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The Cave Children – Quasiland

Written by Recensioni

I The Cave Children arrivano direttamente dal buco nero della crisi europea ovvero quella Atene che fatica a trovare anche il benché minimo spiraglio di ripresa. Nonostante ciò, i toni del loro astrale debutto Quasiland risultano più colorati e positivi di quanto si possa immaginare. Il disco, uscito lo scorso 14 aprile per la greca Inner Earrecords, attinge a piene mani dai Novanta e Zero mescolando un’attitudine chiaramente Pop Brit Pop a derive di natura Dream e psichedeliche senza risultare mai indigeste. Al primo play ci accoglie la gradevolissima “Maybeland” con il suo basso ipnotico e il prezioso contributo dei fiati, probabilmente la migliore traccia tra le dieci di Quasiland. Nonostante l’apparente positività, a livello testuale non mancano i riferimenti alla drammatica situazione socio-politica greca che emergono in brani come “I Seedeath”, dove spicca prepotentemente la lessonlearned da Tame Impala e soci o l’accoppiata “Antigone”-“Metaphor”, la prima una dolce ballad di stampo Oasis e la seconda a metà tra i Weezer e i Blur. Tale commistione di generi, pur trattandosi di un esordio, risulta nel complesso discretamente riuscita sebbene necessiti ancora di una vera e propria fusione in un prodotto unico, nuovo e personale. Meritevole di menzione è la conclusiva “Vixentapes”, brano tiratissimo di ispirazione floydiana che fornisce in maniera più chiara un’altra volontà della band: la fede al lo-fi. La scelta viene proprio dai ragazzi greci, ovvero mantenere vivo il dogma della bassa fedeltà che aveva contraddistinto i primi demo. In Quasiland manca molto per arrivare ad uno standard qualitativo accettabile ma non dimentichiamoci di essere di fronte ad un debutto. Già molto è stato fatto, i ragazzi continuino per questa strada.

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The Backlash – “Spin ʻRound” [VIDEOCLIP]

Written by Anteprime

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I The Backlash sono una giovane band con base a Milano. Attivi dal 2012, sono [portatori nostrani di quel movimento Britpop che mai morirà. Nelle intenzioni così come dentro alle orecchie hanno la British Invasion che rese celebri negli anni The Beatles e The Who per poi rimodernarsi in nuova forma con Oasis, Blur e molti altri. Lʼalternative-rock dei Backlash trova nello Shoegaze la sua ibridazione più sincera, senza mai perdere lʼapproccio Pop tipico di quella indimenticata Manchester di metà anni ʼ90. La ricerca di una propria dimensione, lʼintrospezione profonda e la rabbia di appartenere ad una generazione nella quale riconoscersi solo a metà, sono i temi ricorrenti della loro estetica testuale. Nel 2014, dopo due anni di concerti tra Italia ed estero, i Backlash firmano un accordo discografico con la milanese Rocketman Records. 3rd Generation è lʼep dʼesordio dei The Backlash, uscito nellʼautunno del 2014 e ufficializzato dal videoclip di “Spin ʻRound” in anteprima nazionale per Rockambula (02/03/15). LʼEp è disponibile su iTunes, Spotify, Amazon. I brani selezionati per questo Ep di lancio mostrano prevalentemente il lato Britpop della band, con evidenti risvolti psichedelici. La mano di un bambino, protagonista di copertina, sta a simboleggiare qualcosa di nuovo, di appena nato e con il futuro davanti. Consapevoli e speranzosi, quindi, i The Backlash si fanno portavoce di una “Terza Generazione”, figli legittimi per gusto ed approccio alla scrittura di quei movimenti culturali e sociali che resero grandiose le scene musicali degli anni ʼ60 e ʼ90.

