Nuovo album Tag Archive
Raniss – “Neve” [VIDEOCLIP]
“Neve” è un brano diretto, in stile grunge anni ’90. Una visione decadente che è una delle marce di questo EP: una contrapposizione di idee tra la rinascita e l’abbandono sulle tematiche che toccano tutti, più o meno direttamente, ogni giorno.
“Io e il mio Cane”, il nuovo videoclip di IO e la TIGRE
“Io e il mio Cane” è il secondo videoclip tratto dal disco 10 e 9 di IO e la TIGRE, uscito il 10 dicembre 2015 per Garrincha Dischi tra bigodini all’aria, cuori in mano e un omaggio all’Universo.
“Tetra”, esce oggi il nuovo album di Ettore Bianconi aka :absent.
È disponibile da ieri su iTunes (al link https://goo.gl/AbTn86) e da oggi in tutti gli store in versione fisica e digitale Tetra, il nuovo album di :absent., al secolo Ettore Bianconi, pubblicato su etichetta Gibilterra e distribuito da Believe (digitale) e da MasterMusic (CD digipack a tiratura limitata).
Lo Straniero: presto il disco d’esordio per La Tempesta Dischi
La band piemontese pubblica il primo album: un pop-rock dalle sfumature psichedeliche ricamato su un telaio di due voci e di elettronica.
Ben Harper & The Innocent Criminals – Call It What It is
Questo ritorno di Ben Harper con gli Innocent Criminals, gruppo col quale ha scritto le migliori pagine della sua carriera, è stato per me (ed immagino di non essere il solo) come un regalo ricevuto da un gruppo di vecchi amici ed una delle uscite, nel suo ambito, che più ho atteso in questo primo terzo di 2016. L’ultimo lavoro di Ben coi Criminals, risalente ad 8 anni fa, fu indubbiamente l’episodio meno riuscito del loro sodalizio ma le meravigliose pagine precedentemente pubblicate rimangono per il sottoscritto tra le più belle che una band ci abbia regalato negli ultimi vent’anni.
Ben coi Criminals (presenti, seppur non sempre con uguale formazione, anche nei dischi pubblicati a nome del solo Harper fino appunto a Lifeline) ha coniato quello che a tutti gli effetti possiamo considerare il suo linguaggio: una miscela di generi che trovano le proprie radici nel Blues ma che affiorano nelle più svariate forme in modo naturalissimo ma con grandi contaminazioni nonché con uno splendido dialogo tra i vari strumenti e le varie anime di una band che riesce a dare colore come essenzialità alle doti chitarristiche e canore del suo leader andando così a creare un sound che è un vero e proprio marchio di fabbrica.
E dunque, dopo l’inatteso e benvenuto tour di reunion dello scorso anno, ecco arrivare questo nuovo lavoro in studio.
Diciamo subito che i tempi del magico decennio ’94-’04 non sono raggiunti ma che sicuramente questo lavoro suona meglio della loro ultima fatica insieme, cosa non così scontata, e che volendo fare un paragone col passato questo nuovo disco potrebbe essere un Both Sides of the Gun riassunto in un unico disco (il magico decennio si era da poco concluso ma qualche buona cartuccia da sparare ancora c’era), emblematica è la bella ballata “Deeper and Deeper”, che pare uscire dal disco bianco del sopracitato lavoro.
Call It What It Is pur avendo passaggi un po’ scontati (il Blues in odor di Stones di “When Sex Was Dirty”), paraculi (il rock dall’incedere moderno e appiccicoso di “Pink Ballon”) e non del tutto convincenti (la title track che punta il dito contro gli omicidi della polizia sugli uomini di colore senza grande originalità di scrittura ma in modo comunque estremamente diretto e sincero) non manca di momenti assolutamente godibili. Sotto questo punto di vista da citare il Reggae di “Finding Our Way” (bel lavoro di Jason Yates all’Hammond e Juan Nelson al basso), che pur non avendo la struggente profondità della meravigliosa “Jah Work” o il calore (ed il colore) di “With My Own Two Hands”, ci mostra un uomo ed una band che quando toccano questo genere non deludono mai, impossibile dopo un paio di ascolti non immaginarsi a ballare e cantare questo pezzo sotto un sole caraibico con una collana di fiori al collo.
