne L’Alchimista. Quale modo migliore di avanzare, aggiungo io, se non riscoprendo una perla (per alcuni sconosciuta) del Rock alternativo italiano anni 90? Il passato va studiato, capito e molto spesso omaggiato, soprattutto in questo nostro e tanto amato mondo della musica. Con Tutto da rifare. Un Omaggio ai Fluxus la Mag Records in collaborazione con la V4V, produce un’opera decisamente interessante celebrando al meglio la storica band torinese. In attività dal 92 al 2001, il gruppo capitanato da Franz Gloria smuove le viscere dei giovani dell’epoca con quattro album in studio di assoluto valore, lavori che, senza dubbio, hanno lasciato un solco fondamentale all’interno della scena musicale alternativa nostrana ed un’eredità importante per le nuove generazioni.
I tanti applausi e l’ottimo riscontro critico non sono mai bastati ai Fluxus per ottenere un importante riconoscimento mediatico, sta di fatto che il talento non mancava (di certo non inferiori ai colleghi più fortunati e caparbi, per certi aspetti, dell’epoca) e che le loro sonorità Hardcore Punk, Noise hanno fatto storia nell’underground tricolore. Sono quattordici le tracce prese dai loro album (Vita in un Pacifico Nuovo Mondo del 1998, Non Esistere del 1996, Pura Lana Vergine del 1998 e Fluxus del 2002), interpretate da alcune delle migliori band del momento. Un lavoro di assoluta qualità grazie proprio ai gruppi che non si sono limitati a canticchiarne le canzoni, ma le hanno reinterpretate, arrangiate, modernizzate, rendendole proprie, senza intaccare il proprio stile e le proprie peculiarità, ma addirittura ostentandole.
Questo è certamente un pregio che rende onore e dà ancora più valore al tributo ai Fluxus, in fondo una cover ha senso se fatta musicalmente propria, solo così può assumere il significato preposto e presentarsi come una celebrazione, altrimenti nulla la renderebbe differente da una canzone cantata al Karaoke cercando di imitare Elvis. Band più o meno note, dunque, si alternano per più di un’ora di musica vera unendo il vecchio al nuovo con rispetto e originalità. Senza citare tutti gli artisti segnaliamo la bella apertura dei Majakovich con “Giro di Vite”, la bellissima interpretazione dei Marnero con “Nessuno si Accorge di Niente”, “Questa Specie” eseguita dal gruppo milanese Nient’Altro che Macerie e la intensa “Talidomide” interpretata da Gli Altri, che celebrano al meglio la musica, i testi e la carriera dei Fluxus.
Tanto bravi questi gruppi, insomma, da creare un legame come meglio non si poteva, tra avanguardisti di un tempo e i “ragazzacci” di oggi.
Deerhunter – Monomania
E’ uscito da pochi giorni il quinto album Monomania dei Deerhunter, band statunitense di Atlanta, formata dall’amato Bradford Cox, Moses Archuleta, Josh Fauver e Lockett Pundt. Il genere di questo lavoro è incasellato nel Noise Rock, ma più in generale possiamo inserirlo nella categoria Indie-Rock. La lunga attesa tra il precedente e l’attuale opera avevano fatto sperare in qualcosa di memorabile. Speranza presto sfumata per i fan.
Il titolo dell’abum Monomania ci introduce in un ascolto che a tratti diventa realmente ossessivo e maniacale con i suoni grezzi e distorti dal mood garage, mentre in altri momenti è in grado di cullarci in sound più rilassati. Le tracce di Monomania sono 12 e l’ascolto scorre fluido tra gli inizi noise/garage di “The Leather Jacket” e “Neon Junkyard”e i brani meno pesanti, più simili a ballad, come “The Missing” o “Nitebike” che intervallano l’album dandogli quella giusta alternanza di atmosfere che non annoiano l’ascoltatore.
