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La versione 20.21 del grunge della Seattle anni Novanta: Intervista ai Bodoni
Quattro chiacchiere con la band dopo la pubblicazione del nuovo lavoro.
Continue ReadingMalamadre – Malamadre
Il progetto Malamadre giunge a coniugare note e matite: il trio abruzzese, infatti, muta gli undici episodi che compongono il disco in una webserie di fumetti musicali, coinvolgendo autori e disegnatori e sconvolgendo il concetto di semplice trama sonora. Un palmares ricco di riconoscimenti nonostante una vita artistica tutt’altro che longeva è il loro biglietto da visita. “Olio”, la prima traccia dell’album, consente alla band di vincere il premio come Miglior Voce al Red Bull Tour Music Fest, Miglior Voce a Streetambula Music Contest e il Pescara Rock Contest, consentendo ai Malamadre di aprire agli Afterhours nella loro data pescarese. Il brano ha un sound attinto dal Grunge, con aperture bucoliche create dal nulla dalla voce di Nicholas Di Valerio. “Chi non Muore si Risiede” prosegue su questa scia e al genere cantautoriale si somma il vigore di Soundgarden ed Alice in Chains. La ballata “Mammarò” e la successiva “Il Tango del Portiere” sono unite dall’invisibile collante della rassegnazione, con testi tristi che ci raccontano di vite al tramonto, senza cadere nella facile retorica. D’ora in avanti sarà tutto un batti e ribatti: a un pezzo simil Pearl Jam risponderà una parentesi con un approccio più bilanciato, spesso e volentieri con risvolti acustici. Racchiudere simili concetti e idee in undici brani mostra una spiccata autostima, nonostante sia ben contenuta, non scivolando mai nell’emulazione o nel plagio più becero, preservando una propria identità. Disco da ascoltare e riascoltare.
La Band della Settimana: Acid Muffin
Gli Acid Muffin sono un gruppo romano nato nell’ottobre del 2010 dall’idea di Marco Pasqualucci e Andrea Latini, rispettivamente ex batterista ed ex cantante/chitarrista dei Recidiva, ai quali si aggiunge nel maggio 2012 il bassista Matteo Bassi. Il loro è un Rock sperimentale e melodico, che prende in parte ispirazione dal sound Alternative/Grunge anni ’90. Gli Acid Muffin, dopo un primo demo registrato nel 2012, nel maggio dell’anno successivo entrano in studio per dare vita alla loro prima fatica ufficiale Nameless; un ep di cinque tracce dalle caratteristiche ibride, che da un lato si rifanno alla pura tradizione Grunge (Alice In Chains, Pearl Jam e Nirvana), dall’altro, per effetto di personali scelte stilistiche, lo ascrivono maggiormente al “Post”.
Dead Bouquet
Far si che la tua fonte d’ispirazione non solo ammiri il tuo lavoro ma addirittura lo produca, significa che qualcosa di speciale è stata creata. Sarà con il romanticismo, seppur “tragico”, insito nel loro nome, che i Dead Bouquet con il loro album di debutto As Far As I Know sono riusciti a conquistare le orecchie di chi li ascolta. Ma lasciamo a loro la parola per raccontarci come è andata…
Ciao ragazzi, benvenuti su Rockambula. Un disco d’esordio As Far As I Know dove a metterci mano sono state persone non proprio comuni per tutti gli artisti. Svelate voi ai nostri lettori di chi stiamo parlando e quali sono state le vostre sensazioni per questa collaborazione?
Stiamo parlando di Paul Kimble e di Joe Gastwirt; il primo bassista e produttore dei Grant Lee Buffalo, grande rock band degli anni ’90, noto anche per aver lavorato con Michael Stipe, Radiohead e Andy Mackay nella colonna sonora del film Velvet Goldmine. Joe invece, rinomato mastering engineer, ha contribuito a centinaia di dischi d’oro e platino per artisti del calibro di Bob Dylan, Neil Young, Pearl Jam, Jerry Garcia e Paul McCartney. Due grandi professionisti ma soprattutto due favolosi esseri umani che hanno contribuito senza riserva al nostro album offrendo la loro sensibilità musicale.
Parlateci di come sono nati i Dead Bouquet e la scelta di questo nome.
Il nome Dead Bouquet l’abbiamo preso dal testo di Fuzzy, una canzone dei Grant Lee Buffalo ci piaceva la visione ottocentesca di un bouquet di fiori appassito. Suoniamo insieme dal 2012 e dopo i primi live e la sintonia che subito si è creata, abbiamo deciso di registrare chiamando Paul… lui ha accettato ed eccoci qua!
