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Babyshambles – Sequel to the Prequel
Siamo negli anni Zero, il Rock sembra veramente morto dal lontano cinque aprile 1994 dopo quel fatale colpo di fucile che spappolò una delle menti più geniali di tutti i tempi; critici e pubblico gridano “rivoluzione” con l’uscita di Is This It degli Strokes guidati da quel finto rocker sbarbatello che è Julian Casablancas.In contrapposizione, dalla terra d’Albione, spunta un giovanotto dai denti marci, il colorito cirrotico ma con un gusto per il glamour che non lascia indifferenti: lui è Peter Daniell Doherty insieme ai suoi Libertines. Lanciati e prodotti dal grande Mick Jones ebbero un impatto fortissimo sui giovani londinesi e su di me, con le loro divise da guardie reali, completamente strafatti ma capaci di partorire un sound a metà tra Clash e Smiths.
Fu solo un abbaglio, un flash, come uno stupefacente che regala quell’attimo di onnipotenza per poi lasciare ancora più vuoto e insicurezza di prima. Questo è Pete Doherty e la sua arte è inscindibile dal suo stile di vita, dalla tossicodipendenza e dai suoi tormenti da moderno bohemien fuori moda; personaggio controverso che finisce per diventare, a distanza di dieci anni, la parodia di se stesso accettando di partecipare a un reality di tossicodipendenti per la tv inglese dove sforna consigli su come risalire la china ma è pronto, subito dopo, a consumare l’ennesima dose con il compenso ricevuto dalla partecipazione allo show.
Ma qui si sta parlando di musica e di Sequel to Prequel, nuovo album dei Babyshambles che tornano sulle scene dopo un gran brutto periodo (Doherty, Mick Whitnall e Drew Mcconnell hanno avuto un incontro ravvicinato con la morte; i primi due per droga, il bassista in un incidente stradale) con un lavoro paradossalmente solare e autoironico che racconta con leggerezza la loro condizione di disperati ed è forse proprio questo atteggiamento beffardo ad aver salvato Pete Doherty da se stesso e dal buio che si era creato intorno. Prodotto dall’inglese Stephen Street, maestro del Brit Pop, (per intenderci, lo stesso che ha lanciato Blur, Smiths e Cranberries) il disco parte con “Fireman” piccolo capolavoro Punk Rock sgraziato e trascinante come solo il nativo di Hexham riesce a confezionare seguita da “Nothing Comes to Nothing”, ballata Pop melensa e dal sicuro successo commerciale. I brani successivi s’infilano uno dietro l’altro senza particolare grazia, senza distinguersi particolarmente, generando sbadigli e noia fino a “Dr. No” interessante esplorazione nel Reggae più fumoso e bianco. Da citare “Picture me in a Hospital” piccola gemma Folk che rafforza un dubbio atroce che mi porto dietro ormai da anni: Pete Doherty è un poeta o un pagliaccio?
La scelta d’inserire nel disco delle bonus track non risolleva di certo le sorti dei nostri redenti squatter a parte la deliziosa “After Hours”, pretenziosa cover dei Velvet Underground. In sostanza questo lavoro non propone nulla di nuovo rispetto al solito repertorio di Doherty nonostante McConnell abbia fornito un contributo notevole alla realizzazione dell’album, soprattutto nella scrittura dei testi. Alla prima presentazione Doherty si è mostrato con ben novanta minuti di ritardo, insomma, siamo alle solite: di nuovo con una bravata da inguaribile tossico o è l’unico modo per destare l’attenzione del pubblico?
Beh caro Pete, è evidente che la seconda ipotesi è la più veritiera, e ti dico con sincerità che è molto più poetico vedere su You Tube il video in cui canti spensierato per le strade di Bratislava. Inoltre, potresti anche pensare di prenderti una pausa e rinchiuderti in un centro di riabilitazione in modo da schiarirti un po’ le idee.