Chiare le influenze, dichiarate anche dalla band, dei Ramones e degli Sonic Youth in primis, ma ad un ascolto più attento si scorgono anche piccole somiglianze con i R.E.M. e forse, a mio parere, anche lontanamente alle atmosfere degli Smashing Pumpkins. Un disco in cui si evince la decisione e l’immediatezza di suoni e testi, non ancora del tutto maturi e profondi, come invece ci si sarebbe attesi da una band di rilievo del settore come loro. I Deerhunter dicono bye bye alle sfumature psichedeliche che abbiamo trovato negli album precedenti e lasciano le canzoni ad uno stato grezzo e meno raffinato.
Un album tutto sommato interessante seppure sia purtroppo lontano dallo splendore e dai fasti di Halcion Dygest (2010) che probabilmente è quello che possiamo considerare il vero album icona dei Deerhunter, vista la grande trasversalità degli apprezzamenti ricevuti. Un disco, Monomania, che piacerà molto agli amanti del Noise e del Garage, ma non troverà troppi consensi in chi si aspetta il proseguo della storia del gruppo che si era così ben improntata nel 2010.
Starlugs – The Rite And The Technique
C’è un paese, una città meglio, visto che conta cinquantaquattromila novecento otto abitanti ed è capoluogo di provincia, che ha generato in me contemporanee scariche d’intenso odio e amore, nel corso dell’ormai decrepito 2012. Da abruzzese, che per tutti i dodici mesi ha fatto la spola tra Pescara e l’entroterra (molto “entro”) aquilano, Teramo è stata sofferenza e diletto, tormento e soddisfazione. Ho visto una moltitudine di band emergenti nascere sotto le pendici del Gran Sasso mentre io, a Pescara, continuavo a vagabondare per locali danzanti, metallari e Dj Rock (sì, esistono i Dj rock, che cazzo credete?) cercando un gruppo che non c’è, o forse c’è ma ai pescaresi non gliene frega un cazzo. Tante manifestazioni sonore si sono tenute nel teramano, come le esibizioni live di Calibro 35, Bugo, I Cani, gli Offlaga Disco Pax. Cosi, se da un lato vedere l’esplosione di band come gli String Theory (che ho inserito nella mia top three annuale) stava facendo crescere in me l’amore e l’interesse per un territorio fino a ora quasi sconosciuto, dall’altro, vedere la facilità con la quale la gente del posto riesce a ignorare il dilagante fenomeno (il tutto si può notare con la scarsa partecipazione del pubblico ai diversi eventi programmati nella zona) mi fa una rabbia bastarda.
La mia ultima scoperta si chiama Starslugs. Ho il loro disco autoprodotto tra le mani, The Rite And The Technique e guardandolo mi rendo conto che quest’ammasso circolare di policarbonato non mi regalerà certo le dolci note di un pop cantautorale rassicurante e delizioso. Sotto il nome della band sono scritte in inglese le parole “One Straight Line -Do It Yourself” (una sorta di mini manifesto generazionale di una certa cultura punk underground nata negli anni ottanta e che mirava innanzitutto al rifiuto della major per poi diventare un vero modo di vivere) e più in basso, al centro della copertina, mi sembra di vedere un nero che con un ghigno a metà tra dolore e gioia, è intento a trapanarsi le cervella. Ancora più giù, sotto l’indicazione del nome dell’album, un altro sottotitolo nella lingua della regina d’oltremanica recita “una breve storia d’impressioni rubate da un ambiente ostile”. Diciamo che sembrano esserci tutte le premesse per non sperare di rilassarsi tranquilli durante l’ascolto.
Nella parte di dentro del libretto, a rincarare la dose, troviamo di fianco alla tracklist, l’immagine di un fucile smontato, di quelle che si trovano nei libretti d’istruzione, con tutti i numeri sopra ogni pezzo e in basso, ancora una volta in inglese, l’invito a copiare e diffondere l’opera ma non a rubare le idee contenute all’interno. Finalmente mi sento pronto a schiacciare quel pulsante e trasformare la guerra fredda della mia attesa in una pioggia di bombe soniche.