Altro ottimo momento è il Soul di “Bones” (perfetto per casa Strax), brano pulito, profondo, con l’ottima voce di Beniamino accompagnata da una bella sezione ritmica e da un buon lavoro dei Criminals tutti. Oltre alla già citata “Deeper and Deeper” sono presenti altre profonde ballads, meritano una citazione l’Afro Folk ricco di pathos di “How Dark is Gone” (dedicata ad un amico morto in prigione), “All That Has Grown”, malinconico Blues per sola slide che riporta molto indietro nel tempo garantendo un risultato indiscutibile, e la toccante “Goodbye to You” con la quale, nel più classico dei modi, si chiude il disco del ritorno a casa di Ben.
Questo Call it What It Is è dunque un lavoro che tutto sommato non delude ma che sicuramente ci propone una band ancora lontana dai suoi giorni migliori, una band che osa troppo poco pur muovendosi con invidiabile disinvoltura tra i soliti svariati generi. I ragazzi, che live sono una meraviglia, affronteranno insieme un nuovo tour (da noi a Milano il 7 Ottobre) che potrà dirci se questo ritorno di fiamma sia un fuoco di paglia o qualcosa di più grande; sperando nella seconda ipotesi credo che in futuro quella voglia e quella fantasia che in questo disco vengono un po’ meno, ma che i Nostri sicuramente non hanno ancora perso, si potranno ritrovare facendoci così scartare un regalo forse meno inatteso ma più vicino a quel buon sapore dei giorni andati, come ci si confà a buoni amici di vecchia data.
Ilaria Pastore – Il Faro la Tempesta la Quiete
Ilaria Pastore arriva al secondo disco con delle cose da dire (e non da poco): si parla di maturità, amore, rispetto per se stessi, per il proprio tempo, per i propri dubbi. Ci arriva con le idee chiare, una voce pulitissima e leggera, scevra da ogni traccia di retorica, e un gusto per l’arrangiamento scaleno e obliquo (curato da Gipo Gurrado) che rende Il Faro la Tempesta la Quiete un’opera leggiadra, iridescente, sempre in movimento.
Il nucleo del disco è il binomio voce-chitarra, gestito sempre con una limpidezza esemplare, e con inserti misurati e accorti di batteria, basso, pianoforte, archi e fiati, che allargano il campo senza mai strafare, con una precisione di incastri di melodie e armonie che avvolge e distende.
Ilaria Pastore sa raccontare senza fronzoli dettagli minuti ma importanti: una foto della madre che sorride tra i panni stesi (“Polaroid”), il dubbio come luogo della mente da cui non bisogna per forza fuggire ma in cui si può, e forse si dovrebbe, anche sostare (“Il Dubbio”), e poi la vita di coppia, soprattutto nelle sue difficoltà e fragilità (“Buio Pesto”, “Tu Sbufferai”, “Va Tutto Bene”, “Decifrato”). Il racconto è semplice ma efficace; a volte inciampa nel ridicolo (“Compro Oro”), ma spesso riesce nell’impresa di far convivere una scrittura colloquiale e una pregnanza inaspettata: in questa passeggiata così breve / consideriamo tempo perso quello speso bene, da “Ricordi Migliori”; o forse sarebbe meglio trovare la volontà di dirsi / siamo in ritardo / abbiamo sprecato del tempo e del coraggio ed ora / siamo in ritardo, da “Va Tutto Bene”, che fotografa un certo sentimento che pare serpeggiante in una società basata sulla fretta e sulla competizione sfrenata, anche nel rapporto a due.
Il faro la tempesta la quiete rischia qui e là lo scivolone quando la semplicità dei testi, spesso gradevole, si avvicina pericolosamente all’ombra della sciatteria; per fortuna ciò non accade spesso, e Ilaria Pastore arriva alla fine con grazia e convinzione, merito soprattutto della sua voce sempre impeccabile e dal timbro così trasparente, fresco e intenso insieme. Con qualcosa in più sarebbe stato un album meraviglioso – si dovrà accontentare (si fa per dire…) d’essere un buonissimo disco.
