Arrivo al Magazzino sul Po poco dopo le 22 sotto una leggera pioggia, entrando nel locale si direbbe che quello che ho appena lasciato alle mie spalle possa in realtà essere il temporale più terrificante caduto sulla città negli ultimi cinquant’anni. Io, i musicisti, lo staff del locale ed un altro ragazzo (a questo punto immagino entrato per ripararsi dalla tempesta) è questo quel che trovo. Sì, lo so, sono qui per i Guignol mica per gli U2, ma credo immaginare la presenza di un pubblico formato da almeno una trentina di persone fosse per lo meno lecito anche per il semplice fatto che il recentissimo Abile Labile sia sicuramente un gran bel lavoro. Bevo una birra, fumo un paio di sigarette e scatto qualche foto al Monte dei Cappuccini ed alla Gran Madre da questa bella posizione sul fiume (non piove più e sono arrivate altre 5-6 persone) prima che la campanella annunci l’inizio del live con un ritardo, acquisito immagino nella speranza dell’arrivo di qualche anima persa, che purtroppo andrà ad accorciare i tempi per la band di Adduce. Tocca all’artista di casa Anthony Sasso (metà del duo Anthony Laszlo) aprire la serata con un’improvvisazione di chitarra, synth e piccoli elementi vocali. L’esibizione può essere suddivisibile in 4 parti, buone la seconda, tribale ed evocativa e con chitarra in odor di Santana e l’ultima che sprigiona sentori Kraut (forse un po’ troppo monocromatici) prima del rumoristico finale. Durante la sua performance sono raggiunto da un’altra penna di questa webzine, cosicché durante l’esibizione dei Guignol si potrà affermare che il 25% del pubblico presente in sala sia parte della redazione di Rockambula. Dopo una breve pausa salgono sul palco i 4 milanesi che partono subito decisi con “L’Uomo Senza Qualità” capace di liberare una buona energia (per quanto sia possibile fare suonando di fronte a così poche persone e per quanto queste poche persone siano pronte a sentirla in una situazione simile). Tocca poi a “Salvatore Tuttofare” e “La Coscienza di Ivano”, brano in cui Adduce abbandona la chitarra trovandosi più libero di interpretare e cambia spesso gli accenti delle parole come usano fare molti cantautori (De Gregori in primis), il brano diventa musicalmente più tirato e grezzo facendosi Punk Rock, il suono fin troppo sporco non gli rende giustizia e sicuramente l’assenza del sax di Giubbonski si fa sentire parecchio. Anche in “Sora Gemma e il Crocifisso” qualcosa non andrà per il meglio ed il brano risulterà come scollato, frammentato. Arriva poi la ballata “Polvere Rossa, Labbra Nere”, è in questo territorio che la band si muove meglio, per quanto il suono possa essere sporcato da un’attitudine Punk Rock molto più viva che su disco qui la chitarra più ruvida riesce in qualche modo a trovare una sua ragion d’essere ed il pezzo rimane quello che è: bello. Trovano spazio in scaletta anche un paio di vecchi brani tra i quali spicca “Il Sole si fa Rosso” (da Rosa dalla Faccia Scura) bella ballata che va a guadagnare ulteriormente in tensione e profondità. Adduce invita i pochi presenti (tutti seduti) ad alzarsi perché la musica, ancor più se suonata dal vivo, è anche una questione fisica ma lo fa troppo tardi. La mezzanotte è passata da poco, ultimamente molti posti in città hanno avuto problemi a causa degli orari (o meglio del vicinato, per quanto vista la posizione vorrei sperare non sia il problema del Magazzino) e dalla regia comunicano che quel che resta è il tempo per un ultimo brano che sarà la bella “Il Cielo su Milano”. Concerto dalle due facce dunque che si chiude forzatamente quando la band iniziava a girare meglio e che non da il tempo di ascoltare il rifacimento de “Il Merlo” di Piero Ciampi o qualcuna di quelle belle ballate notturne scritte da Pier Adduce che immagino fossero in scaletta, peccato. Peccato anche che la band dal vivo tenda ad essere più ruvida di quanto sia su disco perché se certi brani nell’irrobustimento guadagnano qualcosa o perdono relativamente poco, per altri la perdita risulta molto più consistente. Sicuramente la serata un po’ surreale, per quanto il concerto i suoi bei momenti li abbia comunque vissuti, non ha aiutato né il pubblico né la band. Alla prossima dunque, sperando che il cielo su Torino regali una notte un po’ più fortunata.
