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OffSetFest @ Magazzino sul Po, Torino, 14-15 Ottobre 2016

Written by Live Report

Il Magazzino sul Po di Torino ha tenuto a battesimo venerdì e sabato scorsi l’OffSetFest, primo di una, speriamo lunga, serie di eventi che dovrebbero tenersi in vari club europei organizzati da Off Set, casa discografica ed agenzia di booking (che non disdegna produzioni di ambito visivo) con sede a Bologna attiva soprattutto nel campo della psichedelia, dell’Avant Rock e del Folk più libero. La proposta per questa prima edizione è di buonissimo livello, troviamo infatti sul palco dello storico locale dei Murazzi 5 nomi capaci di ingolosire il pubblico più esigente: Krano, Miles Cooper Seaton, Fuzz Orchestra, Il Sogno Del Marinaio ed Acid Mothers Temple.
La serata di venerdì viene aperta da Miles Cooper Seaton, artista statunitense probabilmente ai più conosciuto per la sua militanza negli Akron/Family, che presenta il suo lavoro solista Phases in Exile, disco registrato in Italia (paese al quale il musicista risulta legatissimo, tanto da aver deciso di venirci a vivere) grazie alla co-produzione di Trovarobato e Vaggimal, nel quale troviamo il supporto del combo veneto dei C+C=Maxigross. Il set del Nostro si muove con estrema classe nei territori Minimal Free-Folk del sopracitato lavoro unendo alle eteree atmosfere chitarristiche una voce non meno spirituale e profonda (che mi ricorda spesso per umore e intensità quella del Piers Faccini migliore), aggiungendo inoltre un tocco di eclettismo ai brani nelle loro parti esclusivamente strumentali capaci di prendere per mano il pubblico accompagnandolo tra lande estese e velate grazie ad una chitarra ora in odor del Fennesz più etereo ora più puramente Drone. Un live meditabondo, intenso, avvolgente e curatissimo, un’ottima apertura per questa prima serata del neonato festival.
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Dopo la breve pausa per il cambio palco è la volta di Krano, nuovo progetto di Marco Spigariol (Movie Star Junkies, La Piramide di Sangue, Vermillion Sands) che presenta il suo primo disco, Requiescat in Plavem, uscito lo scorso Aprile per Maple Death Records. Marco e la sua band propongono atmosfere tipicamente anni Sessanta: Folk, Blues e Country qua e là sporcati e storti da attitudine ed esigenze personali, come quella di cantare in dialetto veneto; un dialetto ben lontano dal suonarmi familiare ma così ben incastrato nel sound proposto da farmi pensare che la scelta di usarlo sia quasi stata inevitabile oltre che assolutamente azzeccata. Live godibilissimo (ben più di quanto inizialmente immaginassi) che apre la strada agli headliner di questa prima serata: Il Sogno del Marinaio.
L’attesa per questo trio delle meraviglie composto da Mike Watt al basso e da due dei più grandi talenti dell’underground nostrano, Stefano Pilia alla chitarra ed Andrea Belfi alla batteria, è piuttosto palpabile. Mike Watt è stato tra i più importanti protagonisti della musica indipendente mondiale con i Minutemen (senza dimenticare le importanti esperienze con band come i Dos ed i fIREHOSE) e per quanto riguarda Il Sogno del Marinaio credo basti ascoltare i 2 lavori sin qui pubblicati da questo progetto (La Busta Gialla del 2013 e Canto Secondo dell’anno successivo) voluto da Stefano Pilia per capire che ci sarà da divertirsi. Ed i tre sul palco effettivamente se la godono alla grande, forse proprio Mike, col suo entusiasmo da ragazzino, più di tutti, ed insieme a loro se la gode tutto il pubblico accorso al Magazzino sul Po che pezzo dopo pezzo diventa sempre più caldo ed entusiasta per uno di quei live che si vorrebbe non finissero mai. Definire il suono di questo trio è praticamente impossibile, durante il set i generi toccati sono i più vari. Si va dalla morbida spigolosità tra Post e Math Rock della dissonante “Skinny Cat”, all’ondeggiare tra passaggi minimali, psichedelia dal sapore orientale e puro Blues-Rock di “Nanos’ Waltz”, dalla trascinante meraviglia “Us in Their Land” che si muove tra Noise, Math Rock e Prog, alla marcia tra Psych e Alt.Rock di “Animal Farm Tango” col suo coinvolgente finale, ed ancora il Jazz-Rock (Avant) dall’umore Punk dell’intricata “Partisan Song” e così via per un’ora, senza concessioni di tregua, andando a concludere con “Zoom”, una sorta di improvvisazione corale (anch’essa splendida) dove il trio ospita sul palco Miles Cooper Seaton. Così tra riff della madonna, stop&go altamente goderecci e pregevoli cambi di ritmo (come avrete intuito difficilmente i brani si concludono col mood iniziale), il grande eclettismo e la cosciente follia del trio, sorretto dal titanico basso di Mike, regalano un live set di altissimo livello, personalmente tra le più belle cose viste negli ultimi mesi. Un’esecuzione più che convincente ed assolutamente superiore ai già interessanti livelli delle pubblicazioni. La ricerca naturale e divertita del trio unita all’evidente piacere di suonare insieme ed alla bella risposta del pubblico liberano nell’aria quella sorta di benessere collettivo che si prova dopo aver vissuto un gran concerto. Un live tirato, asciutto ed esaltante, tre musicisti di un altro pianeta (che tra l’altro si alternano alle parti vocali) che concludono così questa entusiasmante prima serata firmata Off Set.