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Ty Segall – Manipulator

Written by Recensioni

In questo calderone di produzioni vintage (che tanto piacciono da fine anni 2000 in avanti) potrebbe entrare di diritto anche il ragazzo prodigio Ty Segall. Nato a Laguna Beach e classe 1987. Per chi non lo conoscesse vanta già una vasta produzione discografica con una ottima media di un disco all’anno. Penso che tutti siamo d’accordo nel sostenere che quando si fa revival il rischio di inciampare su un terreno arido di idee è molto elevato. Ma il giovanotto sa che questo e ben altri rischi sono la supposta quotidiana da mandare su per chi vuole vivere di passioni. E allora, senza guardarsi nè troppo avanti, nè troppo indietro, prende il meglio del sound più marcio di fine anni 60 inizio 70 e lo strapazza dentro un vortice di frenesia moderna che già scalpita in “Manipulator”, brano che apre e da il nome al disco. La title track è un viaggio distorto e psichedelico, guidato da un organo strafatto fino al midollo. “Tall Man Skinny Lady” fa intendere che la produzione a sto giro è stata curata sicuramente meglio degli altri suoi lavori. Non disperiamo, il grezzo viene fuori sempre, come la mano di uno zombie che rompe la tomba pronto ad azzannare gole nel più trash dei B-Movie. La chitarra di Ty Segall è un uragano, un fiume in piena pronto a spazzare tutti i fighetti e i loro occhiali con le montature grosse. Altro che facile revival! Attenzione, i compromessi ci sono. E forse sono gli episodi più caratteristici e portano (sempre con spiazzante naturalezza) il disco ad un altro livello. “It’s Over” si avvicina al confine del Brit Pop e pare giocare con un groove che ha il sapore dei tempi splendenti e combattenti dei The Who. La gioiosa “The Clock” riporta il suond acustico che ci aspettavamo. Ad accompagnarlo ci sono archi tanto inattesi quanto magistralmente incastonati in questa perla di melodia antica. La melodia come non mai. Melodia straziata e presa in giro, sia in “The Singer” con i falsetti autoironici che in “Don’t You Want to Know? (Sue)”, ballata scanzonata da pomeriggio londinese di timido sole. “The Connection Man” invece riporta il suono di Ty alle origini, con un bel pezzo Garage fino al midollo e che non rinuncia ad un buon gioco di stile vocale, tanto per non rendere neanche un istante di questo lungo lavoro (sono comunque 17 brani!) banale e ripetitivo. L’assolo in questo pezzo è uno di quei momenti in cui sorridi e capisci quanto sia sincero a volte il Rock’N’Roll. La parte finale di archi in “Stick Around” non ha mezze misure e mi convince ancora di più a sostenere che l’album sia il lavoro più riuscito e completo di Ty. Nonostante si possa pensare ad un gran pastone citando le influenze, che passano da Oasis a T-Rex, da Black Sabbath a Nirvana, dalla psichedelia dei Love alle scorribande degli MC5, tutto con una disarmante armonia. No niente The White Stripes o Black Keys, per loro ormai c’è l’olimpo. Qui si preferisce marcire in questo sporco mondo, ancora pieno di odori sgradevoli, luci offuscate e vecchi fantasmi. Tutto narrato con la facilità e l’onestà di chi corre volentieri un altro gran rischio, bruciandosi ancora con il suono bollente delle sue valvole.

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March Division – Metropolitan Fragments

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Tempi moderni. Suoni giusti al posto giusto, e soprattutto al momento giusto. Frenesia, elettronica soffusa tra chitarre ben pesate e liriche molto ritmate, ad intonare un ballo costante e ben scandito da secchi bpm.  I March Division vengono da Milano e pare nascano più come band di produttori che di musicisti live. Metropolitan Fragments è il loro nuovissimo lavoro dove i ragazzi non hanno di certo mezze misure. Il loro approccio è nettamente schierato e si sente: arrangiamenti magistrali, sound british che prende traccia dalle ultime orme sbiadite di Blur e Oasis per arrivare allo splendore odierno dei viaggi danzerecci dei Kasabian. La opener “Friday Will Come” non lascia molto spazio all’immaginazione e non dista molto dalle sonortità tanto amate da Pizzorno e Meighan. L’intermezzo di chitarra acustica e beat scarno colora un pezzo che già al primo ascolto ha il sapore del singolone. Per fortuna, nonostante la maniacale attenzione alla produzione non si perde il morso Rock’n’Roll. La dimostrazione ce l’abbiamo già con “Lonesome Prisoner” e “Black Noon”, così terribilmente graffianti e vicine alle composizioni dei fratelli Gallagher. Tutto è dosato in modo perfetto, tutto si mischia con matematica creatività. Le distanze sia allungano e si accorciano in continuazione nei sette brani. La danza etilica segue senza fiatare i colpi di rullante della lenta e cadenzata “Hangover Morning”.