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Guignol – Abile Labile
A meno di due anni dal precedente Ore Piccole ritornano i milanesi Guignol con il loro sesto lavoro in studio ed una band nuovamente rinnovata. Troviamo infatti, oltre al leader Pier Adduce ed al confermato Enrico Berton alla batteria, l’ingresso in formazione di Paolo Libutti al basso e Raffaele Renne alla chitarra; in svariati brani la band sarà supportata anche dal polistrumentista, nonché produttore del disco, Giovanni Calella. Abile Labile è il titolo scelto per questa nuova fatica, titolo che ben rappresenta personaggi e situazioni che si muovono tra stati d’animo e circostanze agli antipodi, figure ordinarie e straordinarie di questo presente sempre più alienante, pronte a
prendersi la loro rivincita sulla vita come a soccombere ad essa, libere o ancora alla ricerca della propria identità.
Incontreremo stacanovisti (il Rock Blues di “Salvatore Tuttofare”) piegati allo sfruttamento ed alla disumanizzazione del mondo del lavoro, pronti a fare qualunque cosa senza mai raggiungere un miglioramento della propria precarietà non solo lavorativa, sino all’inevitabile cortocircuito; accompagnati da un’introduzione bucolica (cade sul davanzale e cade sul balcone/sull’orto di tuo padre chino sotto il sole) visiteremo la malata terra di Taranto colpita nel profondo dalle polveri prodotte dalla sua grande acciaieria nella sentita e riuscitissima “Polvere Rossa, Labbra Nere”, tra voglia di verità e resistenza e tristi pensieri (dubbio che pende giù come un nodo scorsoio/meglio morti di fame o respirando acciaio?). Troveremo, nella tirata “L’Uomo Senza Qualità”, un cane sciolto che dopo una vita ai margini cerca la propria rivincita e per costruirsi una nuova e forte personalità si convince persino di poter diventare un terrorista pronto a spingersi sino al gesto estremo. Osserveremo due bellissimi quadri metropolitani: “Il Cielo Su Milano” che, non senza riferimenti politico-sociali, partendo dal pretesto meteorologico, ci racconterà l’abbruttimento piccolo borghese di una città dove quando soffia il vento pulisce un’aria opaca e tesa a tal punto che la visione del cielo dopo il suo passaggio potrebbe considerarsi pari a quella dell’acqua nel deserto, e “Luci e Sirene”, brano randagio, periferico, dalla grande potenza visiva, nel quale l’atmosfera notturna verrà illuminata solo da inutili lampeggianti blu (sotto il cielo di questo viale/luci e sirene scuotono le sere/per presidiare chissà che cosa/mentre accade quel che deve accadere), delicati soffi melodici impreziositi dall’ottimo lavoro di Francesca Musnicki al violino. Incontreremo anche un divo del porno catalizzatore di desideri ed invidie (“La Coscienza di Ivano”, godibilissimo divertissement con ospite Guido Rolando Giubbonski al sax) pronto a presenziare ovunque pur di accrescere la propria popolarità (Priapo un po’ mondano tra ironia e clamore volerà il tuo nome), e l’irriverente maîtresse di un vecchio bordello (“Sora Gemma e il Crocifisso”) che associa la figura del Signore a quella di un figlio perso chissà come e riempie la casa di crocifissi senza esimersi dall’esercitare la propria professione (nella casa del piacere la profana devozione), libere e geniali figure di brani ben riusciti che in alcuni passaggi ricorderanno facilmente personaggi e situazioni tipicamente nostrani. Libere e geniali come indubbiamente era Piero Ciampi, grande personaggio ai margini, di cui la band propone una rilettura de “Il Merlo”, pezzo che potrebbe sembrar scritto a 4 mani da Arturo Bandini, famoso alter ego di John Fante, e dal Bukowski più sfatto. L’ottimo lavoro della band e di Pier Adduce che lo interpreta con grande teatralità e lo arricchisce con l’uso dell’armonica, rendono il brano forse meno fragile ma ancora più ubriaco ed affamato di quanto già non fosse, donandogli un’urgenza che lo farebbe dire loro; credo che persino il suo autore applaudirebbe o concederebbe una smorfia di approvazione, sicuramente applaudo io.