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La serata successiva del festival è aperta alle 22 dal live Heavy Rock delle soundtracks firmate Fuzz Orchestra con un’esibizione centrata soprattutto sull’ultimo Uccideteli Tutti! Dio Riconoscerà i Suoi. Cosa dire? Si tratta di un gruppo che ho visto suonare dal vivo ormai tantissime volte, sono tosti, passionali, energici ma allo stesso tempo meditativi. C’è Fabio “Fiè” Ferrario che con precisione maniacale, tramite giradischi e mangiacassette, lancia i famosi monologhi e discorsi rubati al grande cinema italiano degli anni 60 e 70 (gettando i dischi sul palco una volta andato il loro tempo), che svolge un gran lavoro al pianonoise e che ringrazia il pubblico a mani giunte e con tanto di inchino dopo ogni pezzo; c’è un altro gigante della batteria, Paolo Mongardi, preciso, istintivo, potente, uno dei musicisti che più mi piace veder suonare oltre che ascoltare, motivo per il quale la prima fila, che sempre si tenta di guadagnare, con i Fuzz Orchestra con gli Zeus! e via dicendo diventa una specie di obbligo personale, fin qui sempre ben ricompensato, e c’è Luca Ciffo con la sua chitarra indemoniata che marchia il suono della band estendendo, comprimendo e irrobustendo ulteriormente il tutto. Una delle migliori live band nate negli ultimi anni in Italia, un trio che non si risparmia. Genuini, sudati, intensi e bravissimi, come sempre.
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Dopo di loro tocca al nome di punta del festival, i giapponesi Acid Mothers Temple, nella loro veste più celebre (Acid Mothers Temple & The Melting Paraiso U.F.O.). La band guidata dal chitarrista Kawabata Makoto propone lunghe suite (mi pare di contarne sei, mi pare non durino mai meno di venti minuti) che abbracciano psichedelia, Noise e Kosmische Musik senza disdegnare passaggi più Jazz, Blues e Rock (ovviamente sempre suonati in modo alieno). Dopo la prima di queste suite Higashi Hiroshi, col volto semicoperto dalla lunga chioma grigia, avendo dei problemi col suono dei synth colloquia col tecnico del suono per risolverli, ma una band folle come quella in questione non può certo smettere di dare spettacolo nemmeno per un minuto e dunque ecco che il chitarrista Tabata Mitsuru, improbabilmente travestito da donna, offre uno spettacolino osé che diverte il pubblico come Makoto, il leader della band non può trattenersi dal fotografare il collega sorridendo di gusto. Tornati alla normalità (si fa per dire) parte l’unico dei loro pezzi (la loro discografia è infinita) che riconoscerò durante l’esibizione, pezzo che immagino riconosceremo in molti: “La Novia”, uno dei loro maggiori successi. Brano meraviglioso che parte da canti gregoriani a cappella per poi evolversi in soluzioni psichedeliche dal sapore indiano che a loro volta si trasformano in una psichedelia nettamente più anni 60/70 (un qualcosa tra Pink Floyd e Velvet Underground) ma molto più rumoristica. Arriva poi una suite che partendo da una versione estremamente Psych di “The Wizard” dei Black Sabbath va a legarsi a qualcuno dei loro innumerevoli brani e durante il suo tragitto si trasforma in un acidissimo Blues prima di andare a spegnersi in un muro Psych Noise (un applauso alla sezione ritmica, e non solo in questa occasione) che i volumi, stasera più alti del solito del Magazzino (mai visto così pieno) esalteranno ancor più facendo quasi tremare le mura del tempio. Stessa sorte di “The Wizard” toccherà ad un brano dei Gong che qui i Nostri, sempre legandolo a qualcosa di loro, renderanno ben più cosmico, spostandosi poi verso un suono massimalista e tornando infine a qualcosa di più cosmico e psichedelico nella parte finale. Insomma, questo concerto è una giostra freak, assolutamente godibile anche se per i miei gusti in alcuni momenti fin troppo eccessiva, per quanto ciò non tolga che questo gruppo di pazzi ci abbia regalato l’ennesimo gran bel concerto di questo piccolo grande festival alla sua prima edizione, e con loro fanno 5 su 5.
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Se chi ben comincia è a metà dell’opera chi comincia più che bene (sicuramente questo il caso dell’OffSetFest) a che punto dell’opera si trova? Non è nient’altro che il primo passo ma dopo due simili serate non si può che augurare a questo festival lunga vita e grandi viaggi in tutto il continente, sperando che crescendo chi lo organizza non si dimentichi di questa prima edizione e regali nuovi passaggi lì dove tutto ebbe inizio (Torino, Magazzino sul Po).