Quello che proponete è Rock, è psichedelia, è Folk, quali sono gli artisti da cui vi fate ispirare maggiormente, per esempio: durante la scrittura di questo album stavate ascoltando qualcosa in particolare?
I Grant Lee Buffalo sono un ascolto primario per forza di cose, altri artisti di riferimento sono Neil Young, David Bowie, The Waterboys, Thin White Rope e Gordon Lightfoot. La sera, dopo le registrazioni, capitava di trovarci al nostro pub di fiducia ad ascoltare con Paul dischi di Scott Walker, Gordon Lightfoot, The Blasters…
Avete mai pensato di aggiungere componenti al vostro trio?
Il nostro sound è già molto pieno così, ma in futuro chissà, non poniamo un limite a questo… magari un polistrumentista…
Siamo in procinto del nuovo anno, quali sono i buoni propositi e gli obiettivi per questo 2015?
Stiamo organizzando un piccolo tour europeo che toccherà Svizzera e Francia… sarebbe bello girare tutta l’Europa… nel frattempo stiamo lavorando ai nuovi brani, abbiamo molto materiale!
Vi ringrazio per la chiacchierata, lascio a voi i saluti e le ultime news da lasciare ai nostri lettori.
Potete seguirci su Facebook alla pagina www.facebook/deadbouquet.net dove vi terremo aggiornati sulle nostre news. Il 14 gennaio torneremo sul palco del Contestaccio di Roma, dopodiché saremo a Milano il 6 febbraio. Vi aspettiamo! Un saluto a Rockambula dai Dead Bouquet
Counting Crows (Milano 23/11/2014)
Il panorama dell’Alcatraz in questa nebbiosa domenica pomeriggio è colorato e pacifico. Dal grigiore del primo freddo incontrato fuori dalla porta a quell’aria calorosa ma riflessiva, dentro le mura del club milanese. Il pubblico accorso qui per la seconda data italiana dei Counting Crows è indubbiamente variopinto, ma anche relativamente adulto. Si, facciamocene una ragione, gli anni 90 sono ormai lontani, ad un quarto di secolo da noi. Coloro che erano piccini come me ormai dovrebbero accettare di essere maturi (almeno proviamoci) e i ragazzi di allora ormai (volenti o nolenti) hanno sfondato la spaventosa barriera dei 40 se non i terrificanti 50. Ma nonostante le rughe e le clamorose stempiature l’aria è gioviale, scanzonata, sognatrice, con quel filo di consapevolezza che rende più reale i sorrisi scovati tra le famigliole presenti. Lasciamo perdere la mia analisi sociologica da bar sport e concentriamoci sulla musica, che comunque a mio avviso si adatta alla perfezione al mood della serata, ma non si accontenta certo di farci da colonna sonora. E allora la band californiana sale sul palco sulle note dell’intro “Lean On Me” di Bill Withers e ci da subito una bella strigliata con una “Round Here” da 12 minuti. L’arpeggio è inconfondibile e il suono ci circonda a tratti accarezzandoci, a tratti pungendoci. Il sali/scendi dinamico ci porta dritti su una montagna russa con Adam Duritz che, in mezzo alla sua capigliatura sempre più Telespalla Bob, sprigiona un’eccelsa performance tra poesia e prosa, un frontman teatrale che però mostra la naturalezza con cui un bimbo ti racconta la sua giornata al parco giochi. Basta, il concerto potrebbe finire qui, in pochi minuti e io avrei già visto uno dei migliori live della mia vita. Ma le emozioni sono di casa questa sera e gli intrecci di chitarra Immergluck-Bryson-Vicrey lasciano senza fiato, con quelle radici che spuntano dai loro piedi ad ancorarli ben bene alla tradizione del rock americano. Dalle acustiche di “Cover Up The Sun” alle schitarrate molto Pearl Jam della tiratissima “1492”, introdotta da Duritz con un piccante raccontino delle alcune sue serate eccessive proprio in quel di Milano. Stasera c’è spazio pure per “Mr. Jones”, recitata e snaturata della sua vera essenza melodica, quasi a farci intendere che i tempi cambiano e anche questa canzone, simbolo degli anni 90, è mutata, scarnificata, ormai un vecchio quadro sbiadito, da mettere in mostra raramente in mezzo a tante nuove e più vive emozioni, come le splendide “Possibility Days” e “God Of Ocean Tides” tratte dal nuovo e intenso “Somewhere Under Wonderland”. Adam si destreggia goffo ma a sempre a suo agio nella sua semplicità, un leader che abbraccia il pubblico e fa sentire il suo calore con gli occhi e con le mani, oltre che con la sua incantevole voce, che pare migliorare di anno in anno e ci stende con una “Goodnight L.A.” piano e voce. Tutti i presenti canticchiano e dimostrano, anche in un pezzo minore, la loro passione sfrenata per questo cantante e per questa band, così sottovalutata ma sempre più in forma dopo tutti questi anni.