La poesia e la sardonica ironia che da sempre contraddistinguono i testi di Adduce raggiungono dunque in questo lavoro nuove vette alle quali la band, nonostante i continui cambi, regala ottimi abiti pur rischiando, se solo i nostri fossero un bene più comodamente fruibile, il remix facile in un paio di occasioni (per quanto dopo “Geordie” credo ormai non esista brano che non corra tale pericolo), tanto da farmi trovare sempre più gradevole l’idea che questa formazione provi a spingersi un po’ più in là; al contempo è un piacere poter ascoltare del buon sano e schietto Rock che non necessiti di prefissi catalogatori ad anticiparne il vecchio e caro nome, ma che suoni alternativo ed indipendente per innata attitudine.
Gianmarco Basta – Secondo Basta
Scenette teatrali più che canzoni. Tant’è che Gianmarco Basta si autodefinisce “cantattore” e si ispira ai maestri Iannacci e Ciampi, senza però arrivare a pungere troppo con le parole o con il suono. Per fortuna le storie raccontate hanno invece qualche lampo di vitalità e toccano con mano i vicoli, i lampioni e le mura di una Bologna viziata, che si nasconde male. “Dandy Pub” è la storia di ex che cambiano sesso, sotto un Pop poco efficace e quel cambio di tempo nel ritornello a dir poco arruffato. Il blusaccio tragicomico di “Che Insetto ti ha Punto?” alza un poco il livello compositivo (non di certo originale) anche se la voce di Gianmarco rimane spesso insipida e poco incisiva. Un briciolo di convinzione in più avrebbe sicuramente svoltato e dato più carattere ai brani. “Contanti” passa al Reggae nostrano, alla Rino Gaetano, marcato su antichi proverbi popolari (per muovere un morto ci vuole una vita intera). La voce femminile per fortuna butta un briciolo di pepe ad una canzone anonima e che non trova nell’ arrangiamento la grinta necessaria.
Ci aspettavamo il pezzo intimista ed ecco “Artista Bonsai”, puramente autobiografica. Ti ricordi lo scambio dell’anello, poco importa se era solo un tarallo, Gianmarco butta veleno verso una società che pare non comprenderlo. I temi delle canzonette sono molto vari ma trovano in qualche modo il loro denominatore comune. Non tanto diversa è dunque la condizione di disagio in “Una Vita per la Snai” o “Depressione (Xanax)”, quest’ultima strizza l’occhio al cantautorato più classico ma non per questo graffiante. Giusto degno di nota è il coro vagamente ecclesiastico nel finale.
La parte migliore del disco sta nelle storie de “La Corriera del Mattino”, finalmente una canzone che rende giustizia al suono sbilenco, ubriaco e zoppicante del ragazzo bolognese. Qui si riescono a sentire gli odori marci della notte, l’imperfezione di questa canzone sincera lascia quel sorriso che purtroppo non riesce ad uscire nelle altre tracce del disco. La banalità delle rime e dei ritmi sempre un po’ sbilenchi rendono tutto troppo piatto, anche in canzoni come “Cerco Casa” che con quel briciolo di attenzione sarebbe potuta decollare. Le storielle finiscono con una canzone che (molto probabilmente senza volerlo) sa del primo Vasco Rossi. “Lucia della Notte”, corre da sola insieme al pianoforte martellante che la rende terribilmente frenetica. Un flusso di parole che puzzano d’alcol sfocia nel bel assolo di sax, sentito e vero, tanto da farci venire voglia di fare un brindisi a Gianmarco. Anche se non ha sfornato un capolavoro, il suo disco rimane sincero, come un buon bicchiere di vinaccio rosso.