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La Scimmia intervista Alan Parsons

Written by Interviste

Qualche giorno prima del live di lunedì scorso 11 luglio al Laghetto di Villa Ada. Siamo sulla terrazza del 47 Hotel a Roma, a destra la Bocca della Verità, a sinistra l’anagrafe. Io e il mio manager diamo da bere alla smania con due peroncini pagato 8.50 euro l’uno mentre Parsons ritarda.

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The Winstons – The Winstons

Written by Recensioni

I The Winstons sono un trio formato da Enro Winstons (tastiere, fiati, voce), Rob Winstons (basso, chitarra, voce) e Linnon Winstons (batteria, tastiera, voce). Trattasi di un rockettaro, ma pur sempre amorevole, papà e dei suoi pargoletti? O forse di 3 giovani capelloni scapestrati conosciutisi in un college, magari a sud-est di Londra, che scoprendo di portare lo stesso cognome e strimpellare 3 diversi strumenti decidono di metter su un gruppo per far baldoria insieme? No, niente di tutto questo, almeno in parte, perché dietro ai nomi sopra citati si celano le figure di 3 rappresentanti di razza della musica italiana degli ultimi anni: Enrico Gabrielli (Enro), Roberto Dell’Era (Bob) e Lino Gitto (Linnon), vero però è che soprattutto a sud-est di Londra il trio tende lo sguardo, alla Canterbury dell’indimenticabile decennio 65-75, e trattandosi dunque di Progressive era pressappoco impossibile che ad occuparsi di loro non fosse che la AMS Records, casa discografica molto attenta al presente come al passato di questo genere musicale. Il disco si apre con “Nicotine Freak”, brano scelto anche come singolo ad anticipare l’uscita dell’album, scelta più che condivisibile poiché si tratta di uno dei pezzi migliori del lotto ed è capace di rendere da subito chiare le intenzioni del trio. La voce, seppur meno emozionale, richiama a Robert Wyatt, il lavoro sulle armonizzazioni vocali è più che buono e musicalmente “Nicotine” suona come un Progressive che col passar del tempo diviene sempre sempre più freak. Si prosegue con brani che pur conservando sempre una matrice Progressive e Psichedelica si muovono in diversi territori, passando da brani più jazzati (“Diprodton”, che porta in realtà un titolo giapponese) a caldi saliscendi Pop (“Play With the Rebels” e “She’s My Face”) senza lasciarsi sfuggire neanche atmosfere più cosmiche (“…On a Dark Cloud”) o colorazioni in parte più scure e robuste (“Dancing in the Park With a Gun”). I 3 Winstons si muovono piuttosto agevolmente tra tutti questi territori ed il disco scorre via piacevolmente, ma senza picchi in grado di regalare quelle vibrazioni, quelle sensazioni, capaci di rendere grande un album o comunque una canzone, e purtroppo nel trittico finale (trittico per chi li ascolterà su CD, MC o in streaming, poiché nella versione in vinile “Number Number”, altra canzone che in realtà porta un titolo giapponese, e che probabilmente risulta essere la migliore delle 3, non sarà presente) il trio mi sembra soffrire un po’ di manierismo, non la migliore delle sofferenze per chi propone questo tipo di sound. Ai nostri, qua e là supportati anche dall’immancabile Xabier Iriondo e dalla tromba di Roberto D’Azzan, va il merito di ricordare molti ma di essere uguali solo a sé stessi, durante l’ascolto oltre al già citato Robert Wyatt, non sarà difficile trovare influenze dei Gong come dei Beatles, di Kevin Ayers come dei primissimi Pink Floyd e molto altro ancora risalente al già citato decennio dal quale gli Winstons sembrano provenire e non solo amare e celebrare, o prendere a pretesto per sfornare un disco. Il trio suonerà live in lungo e in largo per l’Italia per tutto il mese di Gennaio (e non è da escludere vengano annunciate nuove date in seguito), consiglio agli amanti del genere di selezionare la data più vicina a casa propria e non mancare all’appuntamento, credo che dal vivo gli Winstons possano regalarci belle sorprese essendo ancor più liberi di poter suonare free.

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Intervista agli Abiura

Written by Interviste

Simple Minds 27/07/2014

Written by Live Report

Devo ammetterlo: questa era la quarta volta che vedevo dal vivo gli scozzesi Simple Minds, miei idoli di gioventù che non ho mai smesso di seguire durante la loro lunga carriera. Anni fa ho avuto anche la fortuna di essere nello staff del Soundlabs Festival che aveva l’onore di ospitarli a Roseto degli Abruzzi e grazie al mio amico Vincenzo Andrietti, direttore artistico nonché factotum della manifestazione, ho persino coronato il sogno di poterli avvicinare e di scambiarci anche qualche parola (un po’ in italiano e un po’ in inglese dato che sia Charlie Burchill sia Jim Kerr parlano e capiscono perfettamente la nostra lingua). Il 27 luglio invece mi è capitato, grazie a Rockambula, di assistere al loro concerto (con la stessa formazione di allora) all’Auditorium Parco della Musica, ormai tempio consacrato per tutti i più affermati artisti moderni. Il concerto, inutile dirlo, era totalmente sold out, fra il pubblico era possibile scorgere gente di tutte le età (c’erano persino dei sessantenni che conoscevano a memoria tutte le loro canzoni!) e faceva parte di una delle sette date italiane del The Greatest Hits Tour, logica conseguenza del disco celebrativo del gruppo Celebrate – The Greatest Hit.

(Il trono su cui sedeva Jim Kerr nelle pause)
il trono su cui sedeva Jim Kerr nelle pause 600

 Il live si è aperto con “Waterfront” e si vede subito Jim Kerr che si prostra in segno di rispetto davanti alla folla che lo incita battendo le mani a tempo durante tutta la canzone. Il cantante, che è apparso in forma smagliante ed invidiabile nonostante avesse da poco superato i 55 anni di età, ha salutato quindi i presenti prima di “Broken Glass Park” con un “Grazie mille! Come stai? Che piacere tornare per noi a Roma; sarà una bella sera; sera fresca;”. Quando è la volta di “Love Song” il basso di Ged Grimes si fa ancora più granitico ed un assolo iniziale di Charlie Burchill che verrà seguito da uno della corista Sarah Brown, nota per aver lavorato al fianco di artisti quali Pink Floyd. “Mandela Day” viene introdotta come una canzone per Mandela (“nowwesing a song for Mandela, Thank You!”) abbastanza fedele alla versione in studio con molti virtuosismi di Mel Gaynor alla batteria mentre per la successiva “Hunter & The Hunted” Kerr ricorda a tutti che era contenuta in quello che forse è l’album più conosciuto del gruppo, New Gold Dream (81-82-83-84). In “Promised You a Miracle” basso e chitarra si scambiano per poco di postazione, giusto il tempo di arrivare a “Glittering Prize” (durante la quale Jim si distende letteralmente sul palco mentre Andy Gillespie si concede anche lui un assolo di tastiere), a cui segue l’inedita “Imagination” in cui il cantante scozzese chiede: “Tutto a posto Roma? Everything Ok? Let me seeyourhands!”. “I Travel” invece era quel brano che apriva Empires and Dance che fallì a livello commerciale ma che rimase per sempre nel cuore di tutti i fans del gruppo. “Dolphins” è invece molto più pacata e forse serve per smorzare le atmosfere in vista del lungo strumentale “Theme For Great Cities”, durante il quale ovviamente Jim Kerr si gode un (seppur breve) meritato riposo lasciando la scena ai compagni, ma soprattutto a Sarah Brown che ha l’onore di cantare da sola “Dancing Barefoot”, brano di Patti Smith (ripresa in passato anche dagli U2) che venne pubblicato come singolo nel 2001 in occasione dell’album di cover “Neon Lights”. Inizia così quella che si potrebbe quasi definire la seconda parte del set durante la quale viene introdotta la band e c’è spazio anche per un breve dialogo col pubblico che riportiamo quasi interamente (o mettendo qualche parola): “Parte finale del concerto, Roma andiamo! Prima era un concerto per mia mamma, una bella mamma. Sono stanco, sono vecchio, ho fame, normale a Roma, sono contento, sono molto molto contento; grazie per questa bella serata! Sempre ricordiamo prima volta in Roma tanti tanti anni fa in Ostia al Palaeur quando c’è neve… Perché siamo sempre giovani no?”. E’ il tempo di un’altra cover, “Let the Day Begin” dei The Call, che fa da spartiacque a “Someone Somewhere in Summertime” durante la quale il pubblico si alza dai posti a sedere per stare più a contatto con la band.