La sensazione di ubriachezza e il presunto mal di testa passano piano piano con la spensierata “Out of Sight”, un toccasana, un’Aspirina frizzante bevuta di un sorso, un gioiello Brit Pop d’altri tempi. I suoni spaziano e ogni pezzo ha il suo sporco perchè, ogni brano potrebbe finire su qualsiasi radio mainstream, in ogni frammento si trovano tensioni e melodie. E nonostante i forti accenni e influenze, mai viene a perdersi la freschezza e il gusto di novità. Persino gli accenni Hard Rock di “Star Guitar” mandano su un altro pianeta, con un siluro sparato a velocità supersonica verso le stelle, dove troviamo un Dio che è più metropolitano che mai. “Urban God” è elettronica calda, che brucia le vene, si muove sinuosa tra le macerie e ci soffia in faccia il suo vento artificiale. Vento che per quanto possa sembrare fasullo, riesce benissimo a prenderci a schiaffi.

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Il Video della Settimana: The Sheets – It’s Goin’ Around

Written by Senza categoria

Andrea Di Bartolomeo, Davide Coccagna, Stefano Befacchia e Edolo Ciampichetti vengono da Montorio al Vomano, paesino in provincia di Teramo ma la loro musica è quanto di più distante si possa immaginare dalle terre abruzzesi. Gli Sheets, attivi dal 2011, pescano a piene mani dal mondo del Britpop degli Oasis (incredibile la somiglianza tra la voce di Andrea Di Bartolomeo e quella di Noel Gallagher) passando anche per Stereophonics o gli intramontabili Beatles. People Like Us è il loro primo album, è la loro voce, è la loro passione trascritta in musica. L’album è composto da undici brani in puro stile Britpop, quarantacinque minuti di energia, sentimenti, passione. “…questo cd è semplicemente come siamo noi ed è per gente come noi!”.

“It’s Goin’ Around” è il primo singolo dell’album e il videoclip sarà visualizzabile qui di seguito e in homepage per tutta la settimana.

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Edoardo Borghini – Fumare per Noia

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“Ci riproviamo, ci ricaschiamo”: così comincia Fumare per Noia secondo (capo)lavoro di Edoardo Borghini, giovane cantautore livornese, che vuol dare un seguito al suo primo omonimo disco. Forse questo titolo perché l’artista vuol subito chiarire che, per una sorta di consecutio temporum, “Fumare Per Noia” è il logico risultato di una maturazione artistica avvenuta in un periodo, neanche troppo grande, che passa attraverso arrangiamenti molto più complessi e persino per imitazioni canine in “Canzone di Quel che mi Viene in Mente” (proprio come fece John Lennon quando impersonificò un tricheco in “I am The Walrus”, sesta traccia dello storico Magical Mystery Tour, spesso coverizzata ed eseguita live anche da artisti del calibro di Frank Zappa, Oasis, Styx e dai nostri conterranei A Toys Orchestra). In “Perso l’Occasione di te” si ha la sensazione di imbattersi in un gioco musicale che prende spunto a quella “Eleanor Rigby” tanto cara agli stessi The Beatles e all’estro geniale del già citato Frank Zappa. Di quei riferimenti a Neil Young e a Francesco De Gregori che si erano riscontrati nel precedente compact disc invece è rimasto poco, proprio come se si volesse far capire l’ampiezza artistica di Edoardo Borghini che stavolta ha optato per un repertorio tendente più a Lucio Battisti (quello del periodo Mogol) e agli americani Byrds.