Intanto che ascolto, vi racconto chi sono gli Starslugs. Nati poco più di cinque anni fa in Abruzzo, sono semplicemente un duo (che si definisce Punk-Noise) composto da Danilo “Felix” Di Feliciantonio e Pierluigi Cacciatore, ai quali si aggiunge un batterista che viene dal passato chiamato drum machine Roland TR707 (il suo nome preciso sarà strettamente legato alla musica, come poi vedremo). Scrivono i pezzi nella lingua di Poe e Bukowski e la cosa è un bene (anche se i puristi, fascisti, nazionalisti magari, non la penseranno cosi) perché è il modo migliore di applicare la voce a questo tipo di suono in frantumi. La voce è come la tecnica e la bravura applicate a un qualsiasi strumento. Un chitarrista nel suonare mette insieme le sue capacità con la chitarra che preferisce per il tipo di suono che emette. Cosi chi canta, mette insieme le sue doti con lo strumento, rappresentato nel qual caso, dalla lingua scelta. Ogni lingua come ogni chitarra può essere più o meno adatta a un certo tipo di musica.
Ho finito di ascoltare il disco e lo riascolto ancora e ancora. Nel brano iniziale “Body Hammer” entra subito in scena la Drum Machine e lo fa in un modo che adoro. Martellate ossessive, ripetitive, lineari, quasi marziali preparano l’ingresso alle chitarre che sferragliano come motoseghe impazzite e alla voce che, per quanto possa essere lontana dal concetto platonico di bello assoluto, è perfetta nel suo trascinarsi contorta nello stile del grande Steve Albini. Ci siamo, ecco svelato il trucco. La presenza non della drum machine ma proprio di quella drum machine era un indizio troppo grande. Sull’opera degli Starslugs si staglia imponente l’ombra dei Big Black, la creatura Noise Rock, Post-Hardcore nata negli anni ottanta proprio dalla mente genialmente contorta di Steve. La sua creatura che più ho amato e apprezzato nel corso della mia vita. Aspettate, però, a giungere a conclusione. Non pensate di essere di fronte a una band di “copioni” che volevano provare a fregare un pubblico magari ignorante in materia. La storia è un’altra.
Il secondo brano “Nuke”, il mio preferito, è uno di quei pezzi che ti mette voglia di ascoltarlo ogni fottuto giorno che avresti voglia di spaccare il culo al mondo; inizia con echi vocali di stile industriale e il solito ritmo tormentato, ma quando entrano in scena le corde, ti rendi conto che questi ragazzi hanno capito come pugnalare le orecchie in modo masochisticamente piacevole. Mentre la voce si limita a urlare lamentosa, chitarra e basso creano melodie strepitose che ti entrano nel cervello come un cancro.
Se “Sad Sundays “ accelera il ritmo mantenendo intatta la natura Post-Hardcore degli Starslugs, con le successive “Sense Of Tragic” e ancor più “Betamax” e “Justice”, un sospetto diventa certezza. Dentro il tormento delle ritmiche di questo The Rite And The Technique c’è un’altra band che probabilmente, rispetto ai Big Black, saremo in meno a conoscere. Le atmosfere tribali rievocate nel disco sono le stesse già raccontate dai Savage Republic, band Post-Punk californiana contemporanea dei Big Black, autrice di uno dei migliori lavori nel suo genere chiamato Tragic Figures (la formazione è ancora in attività e lo scorso anno ha prodotto Βαρβάκειος). La cosa che fa piacere è che, dopo aver ascoltato il disco e aver notato i chiari riferimenti ad Albini e i più nascosti alla band di Bruce Licher e Jackson Del Rey, sono andato a leggere la biografia della band teramana e questi due nomi sono gli unici inseriti nei loro riferimenti. Ciò significa due cose. Che, innanzitutto, gli Starslugs dimostrano una notevole onestà intellettuale citando in maniera schietta i loro riferimenti (calcolando che probabilmente il grande e ottuso pubblico non li avrebbe neanche riconosciuti, potevano fare i furbi e sottintendere i riferimenti). Infine, che, se volevano rifarsi a due grandi nomi del passato, l’hanno fatto in maniera egregia, riconoscibile. Il loro sound sembra la degna prosecuzione dell’operato dei due grandi gruppi degli anni ottanta e non una loro pessima copia e tutto questo è dovuto non solo alla loro bravura puramente tecnica e compositiva ma anche a tutto il lavoro di ricerca della strumentazione vintage fatta dai due. Il risultato è perfetto.