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Il bello deve però ancora venire soprattutto se consideriamo che il brano successivo è “See The Lights” che però non ottiene lo stesso effetto di “Don’t You Forget About Me”. Jim Kerr se ne esce con un bonario “Ma che casino…” prima di richiedere il silenzio e di ringraziare “per questa bella serata” e salutare con un secco “Buonanotte!”. Ovviamente però non poteva mancare il bis, ed i Simple Minds risalgono sulle assi del palco per concedere l’inedita “Big Music” e si concedono un ruffiano “Non vogliamo tornare a casa, vogliamo suonare la musica giusto? Roma, tutti, Let me seeyourhands! E’ Incredibile”. Siamo agli sgoccioli ed ecco arrivare “New Gold Dream (81-82-83-84)”, incantevole come sempre, prima del secondo bis che includerà in sequenza: “Letit All Come Down”, “Alive and Kicking” e “SanctifyYourself”. Il concerto finisce con un sottofondo inaspettato, “Jean Genie” di David Bowie, che il leader dei Simple Minds si diverte anche a ballare, non prima di aver salutato le migliaia di persone presenti.

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Una Lux, guarda il video di “Simon”

Written by Senza categoria

Il gruppo Newyorkese UNA LUX è esteticamente molto piu ambizioso del tipico gruppo Indie Rock, visto che non ha paura di citare pittori Barocchi, registi avantgarde, Pink Floyd e Portishead. Il chitarrista del gruppo, Matteo Liberatore, che ha diretto il video, dice che “il video e’ pieno di omaggi. Abbiamo cercato di far riferimento all’uso delle luci di Storaro, gli studi sui corpi e le forme di Caravaggio, il mondo enigmatico di Lynch, e poi abbiamo montato il tutto come fosse un film della Nouvelle Vague”. Il risultato finale e’ un surreale studio sulla luce e sui corpi che si sposa perfettamente con un pezzo dove suoni sintetizzati si fondono con la voce sensuale di Kelso Norris.

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La Nevrosi

Written by Interviste

Ciao ragazzi, volete spiegarci bene che tipo di band è La Nevrosi? Fateci un quadro completo della vostra musica.

Siamo un gruppo Pop Rock napoletano composto da quattro  elementi:  Antonio Cicco (voce), Enzo Russo (chitarra), Marcella Brigida (basso), Giulia Ritornello (batteria). La nostra musica ha un sound British, né troppo Rock, né troppo Pop, magari “poco italiano” ma in lingua italiana.

Avete fiducia nella scena musicale italiana oppure è meglio togliere le tende e provare all’estero?

Come in qualsiasi campo devi credere in quel che fai altrimenti è inutile iniziare. Certo,  il panorama musicale italiano non regala molte speranze. Basta accendere la radio per accorgersi la poca apertura verso il mondo emergente e, quello che c’è di nuovo proviene dai talent show, un prodotto sicuro, già testato dagli ascolti in tv. Utilizziamo l’italiano per esprimerci e quindi non abbiamo mai pensato di provare all’estero. Il problema di fondo della musica italiana è lo stesso che ad esempio attanaglia il calcio nostrano. Non è la “materia prima” che manca ma la voglia di scoprire, di cercare, di rischiare, di investire. Risulta poi estremamente selettivo, lo sforzo economico a cui deve sottoporsi un artista affinché possa sentire un proprio brano passare in radio,  una propria recensione pubblicata sui magazine del settore che si va a sommare a quello per la realizzazione dell’album, dei videoclip. Molte band muoiono proprio perché non riescono a sostenere tali spese.

Il vostro disco d’esordio Altro che Baghdad, come sta andando? Ci fate una piccola recensione in tre righe?

Da quando è uscito Altro Che Baghdad, siamo orgogliosi di affermare che non abbiamo mai avuto una recensione o un commento negativo. Certo, il bacino di utenza che siamo riusciti a raggiungere è limitato ma non possiamo lamentarci. In verità ci sono state anche alcune critiche ma del tutto costruttive e condivisibili. Anche le vendite sembrano non andar male. Oltre a quelle effettuate tramite il circuito Believe Digital di cui non abbiamo ancora i dati, quotidianamente ci contattano su Facebook per ordinare una copia del nostro lavoro. L’album è caratterizzato da atmosfere ansiogene vestite degli abiti dell’Alternative Rock contaminato con l’Elettronica ed il Progressive che danno al sound un sapore britannico. Le immagini veloci e spesso cinematografiche che emergono dai testi rabbiosi ma anche dolci e romantici, raccontano di disagi, amori, passioni e ribellioni.

Pensate che qualcuno non abbia colto tutto quello che c’era da cogliere nella vostra musica oppure tutto è stato recepito?