Bobo Rondelli torna con un tributo a Piero Ciampi
Bobo Rondelli cavalca l’onda del suo momento magico, che lo ha da poco portato ad esibirsi nella Grande Mela e in un’applauditissima performance sul palco del Premio Tenco, annuncia l’uscita di un album tributo a Piero Ciampi. Coronamento di una serie di spettacoli che Bobo sta portando in giro da un po’ di tempo dal nome “Ciampi ve lo faccio vedere io”, il prossimo 19 dicembre questo nuovo lavoro uscirà come allegato al quotidiano il Tirreno e vedrà ufficialmente la luce a inizio 2016. Il disco è stato registrato live il 19 novembre scorso presso il Nuovo Teatro delle Commedie di Livorno, all’interno del Premio Ciampi Città di Livorno 2015. L’esibizione è stata aperta ad un ristretto numero di partecipanti, un concerto che rimarrà fissato nella memoria dei fan di Bobo e del mai dimenticato poeta cantautore conterraneo Piero Ciampi. Due vite divise dal tempo, che spesso trovano forti punti in comune, tanto che la critica si è frequentemente spesa in paragoni tra i due.
Il Video della Settimana: Luca Faggella – “Tempo”
Sono 17 gli anni racchiusi dentro un’antologia che fa il punto della situazione, musica e vita, conquiste e grandi collaborazioni. Luca Faggella pubblica Discografia: Antologia di canzoni (1998-2015) e raccoglie i suoi più importanti passaggi in musica, dagli esordi quando si dedicava a Piero Ciampi ai suoi ultimi dischi. Durante l’ascolto anche 6 inediti di cui “Tempo” è il video della settimana di Rockambula. Canzone d’autore introspettiva, a tratti eterea, a tratti molto tangibile. Di sicuro siamo a piedi scalzi su territori che cercano di contaminare di psichedelia (in senso molto molto lato) la canzone d’autore italiana. Ci piace questo inedito e queste nuove direzioni di Luca Faggella. Un bel ricordare assieme…
Domanda scaramantica: un’antologia a 17 anni di carriera. Perché non aspettare i 20?
Già! In realtà però sono 17 anni dal primo Cd (aggieggio che non ho mai amato particolarmente…) ma per esempio, sono 27 dall’LP Vinile con i Gift. Non c’è un perché comunque che non sia, come dire, il momento di fare punto e a capo. Volevo mettere ordine e anche mettere in evidenza cosa c’era di questi 17 anni appunto che rappresentasse meglio il percorso.
Che criterio hai seguito per la scelta dei brani? C’è qualcosa cha hai dovuto lasciar fuori?
Ho scelto di iniziare da oggi “Tempo” è l’ultima canzone che ho registrato, con Giorgio Baldi e Gabriele Ratti, all’inizio della scorsa primavera. Per poi andare a cercare gli inizi, fino a “Icaro”. Il criterio è stato scegliere le canzoni che per me sono le più significative, al di là anche del fatto se “mi piacciono” o meno. Il “mi piace” relativo alle proprie canzoni è abbastanza altalenante e troppo condizionato. Mi sono anche fatto aiutare nella scelta chiedendo su twitter, facebook ecc o anche parlando con amici e persone che ho conosciuto ai concerti, in questi ultimi due anni. Mi dispiace un po’ aver lasciato fuori “Olimpia”, “Pornostar” e “Tradizione elettrica”. Magari nella seconda antologia, fra una ventina d’anni… Ma per i miei standard è un album già lunghissimo. Però essendo una raccolta ci può stare. Anche alcune delle nuove canzoni sono rimaste fuori.. vedrò di farle in concerto, magari. Insieme al cammino musicale poi c’è quello dei testi…
Ho l’impressione che oggi tu sia diventato più notturno e riflessivo nella scrittura e negli arrangiamenti. Maturità e crescita artistica, oppure niente di tutto questo?
Direi che il cammino “notturno” e riflessivo come dici c’è eccome. E inizia circa undici anni fa, con “Fetish”. E con “Ghisola” e “Tradizione elettrica” questo tipo di composizione e scrittura (parlo dei testi) si è consolidata… Si, può darsi sia un segno di maturità e non solo artistica, ma esistenziale. Nella composizione e negli arrangiamenti ho trovato una strada che mi piace percorrere: in linguaggio tecnico la modalità che prevale sull’armonia, melodie molto semplici, forse “inusuali” per il cantautorato italiano o l’indie come lo vogliamo chiamare. Se dici maturità e crescita comunque… mi fa piacere, lo trovo lusinghiero e un piccolo riconoscimento, per me a questa età abbastanza importante da farmi “guardare” a questo percorso e riconoscermici.