In “Uranus” sembrano riaffacciarsi (vedi “Nuke”) delle reminiscenze industriali, dark ambient proprie del movimento nato dalla mente di Genesis P-Orridge e i suoi Throbbing Gristle. Circa cinque minuti di note lente e ripetitive, quasi come una messa funebre in una chiesa sconsacrata. Non c’è nessuna parola ad accompagnare la voce. Solo corde acide e stridenti che pesano come il peccato originale nel cuore del nostro spirito.
Una voce meccanicamente in loop apre “Willie”, altro brano in classico stile Big Black che presenta una melodia nascosta tra il rumore, di quelle che non si scordano facilmente, mentre chiude l’album “Mishima”, l’ultima esplosione atomica, l’ultimo tassello della mia guerra fredda interiore, la bomba H che ha distrutto l’umanità nella mia anima.
Gli Starslugs non hanno sono preso Big Black e Savage Republic per rielaborarli e proporli con fredda imitazione. Hanno invece continuato un percorso tribale e rumoristico iniziato con Atomizer e che non poteva evidentemente concludersi nel 1992. Hanno ripreso la strada di un sound cosi semplicemente straordinario da essere fuori dal tempo, da essere talmente immediato e identificabile anche nel suo essere elementare. Sono stati capaci di creare melodie da materia tagliente e sanguinante come il Noise-Rock. È per questo che gli Starslugs mi sono piaciuti cosi tanto pur essendo probabilmente la band meno originale ascoltata negli ultimi dodici mesi. Perché la loro è una sorta di opera di recupero di sonorità che altrimenti sarebbero andate perdute nell’oblio dell’ignoranza.
Gli Starslugs hanno deciso di continuare la strada ideale di chi al mondo ha risposto con un beato vaffanculo.
Jerrinez – Io Sono Stato
Rimanere alternativi per forza, per stile di vita. Anche quando tutto intorno ti si uniforma, l’universo che ti avvolge cerca di modellarti, ma tu mostri a lui solo il tuo scudo di ferro battuto. Ormai lo scudo è tutto ammaccato, ma questo ti rende ancora più forte e più grato.
E così dopo più di 10 anni di palchi e sudore, ti presenti ancora con quel suono che sa di marcio e quella voce che grida di indifferenza e di degrado, pronta a sputare nel prossimo umido microfono del centro sociale di periferia. Così fanno ancora i Jerrinez, da Milano.
Il loro ultimo album “Io sono stato” riflette una sbiadita ombra di CCCP e (se vogliamo essere più cool) di Teatro degli Orrori con quel pizzico di noise-by-USA che tanto andava di moda ben più di 10 anni fa (forse gli anni sono anche più di 20 se vi dico Sonic Youth). Ma qui ora tutto è fermo, intrappolato in quei ritmi pseudo hardcore, in feedback ossessivi e nella definitiva distruzione della melodia. E la band rimane intrappolata in una registrazione che sembra appositamente marcia, poco incisiva, fuori dal contesto e stridula.
L’uso della parola salva parzialmente la situazione, la storia che non ci insenga rimane in primo piano nella bocca isterica di Bobo Boniardi, che sputa frenetiche sentenze senza troppi peli sulla lingua: “cambiano le stanze, le vittime e i carnefici, rimangono vecchi sogni su cuscini poco soffici”. La “storia” è dunque ben argomentata in vari episodi, il più riuscito rimane “Gaetano”, dove ci viene presentato il punto di vista di Gaetano Bresci, carnefice di re Umberto I.
Il titolo del disco sembra dunque proprio azzeccato, il passato è qui dentro, con tutto il suo fardello. Ma il piccolo microcosmo che si difende con il suo onesto scudo sembra proprio essere stato inglobato e ormai ignorato dal gigantesco universo che lo sovrasta.