Sia nei testi che nella musica abbiamo cercato di non essere “complessi”, tutto l’album è molto istintivo. Ci piace però richiamare l’attenzione dell’ascoltatore sulla ricerca e l’utilizzo di alcune sonorità non proprio “italiane”.

Quali sono gli ascolti de La Nevrosi? Di cosa vi nutrite musicalmente parlando? Ma anche in verità, siete vegetariani, vegani, carnivori, cannibali?

Ci siamo spesso posti la domanda su chi abbia influenzato in maniera preponderante la nostra musica. Non c’è una vera risposta. Riteniamo che chi faccia musica debba saper ascoltare tutto ed innamorarsi di pochi. Nei pochi ci sono i più grandi, i Beatles, Rolling Stones, Pink Floyd se guardiamo al passato. I Muse, Radiohead,  U2, RATM, RHCP se pensiamo al presente. Ci piacerebbe essere vegetariani ma siamo dei cannibali. (ride ndr)

Avete particolari esigenze durante le live performance? Siete soddisfatti dei vostri concerti sia a livello di pubblico che remunerativo?

Questo è il nostro primo album e La Nevrosi non ha fatto molti live. Quei pochi sono stati molto intensi. Anche le performance in TV al Roxy Bar di Red Ronnie sono state molto intense e di successo. Per quanto riguarda il lato “remunerativo”, c’è una domanda di riserva?

Avete problemi con i gestori dei locali? Ci sarebbe qualcosa da migliorare in tal senso?

Sono i gestori di locali che hanno molti problemi nella gestione della loro attività. Problemi che si ripercuotono sulle band che fanno musica live, problemi che vanno dai permessi, alle insonorizzazioni assenti fino ad arrivare a quelli di natura economica, organizzativa, pubblicitaria. Un bel passo avanti si avrebbe se il mestiere di musicista iniziasse ad esser considerato da tutti come un lavoro vero e proprio, alla stregua di altri. Bisognerebbe inoltre fermare la moda che sta vedendo la nascita di locali che non hanno una propria identità. Locali che sono allo stesso tempo bar, pub, live club, sala giochi, ristorante, vineria, ecc. e nella pratica non sono nulla di tutto ciò.

Cosa bolle nella pentola de La Nevrosi? Avete qualche anticipazione da farci?

Stiamo lavorando al secondo album. Sono pronti già cinque pezzi nuovi e contiamo per fine anno di chiuderci  in sala per registrare il tutto. Il nuovo album sarà ancora più diretto e forte del precedente. In questo periodo siamo molto ispirati.

Soldi a parte (che vogliamo tutti), vorreste un grande futuro nell’indie o nel mainstream?

Pensiamo che il posto giusto de La Nevrosi sia il mainstream. Il nostro sogno è semplice. Riuscire a raggiungere più persone possibili con la nostra musica. I soldi? Non puoi pensare ai soldi  in questa fase e certamente non sono i soldi che ti portano a scrivere canzoni.

In questo spazio fate pubblicità alla vostra band, perché qualcuno dovrebbe ascoltare la vostra musica, dite quello che non vi è stato chiesto ma che tenete a dire…

Dovete ascoltare il nostro album perché troverete parte di voi nelle nostre canzoni. Dovete ascoltare il nostro album perché crediamo che sia davvero un ottimo lavoro. Dovete ascoltare il nostro album perché la sezione ritmica è tutta al femminile e Marcella e Giulia sono davvero due fighe. Ecco delle tre motivazioni l’ultima sarà quella che funzionerà di più! Che sia chiaro,  la presenza di donne nella band non è stata una scelta commerciale. Ci conosciamo praticamente da una vita. Ci teniamo a dire che La Tua Canzone, uno dei brani presenti in Altro Che Baghdad,è finito su Il Mattino di Napoli per la storia raccontata!! Non vi diciamo nulla così andate ad ascoltarla. Nell’album c’è anche una cover di Vedrai,Vedrai ( di Tenco) riarrangiata in versione rock. Questo è quanto. Ciao a tutti e grazie per l’intervista.

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Beck – Morning Phase

Written by Recensioni

Immaginate per un attimo questa situazione. Un’afosa mattinata estiva, una come tante. Un risveglio tranquillo e rilassato, senza impegni di sorta, senz’alcuna fretta. Caffé bollente, nero, intenso, dall’aroma avvolgente, rigenerante. Una sigaretta d’ordinanza, magari consumata in balcone, ancora in pigiama. Avete focalizzato? Bene, a questo punto partiamo dall’assunto che il dodicesimo studio album di Beck David Campbell, Morning Phase, si configura senz’alcun dubbio come la perfetta soundtrack della circostanza sopracitata. Quarantasette minuti scanditi da serafica rilassatezza, una grandiosa opera Folk mirabilmente descritta da un ritmo interiore che fluisce lento, particolarmente rarefatto, quasi immobile ed indistinto. Un lavoro essenzialmente asciutto e minimale, privo di arzigogoli e complicazioni, frutto di una scrittura apparentemente semplice e naïf, ma che trova nell’istintiva naturalezza dell’artista californiano la sua anima vibrante, il suo fulcro primigenio e vitale. Insomma, tredici brani nudi e crudi, dal sapore squisitamente “analogico”: batteria, basso, chitarra acustica e voce, accarezzati da languidi e misurati arrangiamenti orchestrali che, inevitabilmente, sottraggono spazio vitale ai rarissimi inserti elettronici (Odelay sembra lontano anni luce ormai).