Omar Pedrini torna con un tour in unplugged
Il rocker bresciano torna live, dopo un periodo durato 4 mesi lontano dai palchi, ripercorrendo, in acustico ed accompagnato dalla sua chitarra e da quella di Marco Grasselli , la sua carriera che lo ha visto protagonista sin da giovanissimo con i Timoria, una delle più influenti rock band italiane per poi continuare da solista ottenendo grandi riconoscimenti, il più recente è il “FIM Award 2014 come miglior artista rock italiano”. Per questo intimo tour Pedrini proporrà oltre ai suoi successi, anche brani tratti da Che ci Vado a Fare a Londra?, ultimo lavoro discografico uscito nel gennaio 2014 e che ha dato il via ad una nuova fase “british” studiata e realizzata in collaborazione con Ignition di Noel Gallagher degli Oasis. Non mancheranno momenti di arte poetica legata ad autori che lo hanno ispirato nei suoi reading teatrali, dalla beat generation a Majakowski e non si escludono momenti d’improvvisazione e magari anche qualche cover dedicata ai suoi miti musicali…per citarne alcuni Neil Young, Piero Ciampi e Paul Weller. Il tour inizia il 3 marzo al La Limonaia di Fucecchio (FI) per poi continuare il 4 marzo a L’Asino che Vola di Roma, al Modo di Salerno il 5 marzo, al Barrio di Napoli il 6 marzo, il 7 marzo sarà ad Imola per una serata di beneficenza; mentre il 14 marzo è la volta di Milano, città che ama e dalla quale manca da quel marzo del 2014, mese in cui ha calcato il palcoscenico del Teatro Parenti con la pièce dedicata a John Belushi mandando in visibilio il pubblico che lo ha celebrato con il “sold out” ad ogni serata. Da sottolineare anche che lo “Zio Rock” sarà testimonial dei siti Unesco della Lombardia in occasione di Expo 2015.
Dimartino 02/11/2013
Voi non ci crederete ma dopo il concerto dell’altra sera al Circolo degli Artisti, la prima cosa che mi viene in mente se penso a Dimartino è Niccolò Fabi. Non perchè sia possibile accostarli stilisticamente, questo nessun recensore in Italia avrebbe l’ardire e l’ardore di dire (notate il gioco di parole che denota la padronanza linguistica del sottoscritto, altro che “scusate il gioco di parole”), ma perchè a pochi passi da me al concerto di Dimartino c’era Niccolò Fabi. L’ho incontrato in fila, era dietro di me, lui ha pagato ed io avevo l’accredito stampa; mi ha guardato mentre dicevo “ho un accredito” (magari solo perchè gli ero davanti) e io l’ho riguardato sprezzante negli occhi con uno sguardo western che nel mio cervello di idiota significava chiaramente “Stai attento a quello che fai con la tua chitarrina, sono un recensore spietato, se mi fai un disco di merda ti stronco”. Nel suo sicuramente significava: “mo’ a sto’ pigmeo si nun’ ze leva ooo meno”. Avrebbe fatto bene. Comunque sono qui per parlare del concerto di Dimartino e cascasse il mondo lo farò.
Apertura di Valentina Gravili, brindisina di nascita, romana d’adozione cantautrice dalle influenze mediorientali sia in viso che nelle melodie. Mi ricorderò della sua performance per il pedale che il batterista aveva collegato al microfono il quale moltiplicava le voci in maniera che la Gravili sembrasse accompagnata da un coro di Bonzi. Bell’effetto. Ma arriviamo al concerto del cantautore siciliano: Dimartino si presenta in total black: giacca, pantalone, barba rifilata e t-shirt scollatissima senza peli sul petto: non aggiungo altro. Bel trio, quello di Dimartino, dal suono particolare e dovuto al fatto che lui suona alternativamente il basso o la chitarra e quindi pur in ambito rock complessivamente risulta molto pulito e ben equilibrato. Talmente equilibrato che quando in qualche pezzo vengono utilizzate delle sequenze la voce finisce per soffocare in mezzo al volume sonoro accresciuto. Una per una sfilano molte delle canzoni che compongono i suoi primi due dischi e l’ultimo ep Non Vengo più Mamma e in più una bella e intensa versione di “Sobborghi” di Piero Ciampi. Giusto Correnti alla batteria sembra suonare in un gruppo Indie Rock inglese più che in una band di un cantautore, Angelo Trabace con la partecipazione teatrale e la gestualità facciale di un cantante neomelodico dà bella mostra delle sue indiscutibili doti di pianista. Complessivamente il live è piacevole ed anche più energico di quello che mi aspettassi dalla produzione in studio, una bella sorpresa. A volte ho avuto la senzazione che l’ interplay fosse ancora un pò acerbo, come se fosse la risultante monolitica di tre diversi modi di sentire il repertorio, poco comunicanti tra di loro e ancora un pò postadolescenziali.