Nel set c’è anche spazio per cover ricercate (alcune recuperate dall’album “Underwater Sunshine”) come “Big Yellow Taxi” o “Like Teenage Gravity”, splendida in versione acustica e nel finale maturità (artistica e non) e gioventù si incontrano nell’eterna “Palisades Park” e poi nella memorabile “Rain King”. Distanti quasi 25 anni tra loro eppure così appiccicate e sincrone nell’ennesima espressione di potenza sonora sprigionata dalle note di questa mastodontica band. Dopo due ore, l’ultimo brano è “Holiday In Spain”, comandata dal pianoforte di Charlie Gillingham, vero trascinatore del groove e della dinamica della band di San Francisco. Il sipario si chiude con la base di “California Dreamin'” dei The Mamas & The Papas e Adam Duritz rimane davanti a noi profetizzando: “torneremo presto, questa estate”, lasciando così l’acquolina in bocca a noi fan che aspettavamo un loro concerto in Italia da ormai quindici anni. C’è da dire che l’attesa è stata spazzata via da una performance strabiliante, non solo un elogio alla loro ormai lunga carriera, ma un vera e propria lezione di comunicazione Pop, fatta di poche parole, nessun effetto scenico e di tanta e ottima musica. Musica che conosce bene i suoi limiti, emoziona per la sua leggerezza e fa sorridere quando ostenta profondità.
Nation of Giants – Double the Dose
I Nation of Giants nacquero dalle ceneri dei Goodwines, gruppo di cui facevano parte anche altri tre elementi assieme ai quali Max Castellani, Tia Galbiati e Denny Bucella hanno registrato e pubblicato due album in studio (Just A Little Shaboo nel 2010 e In Mojo nel 2011) e due live (Dirty Enough? nel 2011 e Live Session @ LogicStudios nel 2012). Con essi riuscirono anche ad aprire per artisti noti tra i quali Steve Angarthal (Pino Scotto), No More Speech (Alteria), The Fire, Lost Alone, Eric McFadden, The Traveller e Rustless. Dopo lo scioglimento della band i tre autoproclamati “soul-brothers” non si sono certo demoralizzati ed ora hanno dato alle stampe nell’estate 2014 un ep di soli tre brani a tratti Southern Rock, a tratti Heavy Blues, a tratti Soul&Roll. Il mix è quindi difficilmente catalogabile in un solo genere, ma di certo quella che ascolterete è solo tanta fottuta buona musica fatta da tre musicisti che danno anche l’anima mentre suonano. Che si ricordino delle leggende attorno a Robert Johnson, padre (o forse persino nonno) putativo del Blues che si dice che la vendette al diavolo? Forse però parlando di lui si va troppo indietro, perché se è vero che c’è tanto del genere appena menzionato in questi sedici minuti di tempo, bisogna ammettere che ci sono anche reminiscenze di gruppi degli anni sessanta quali Canned Heat e tutti quelli del filone Woodstock. Le prove? Basta ascoltare “Petrichor Blues”, secondo pezzo in scaletta in cui vi sembrerà di ascoltare anche i migliori Rolling Stones (eh sì, sembra uscita proprio dalla penna di Keith Richards e di Mick Jagger) o persino gli Aerosmith (quelli però un po’ più recenti e smielati). “Lucky #7” è denominata come bonus track (era necessario chiamarla così con soli due brani alle spalle?), ma di certo tutto è tranne un riempitivo. Per quanto mi riguarda supera nettamente in qualità anche la opening “Soldier of love”, che non va certo confusa con le omonime tracce di Sade, The Beatles o Pearl Jam. Queste tre canzoni mancheranno forse di originalità (forse), ma come si dice… Chi se ne frega! Quello che ne scaturisce sin dal primo ascolto è un ottimo prodotto, piacevole e rilassante da gustare a pieno mentre vi immaginate di percorrere in auto le highway americane.
Il Video della Settimana: The Scunned Guests – “Sogno e Son Desto”
Da Sassari arrivano The Scunned Guests, quartetto composto da Gianni Senes, potente voce della band, Paolo Vodret al basso, Pietro Marongiu a completare la sezione ritmica e Marco Calisai alla chitarra. Il loro sound spazia in tutto l’universo Alternative Rock, toccando note che richiamano alla mente Led Zeppelin, Faith No More, Nirvana, Pearl Jam, Beatles e tanti altri. Trovate The Scunned Guests – “Sogno e Son Desto” di seguito e in homepage per tutta la settimana.