Le influenze di Morning Phase (considerato, per analogia stilistica, quasi un sequel di Sea Change) affondano le proprie radici nell’immortale percorso artistico di Neil Young (esplicitamente citato come fonte privilegiata in diverse interviste), ed a tratti nella “fase acustica” dei Pink Floyd post-Barrett. Pare che il mood dell’album sia stato dettato da una fantomatico avvicinamento a Scientology, da fastidiosi malanni fisici, delusioni amorose e chissà cos’altro. Ma, in fondo, si tratta solo di rumors. Per quanto concerne la tracklist, meritano particolar menzione brani come “Heart Is a Drum” che, invitando l’ascoltatore ad assaporare pigramente la calura estiva, si configura essenzialmente come un vero e proprio inno al perder tempo, “Say Goodbye”, il cui canto sofferto é magistralmente interpretato dal banjo di Fats Kaplin, la languida “Blue Moon” (indubbiamente uno dei migliori teaser dell’album) e la commovente closing track “Waking Light”, con la quale si torna a porre l’accento sul tema ricorrente del risveglio, come a voler concludere un ciclo, una sorta di struttura ad anello. Sembra che non dovremo attendere molto per degustare il nuovo capitolo della saga Beck. Prestando fiducia alle parole dell’artista, si tratterà di un progetto ben diverso da Morning Phase, “eclettico e vibrante di energia live”. Attendiamo quindi con ansia.

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Sique & Petrol – Suono Fantasma

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L’Italia pare terreno fertile per l’esplosione di piccole mode spesso destinate a sciogliersi sotto i primi raggi di sole. Questi ultimi tempi, la tendenza che sembra dare maggiori garanzie di successo è il duo Indietronic uomo/donna ed è proprio questa la formula proposta da Sique & Petrol, compagine bresciana composta da Silvia Dallera (SiQue) e Alessandro Pedretti (Petrol) forse ai più fanatici noto per le esperienze con EttoreGiuradei e Colin Edwin dei Porcupine Tree. Dietro la fumosa definizione Indietronic si cela una miriade di mondi sommersi e, anche in questo caso, bisogna scavare oltre a questa densa e spessa nebbia per comprendere cosa sia questo Suono Fantasma. Una commistione di sonorità che vanno dall’Ambient e il Dream Pop di stampo quasi nordeuropeo fino al più classico Alternative Rock passando per l’Elettronica e il Trip-Hop.

Bellissimo il viaggio sonico che s’intraprende negli undici minuti di psichedelia liquida di “Ocean Sky & Moon” (suonata quasi in stile primi Piano Magic), con un basso essenziale e prepotentemente assillante che, quasi richiama alla mente certi Pink Floyd mentre la voce di SiQue alterna fasi soffici ad altre più corrosive, inseguendo il ricordo della straordinaria Elizabeth Fraser (Cocteau Twins) sia nella timbrica sia nell’indole. E proprio lo stile di SiQue, capace di passare agevolmente dal singing più standard e Pop al più ricercato virtuosismo stilistico è una delle armi di questo Suono Fantasma che si avvale anche di un discreto lavoro di ricerca dei suoni, glitch Elettronici che sorvolano lidi di sperimentazione senza mai atterrare ma viaggiando dritti verso piste apparentemente più sicure. Un album che in taluni momenti (“Ocean Sky & Moon” e “Light Tendtrills) affascina sfiorando, se non la perfezione, certo un livello ragguardevole sia per esecuzione, tecnica e composizione sia per intensità emotiva e capacità di trascinare, ma che, nel complesso, non riesce a stupire veramente, né a trovare melodie che lascino il segno; l’indifferenza che resta alla fine dei diversi ascolti è il giudizio più schietto e sincero che si possa dare.

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Bologna Violenta – Uno Bianca

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Con l’uscita, nel 2012, di Utopie e Piccole Soddisfazioni, Nicola Manzan, in arte Bologna Violenta, ha fissato per sempre i paletti della sua espressione stilistica, permettendoci di distinguerlo al primo ascolto, anche in assenza quasi totale della voce, sua o di chi altri. Con quel terzo disco, il polistrumentista già collaboratore di Teatro Degli Orrori, Non Voglio Che Clara, Baustelle, sembrava gridare all’Italia la sua ingombrante presenza, divenendo poi uno dei punti fermi (grazie anche alla sua etichetta, Dischi Bervisti) di tutta la scena (ultra) alternativa che non si nasconde ma si offre in pasto a ogni sorta di ascoltatore, dai più incalliti cantautorofili, fino agli inguaribili metallari. Nicola Manzan non colloca alcuna transenna tra la sua arte e i possibili beneficiari e allo stesso modo non pone freno alla sua creatività, fosse anche spinto dal solo gusto per il gioco e l’esperimento divertente magari senza pensare troppo al valore per la cultura musicale propriamente detta. Arriva perfino a costruire una specie di storia della musica, riletta attraverso quaranta brani che sono rispettivamente somma di tutti i pezzi composti da quaranta differenti musicisti. Dagli Abba ad Alice in Chains passando per Art of Noise, Barry White, Bathory, Bee Gees, Black Flag, Black Sabbath, Bob Marley, Boston, Carcass, Charles Bronson, Dead Kennedys, Death, Donna Summer, Eagles, Faith No More, Genesis, Jefferson Airplane, Kansas, Kyuss, Led Zeppelin, Michael Jackson, Negazione, Nirvana, Os Mutantes, Pantera, Pink Floyd, Queen, Ramones, Siouxsie and the Banshees, T. Rex, The Beatles, The Clash, The Doors, The Police, The Velvet Underground, The Who, Thin Lizzy e Whitney Houston. Ogni traccia è il suono di tutti i frammenti che compongono la cronaca musicale di quell’artista. Poco più di una divertente sperimentazione che però racconta bene il soggetto che c’è dietro.

