Certamente non teneva in mano la mossa, l’eleganza e il lusso geniale di Sam Cooke, Marvin Gaye e Ray Charles, ma aveva più anima soul di tutti messi insieme.
Il verbo/sound della Stax di Memphis, le origini povere e proletarie, la passione umanistica che fu presa anche come colonna sonora per l’I have a dream di Martin Luther King, che in questo timido ragazzo trovò il portavoce melodioso, l’interprete stupefacente della lotta per l’uguaglianza. La sua era una voce da brivido, completa e travolgente, come dimostra l’indimenticabile I’ve been you too long, capace di prendere e ridare ogni sfumatura emozionale di qualsiasi canzone.
Il terzo album della sua purtroppo breve parabola, stampato nel 1965, due anni prima della sua tragica fine in un incidente aereo, trasformò definitivamente Otis Redding in una divinità black.
Eccolo qua, è arrivato “The Big O”, come lo stuzzicavano con affetto e goliardia i suoi musicisti e colleghi. “Quella ragazza ha rubato la mia canzone”, dichiarò dopo che Aretha Franklin aveva fatto sua Respect.
Con la identica mossa agile, in questo disco Redding catturò e fece suoi i classici del soul quali My Girl di Smokey Robinson, Wonderful World, Shake, Change Gonna Come – tutti di Sam Cooke, Down in the Valley di Solom Burke, del blues. E andò anche a ritagliare una scheggia di rock – Satisfaction – dei Rolling Stones.
Diventarono tutte suoi pezzi d’anima da distribuire al mondo, grazie anche all’accompagnamento slanciato, frizzante e magnificamente impetuoso dei Booker T & The M.G’s, il gruppo che, insieme alla sezione fiati dei Memphis Horns, fece della Stax la regina, la Black Queen della storia del riscatto dei neri.
Otis canta il soul, quel cataclisma dolce e possente che finì troppo in fretta, e lo ha cantato ieri, lo canta oggi e lo canterà fino che il globo non finirà il suo giro dispettoso che divide l’umanità in colori.