Niagara – Hyperocean
“Musica dell’altro mondo”, come si suol dire, perifrasi entusiastica di cui spesso si abusa, a voler condensare in poche parole la sensazione tonificante di star ascoltando qualcosa di inedito. Giunti al terzo album in studio i Niagara ci mettono in condizione di poter usare l’espressione senza risultare poi così esagerati.
Non che nelle puntate precedenti Davide Tomat e Gabriele Ottino abbiano mancato di sorprenderci piacevolmente, ma c’è uno scarto sostanzioso tra le intuizioni del passato e l’ambizione con cui Hyperocean è nato, come luogo ancor prima che come disco, perchè questo terzo atto ha davvero la pretesa di essere musica dell’altro mondo, colonna sonora di un pianeta immaginario e immaginifico: brano dopo brano, le sue undici tracce modellano le fattezze di un universo che non contempla terre emerse, in cui apprendere l’arte dell’ascolto in apnea è condizione necessaria per la sopravvivenza.
L’attrazione dei Niagara per lo stato liquido, che pure era tangibile nei suoni immersi nel fluido elettrico di Don’t Take it Personally, si spinge fino a diventare principio ispiratore di una dimensione parallela governata da logiche compositive ancora da scoprire, in cui l’acqua è elemento imprescindibile, che lasciato a reagire con le strutture melodiche le disgrega e ne disperde il senso.
Il duo cementa il sodalizio con la londinese Monotreme Records e conferma la necessità di guardare oltre i confini della Penisola nel caso in cui ci si voglia sforzare a collocarli entro correnti e tendenze: le arguzie compositive di producer come Arca e Lapalux, le perturbazioni ovattate di Oneohtrix Point Never, l’ossessività degli Animal Collective. Nelle liriche sommerse dei Niagara trova spazio un nuovo modo di fare cantautorato, che rifugge i costrutti collaudati eppure mantiene la vocazione Pop, scegliendo la musicalità della lingua inglese che si confà al suo ruolo, perchè il cantato ha lo stesso peso degli altri layer sonori.
L’analogico è ridotto all’osso, percussioni e acqua, catturata da idrofoni in ogni condizione e stato, dagli abissi marini al ghiaccio in una bacinella. Il resto è lavoro in digitale di sovrapposizione strato per strato di anomalie e pulsioni emotive. Sui gorgheggi metallici dell’opener “Mizu” si incastra una voce femminile robotica, sopraffatta poi dal crescendo dei synth. Materia sonora di ogni tipo confluisce nei brani e ne esce snaturata: orchestre di archi acidi che suonano come vetri rotti in “Escher’s Surfers”, molecole di nebbia elettrica che sibilano in “Fogdrops”, abrasioni regolari a cadenzare linee vocali e riverberi Psych plastificati di “Blackpool”. Nell’accumulo di elementi sonori, sono piccoli escamotage quelli che innescano la detonazione, come ad esempio un lieve sfasamento, quello tra i sample che si rincorrono nella title track, o quello tra i singhiozzi sintetici e i loop vocali di “Solar Valley”.
L’impasto è artefatto ma suona vivo e pulsante, dall’inizio al finale incompiuto di “Alfa 11”, una nenia disturbante che degenera dilatandosi in sferzate apocalittiche per oltre dieci minuti, fino a placarsi in una calma che ha tutta l’aria di essere solo apparente.
Al termine del viaggio le linee guida del sound dell’altro mondo sono ben delineate, e il disco che ne porta il nome suona organico, più oscuro e inquieto del suo predecessore. Quelli esotici e tecnologici di Don’t Take it Personally sono stati luoghi affascinanti, ma pur sempre parte del nostro pianeta e confinati in quel limbo che è il presente, mentre Hyperocean ha le ispirazioni giuste e l’audacia sufficiente per inventarsi un possibile futuro post-elettronico.