Dopo questo esperimento sonico per Bologna Violenta è giunta finalmente l’ora di far capire a tutti che non è il caso di scherzare troppo con la sua musica e quindi ecco edito per Woodworm, Wallace Records e Dischi Bervisti ovviamente, il suo quarto lavoro, Uno Bianca.  Se già nelle prime cose, Manzan ci aveva aperto le porte della esclusiva visione cinematografica delle sue note caricando l’opera di storicità, grazie a liriche minimali, ambientazioni e grafiche ad hoc, con quest’album si palesa ancora più la valenza fortemente storico/evocativa della sua musica, in contrapposizione ai cliché del genere Grind che lo vedono stile violento e aggressivo anche se concretamente legato a temi pertinenti politica e società. La grandezza di Uno Bianca sta proprio nella sua attitudine a evocare un periodo storico e le vicende drammatiche che l’hanno caratterizzato, attraverso uno stile che non appartiene realmente all’Italia “televisiva” di fine Ottanta e inizio Novanta. Il quarto album di Manzan è proprio un concept sulle vicende della famigerata banda emiliana guidata dai fratelli Roberto e Fabio Savi in attività tra 1987 e 1994, che ha lasciato in eredità ventiquattro morti, centinaia di feriti e strascichi polemici sul possibile coinvolgimento dei servizi segreti nelle operazioni criminali. Un concept che vuole commemorare e omaggiare la città di Bologna attraverso il racconto di una delle sue pagine più oscure, inquietante sia perché i membri erano appartenenti alla polizia e sia perché proferisce di una ferocia inaudita. Il disco ha una struttura categorica che non lascia spazio a possibili errori interpretativi e suggerisce la lettura già con i titoli dei brani i quali riportano fedelmente data e luogo dei vari accadimenti. Per tale motivo, il modo migliore di centellinare questo lavoro è non solo di rivivere con la memoria quei giorni ma di sviscerare a fondo le sue straordinarie sfaccettature, magari ripassando con cura le pagine dei quotidiani nei giorni prossimi a quelli individuati dalla tracklist, perché ogni momento del disco aumenterà o diminuirà d’intensità e avrà un’enigmaticità più o meno marcata secondo il lasso di tempo narrato o altrimenti attraverso la guida all’ascolto contenuta nel libretto.

Sotto l’aspetto musicale, Manzan non concede nessuna voluminosa novità, salvo mollare definitivamente ogni legame con la forma canzone che nel precedente lavoro era ancora udibile in minima parte ad esempio nella cover dei Cccp; i brani sono ridotti all’osso e vanno dai ventuno secondi fino al minuto e trentuno, con soli due casi in cui si toccano gli oltre quattro minuti. Il primo è “4 gennaio 1991 – Bologna: attacco pattuglia Carabinieri” che racconta l’episodio più feroce e drammatico di tutta la storia dell’ organizzazione criminale; la vicenda delle vittime, tre carabinieri, del quartiere Pilastro. La banda era diretta a San Lazzaro di Savena per rubare un’auto. In via Casini, la loro macchina fu sorpassata dalla pattuglia e i banditi pensarono che stessero prendendo il loro numero di targa. Li affiancarono e aprirono il fuoco. Alla fine tutti e tre i carabinieri furono trucidati e finiti con un colpo alla nuca. L’assassinio fu rivendicato dal gruppo terroristico “Falange Armata” e nonostante l’attestata inattendibilità della cosa, per circa quattro anni non ci furono responsabili. Il secondo brano che supera i quattro minuti è “29 marzo 1998 – Rimini: suicidio Giuliano Savi”, certamente il più profondo, il più tragico, il più emotivamente violento, nel quale è abbandonata la musica Grind per una Neoclassica più adatta a rendere l’idea di una fine disperata, remissiva e da brividi. L’episodio che chiude l’opera è, infatti, il suicidio del padre dei fratelli Savi, avvenuto dentro una Uno Bianca, grazie a forti dosi di tranquillanti e lasciando numerose righe confuse e struggenti.

Come ormai abitudine di Manzan, alla parte musicale Grind si aggiunge quella orchestrale e a questa diversi inserti sonori (a metà di “18 agosto 1991 – San Mauro a Mare (Fc): agguato auto senegalesi” sembra di ascoltare l’inizio di “You’ve Got the Love” di Frankie Knuckles ma io non sono l’uomo gatto) che possono essere campane funebri, esplosioni, stralci radiotelevisivi, rumori di sottofondo, e quant’altro. Tutto serve a Bologna Violenta per ricreare artificialmente quel clima di tensione che si respirava nell’aria, quella paura di una inafferrabile violenza. Ora che ho più volte ascoltato i trentuno minuti di Uno Bianca, ora che ho riletto alcune pagine rosso sangue di quei giorni, comincio anche a ricordare meglio. Avevo circa dieci anni quando cominciai ad avere percezione della banda della Uno bianca e ricordo nitidamente nascere in me una paura che mai avevo avuto fino a quel momento. Il terrore che potesse succedere proprio a me, anche a me, inquietudine di non essere immortale, ansia di poter incontrare qualcuno che, invece di difendermi giacché poliziotto, senza pensarci troppo, avrebbe potuto uccidere me e la mia famiglia non perché folle ma perché uccidermi sarebbe servito loro a raggiungere lo scopo con più efficacia e minor tempo. Ricordo che in quei tempi, anche solo andare in autostrada per raggiungere il mare era un’esperienza terrificante, perché l’autostrada è dove tutto cominciò. “19 giugno 1987 – Pesaro: rapina casello A-14”, qui tutto ha inizio; una delle storie più scioccanti d’Italia e uno degli album più lancinanti che ascolteremo quest’anno.

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Aut in Vertigo – In Bilico

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Una volta un componente dei Duran Duran disse che loro non erano una boy band perché si erano formati fra i banchi di scuola a differenza della maggior parte dei gruppi di oggi provenienti dai talent show televisivi. Come quella della band inglese sembra essere l’origine degli Aut in Vertigo, band italiana nata nel 2004 che nonostante qualche variazione di line up è riuscita a trovare una giusta dimensione e a dare vita al disco In Bilico.
Le radici sono quelle del Classic Rock anni 70, il quale costituisce un punto di riferimento imprescindibile senza inibire il bisogno di sperimentazione  caratterizzante dei vari percorsi compositivi. Il tutto attraverso un concept che trae spunto dalle riflessioni e dalle autoanalisi (“Passi”), dall’osservazione del mondo che ci circonda (“Volto Fragile” e la title track “In Bilico”), delle nuove città in cui tanti stronzi si accusano l’un l’altro di quello che non va (“Pelle e Peccato”) differenziandosi così nella pelle dai cosiddetti nonluoghi tanto cari a Marc Augè in cui differenti categorie di persone si mischiano e interagiscono nella vita di tutti i giorni.