La conclusione è affidata a una “Ho Preteso” che è cantata in maniera piuttosto originale ed eseguita strizzando l’occhio al Jazz e allo Swing degli anni cinquanta. Peccato che il nostro viaggio sonoro con Edoardo Borghini duri solo otto canzoni (una mezz’oretta di tempo circa). Ci stavamo prendendo gusto. E come dice lo stesso Borghini in “Canzone di Quel che mi Viene in Mente”: “No, io non sono quel che si dice un cantautore matto, un canzoniere, un paroliere, ma so solo che a te piaccio così come sono”. E per una volta tanto l’autostima è davvero meritatissima.

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Peter Piek – Cut Out the Dying Stuff

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Il poliedrico artista teutonico, polistrumentista, cantautore e pittore oltre che fondatore della comunità artistica del PPZK, nato Peter Piechaczyk a Karl Marx Stadt, oggi Chemnitz, trentatré anni orsono, ricompare con un nuovo prodotto disegnato sapientemente per elevare la sua sfavillante voce oltre la banale beatitudine. Una voce fantasticamente imperfetta, almeno al primo ascolto e solo nella timbrica un po’ aspra ma che non impiega troppo a palesarsi in tutta la sua bellezza data anche da un’ampiezza vocale non comune. La sua veste di artista a tutto tondo prende forma in fase compositiva e anche durante le esibizioni live miscela musica e arte, facendo vedere foto scattate ascoltando brani e fornendo cuffie per udire i brani che hanno suggestionato i suoi quadri. Musica e pittura e arte in generale che si compenetrano, vicendevolmente e senza soluzione di continuità, lasciando emergere l’unica differenza tra le diverse espressioni artistiche rappresentata dal tempo. Questa sua triplice (non disdegna neanche il ruolo di scrittore) veste lo porta spesso a girovagare per la Germania e il mondo intero, dagli Stati Uniti alla Cina e proprio la promozione di Cut Out the Dying Stuff lo ha condotto anche a toccare i lidi della nostra penisola.

L’album è il terzo capitolo della saga personale di Peter Piechaczyk, dopo Say Hello to Peter Piek del 2006 e I Paint It on a Wall di circa quattro anni fa e rispecchia alla perfezione quell’aura d’internazionalità acquisita con le circa cinquecento esibizioni internazionali. La stessa opening altri non è che un’innamorata dedica alla città spagnola (“Girona”) ma non mancano intromissioni in terra inglese, cinese addirittura e ovviamente tedesca. Nonostante l’astrattismo possa essere definito come uno dei punti cardine per orientarsi nell’oceano pittorico di Piek non si può dire lo stesso della marea di note che danzano dentro i dodici brani di Cut Out the Dying Stuff. Al contrario, le liriche presentano strutture Pop melodiose e orecchiabili e raramente fuori dal comune e una forma canzone tutto sommato canonica e anche troppo lineare, con una miscela tra strumentazione sostanziale e arrangiamenti e voce che ricalca le più consone strade del Pop moderno che si affaccia presso i lidi del Contemporary R&B, del Pop Soul, del Cantautorato alternativo e dell’Indie.

Le canzoni di Piek nascono dentro dialoghi spirituali tra la parte più intima del sé e quella che è l’esteriorizzazione artistica della propria anima, sulle orme dei grandi artisti del passato, da Neil Young a Dylan, da Nick Drake a Van Morrison, sempre però con una carica tipica piuttosto di un certo Britpop in stile Oasis o Blur. L’opera di Peter Piek non è, dunque, destinata a cambiare le sorti del mondo, neanche di quel piccolo universo chiamato Musica eppure trasuda amore e libertà, indipendenza che solo certi artisti possono veramente sventolare come un drappo di vittoria al cielo, autonomia da etichette, mercato, autogestione espressiva totale e che non necessariamente deve collimare con concetti legati all’estremizzazione di avanguardie e sperimentazione. Un disco per chi ama, fatto da un innamorato.