Nulla che non si acquisti con qualche altro anno di live. Spettacolo nello spettacolo la presenza di Fabi vicino al bancone e gli sguardi furtivi di molti degli spettatori per cercarne di capire le impressioni dalle reazioni, quasi a volere da lui una legittimazione per farsi piacere il concerto. Una sorta di imperatore musicale che con lo scuotere della testa invece che con il pollice in alto poteva legittimare o meno un pezzo piuttosto che un altro. Spettacolo nello spettacolo, nello spettacolo all’uscita: alcuni vanno verso il banco del merchandising di Dimartino ma molti di più rimangono a chiedere autografo e foto ricordo a Fabi. Non cambieremo mai.
Marazzita – Mi gioco i sogni a carte
“Mi gioco i sogni a carte” è il secondo EP del “riccio” giovane cantautore calabrese fuori sede Marazzita.
L’EP è composto da sei brani di durata piuttosto radiofonica (a cavallo dei tre minuti e un po’ in media). I testi sono probabilmente la parte più forte del lavoro del cantautore calabrese: tante cose da dire, tante storie che parlano del tempo, della malinconia insita nell’anima evidentemente in fase di cambiamento di Peppe Marazzita, il tutto condito da toni spesso ironici, quasi sempre tristemente arresi ad una realtà che si dimostra, con il passare del tempo, sempre meno simile al sogno del giovane calabrese. La malinconica ironia dei testi è accompagnata egregiamente da arrangiamenti minimali ed efficaci, a volte quasi volutamente trascinati, a volte irriverentemente “un passo avanti”. Plauso particolare ai synth di Gianluca Di Vincenzo nella traccia numero 4, “Un balcone coi fiori”.
L’EP si apre con “Maledetto”, una ballata dedicata al tribolato cantautore livornese Piero Ciampi. Da subito si intuisce il leitmotiv del disco, la dolce apatia e disillusione nelle parole e nella musica della generazione cantautorale degli anni zero. Volendo cercare influenze nel lavoro di Marazzita possiamo citare Max Gazzè (in particolare nella seconda traccia, “Poster”), qualcosa di Bennato, alcune atmosfere di Tiromancino. In generale però Marazzita appare originale e non categorizzabile, anche se assolutamente fruibile, commercialmente parlando.
Nel terzo brano Marazzita non lesina in quanto a metafore e si interroga, cantando su una musica spensierata e dal sapore di hit estiva da juke-box sulla spiaggia, riguardo al futuro del mare, della sua Calabria e in generale del Belpaese. La quarta traccia è un invito per una cenetta romantica con tanto di Chianti e fiori (finti) sul balcone, una scusa come un’altra per raccontare qualcosa dell’insoddisfazione e del disagio di Marazzita, con il sorriso amaro sempre sulle labbra.
Nella quinta e penultima traccia “Vai via da qua” Marazzita cita il titolo dell’EP e cioè la sua volontà di giocarsi i sogni a carte, raccontando definitivamente della sua delusione per ciò che avrebbe voluto fosse ma non è, della ricerca di un rimedio per poter cambiare le cose, magari per trovare il coraggio di andarsene. Il disco si conclude con “L’artista da giovane”, brano che racconta del recente passato di Marazzita proprio come fa James Joyce ne “Il ritratto dell’artista da giovane”.
Il cantautore calabrese si conferma un’interessantissima realtà che fa della sintesi e della semplicità del linguaggio la sua arma migliore. Le melodie e le atmosfere sono tutt’altro che underground, nonostante si possa ad oggi considerare il fuori sede calabrese ancora un abitante della famigerata “nicchia”.
Consiglio vivamente l’acquisto di questo disco a chiunque abbia voglia di ascoltare un punto di vista tutto sommato comune ma raccontato in modo originale e soprattutto sincero da un giovane che continua a “cantare i propri sogni sopra e sotto un palco, in un’estate su una spiaggia senza spiaggia”.