La soluzione?

La potete trovare nella canzone “Rivoluzione”, in cui il cervello elabora nuove idee fuggendo dalla realtà proponendo ideali scontati attraverso gadgets del comandante Che Guevara.
Non manca anche il tema più classico, l’amore, in “Chiara”, nome che sintetizza bellezza e verità spesso uniformando le due cose, decantando l’inverno nel non averti a fianco.
Undici tracce che sembrano avere il proprio punto di forza nelle liriche, sempre molto profonde (“Fratello Gert” e “Olè Olè”) e mai banali in cui la band propone un Rock semplice ed essenziale dove si evitano (probabilmente volutamente) inutili virtuosismi che offuscherebbero il potenziale che viene fuori dalla sinergia dei singoli elementi.
Come dire: “L’unione fa la forza”. Magari se non ci fosse stata qualche similitudine troppo accentuata nell’inizio di “Deep Sigh” e “Breathe” dei Pink Floyd ci sarebbe stato anche un punticino in più nella valutazione. Meno male che gli Aut in Vertigo lasciano il meglio alla fine con “Radio Aut”, aggressiva e sempre veloce come un treno perché cominciare bene (con “Passi”) è sì importante, concludere al top è invece una scelta alquanto insolita. Quindi se volete trovare un ulteriore piccolo difetto, è solo nella tracklist.
Per il resto nulla da eccepire!

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White Mosquito – Il Potere e la sua Signora

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La seconda prova dei genovesi White Mosquito si apre (“Candido”) con esigue note spirituali, tenui, estatiche che lasciano presagire ambientazioni cosmiche e psichedeliche molto retrò, ma già con l’ingresso autoritario (“Solite Parole”) di sezione ritmica, voce e taglienti sferzate elettriche sono messi sul piatto ingredienti acidi e possenti anch’essi molto stagionati ma con uno spirito certo più battagliero di una semplice lisergia introspettiva. Sia nei testi, sia in timbrica e impostazione la voce di Sergio Antonazzo si mostra in tutta la sua aitante bellezza che permette di varcare confini dell’irriverenza beffarda, molto teatralmente Progressive, ma anche di sterzare insolentemente verso territori più aspri, indemoniati e rabbiosi. L’opening track, esclusa l’intro, è un sensazionale manifesto per la band, che racchiude in poco più di cinque minuti tutta una serie di prerogative e caratteristiche che poi contraddistingueranno tutta l’opera.

L’ascolto di questo Il Potere e la sua Signora è anche la chiave di lettura per comprendere pienamente il perché, dopo l’Ep d’esordio 20 Grammi, i White Mosquito abbiano potuto aprire una delle date live dei Deep Purple. Proprio la band di Ian Gillan pare uno dei punti di riferimento più evidenti ma non mancano certo paragoni sia con l’Hard Rock tendente al Folk/Blues con sottigliezze in stile Led Zeppelin (“Dimmi”) e sia con quello più robusto alla maniera degli australiani Ac/Dc (“Demone”). Eppure anche la tradizione italiana più datata di scuola Litfiba (“Forme”, “Non Smetto”) come la più attuale aperta dagli Afterhours (“Stato Confusionale”) è omaggiata in quanto a stile e forma espressiva e la stessa scelta di accompagnare con la lingua nostrana un sound tanto anglosassone è sintomo della necessità per i liguri di legarsi alla propria terra, in qualche modo cantandone le contaminazioni, la storia e il presente.

Quella lisergia e quelle ritmiche ripetitive che paiono elevare un muro sonico nello stile dei Pink Floyd più istrionici si ripresentano con la traccia numero quattro (“Manifesto”) nella quale, oltretutto, la vocalità di Antonazzo può sbizzarrirsi scivolando di volta in volta in meandri poetici e colleriche sfuriate che si chiudono con un inquietante fischiettio che richiama un noto motivo che non vi svelo, anzi vi sfido a riconoscere. Un intermezzo giocoso (“Anche Qst è Rocchenroll”) dalla difficile interpretazione apre la parte finale del disco che talvolta (“In Faccia”) nasconde delle miscele tra un moderno Alt Rock e un più classico Progressive, racchiudendo delle infinite possibilità per un genere forse messo nel cassetto con troppa solerzia. Se “Le Solite Parole” suona come un programma che evidenzi le qualità di Il Potere e la sua Signora, al contrario “Nuvola” ne mostra i limiti. I White Mosquito azzardano un testo aggressivo che sfocia nell’inverosimile, propongono un’effettistica e cenni di sperimentazione che restano solo degli abbozzi di qualcosa che sarebbe potuto essere, ma non è. Caricano le materie di veleno ma non riescono a suonare con la stessa veemenza, forse troppo attenti a non oltrepassare i limiti.

Un album di pregevole fattura quanto ad esecuzione e pieno anche di buone idee. Un disco che, per quanto peschi a piene mani dal passato, riesce a non suonare vecchio lasciando intravedere alcuni spunti potenzialmente affascinanti. I White Mosquito scelgono la strada più difficile per non apparire obsoleti, la strada più difficile per suonare originali e per farsi apprezzare dai più giovani ma dimostrano anche di avere i mezzi per scavare nuove vie di fuga dagli anni andati. Magari iniziando dalla stupefacente, per versatilità, voce di Sergio Antonazzo. Per quanto di pregio palese non avremmo avuto bisogno di un album come Il Potere e la sua Signora ma potremmo avere bisogno di band come i White Mosquito.

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