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Tripwires – Spacehopper

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C’è tanta, tantissima inglesitudine nel disco d’esordio dei Tripwires. Spacehopper (che, detto per inciso, ha una copertina bellissima) è un frullato molto godibile ed abbordabile di stili che sono stati moda per periodi più o meno lunghi negli ultimi vent’anni, soprattutto in terra d’Albione: c’è il Brit Pop (ma più dalle parti dei Blur che degli Oasis: se non nelle sonorità, di certo nell’inventiva e nel caos creativo), con ritornelli intensi, tutto sommato orecchiabili, da cavalcare in cuffia o in qualche dj set (“Shimmer”); c’è il Rock, nelle distorsioni frizzanti e nella batteria sixties, in un impianto Indie che potenzialmente potrebbe aprire ai Tripwires la porta di radio e tv musicali (“Paint”); c’è lo Shoegaze, tutto nei cori sognanti e nei soundscape che coprono lo sfondo (la title track), negli effetti gonfi dei distorti e nei suoni (e nelle linee) di chitarra, pungenti e nasali, caotici, disseminati qua e là con sapienza (“A Feedback Loop of Laughter”).

Spacehopper è un’ottima via di mezzo tra il gusto un po’ onanista del suono panoramico e della psichedelia old school (“Love Me Sinister”) e qualche sapore più propriamente Pop/Indie Rock, canticchiabile, radiofonico, anche se, ad essere sinceri, la bilancia pende più spesso verso il primo elemento – e meno male (vedi il bell’intro di “Under a Gelatine Moon”, o l’atmosfera sospesa di “Catherine, I Feel Sick”). La voce, di rimando, oscilla senza paura tra il timbro di un Bellamy smorzato e meno primadonna (“Plasticine”) e paste con salsa Beatles (“Tin Foil Skin”, coraggioso pezzo-monstre da sette minuti e cinquanta), e il tutto, frullato, produce un cocktail dal sapore notturno, agrodolce e frizzante, da accompagnare ad una corsa in tram dopo mezzanotte, o a momenti introspettivi durante lunghi tratti ferroviari privi di luce naturale. Ne risulterà un viaggio comodo, anche per chi magari non è tanto abituato a viaggiare.

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“Diamanti Vintage” Stone Roses – Stone Roses

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Un bel disco di transizione questo primo omonimo degli inglesi Stone Roses, una vitalità che prende spunti interessanti dalla scena della Manchester che lascia – negli anni Ottanta – le pazzie autodistruttive della wave per imbarcarsi nel jangle pop di marca Echo And The Bunnymen, Primal Sceam cosi da fare in modo che una nuova moda musicale si imponga sia in Terra d’Albione come nel resto d’Europa. E quindi disco di speranza e scuola per band a venire come Blur, Oasis, Verve, antesignano nel frequentare un proto-brit che darà in futuro moltissime soddisfazioni modaiole.

Non il, classico gioco a rimando anche se si sentono nel sottofondo – le cariche ispiranti di Northside e The Charlatans  – ma una nuova spinta che Ian Brown e John Squire, insieme a Gary “Mani” Mounfield e Alan “Reni” Wren, imprimono, oltre che nell’aria,  nelle loro liriche, nuove forze delicate che allargano i colori del pop e fanno ritirare in un certo qual modo le freddure nere e torbide monopolistiche della wave più ortodossa, più intransigente che fino a poco prima si addensavano ovunque. Undici brani in scaletta che possono sembrare sbarazzini o leggeri, invece suoni di rinascita ed estremamente caldi, una tracklist che tra basi ritmiche efficaci, chitarre educate e non imperanti e una voce molto “californiana dei bei tempi Summer”,  fa un disco immediato e ricanticchiabile in ogni suo lato, regno di controcanti e melodie d’atmosfera nonché d’apertura ad una nuova svolta che però – per questa band – non continuerà a lungo e che poco più in la si inoltrerà nel pressapochismo sonoro e di memoria.

Tutto è dolciastro e che fa compagnia, brani da spiaggia, l’allora specchio dei tempi che non avevano bisogno di prosceni per affermarsi o interpretare caratteri mascherati per farsi ascoltare, le ricchezze ritmiche “She Bangs The Drums”, “Mad Of Stone”, le tenute corali “Waterfall”, la chicca nostalgica “Elizabeth My Dear” ed il beat frizzante e Radio Thing di “I Am The Resurrection” sono tra i brani che rimangono sospesi nella storia Stone Roses, il raggio di sole che – con rischio zero – si affacciava su molteplici chiavi di lettura pop.
http://youtu.be/E4d2syk0SZ4

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